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Riflessi bergmaniani nel Giappone contemporaneo

di Raffaele Pavoni
  Sandome no Satsujin
Data di pubblicazione su web 29/08/2017  

Unico regista giapponese in concorso, Hirokazu Koreeda è uno dei nomi più affermati del cinema nipponico contemporaneo, almeno nell’ambito della cinefilia occidentale, forse anche per l’ispirazione in parte europea del suo stile e della sua poetica. Le sue analisi sulle relazioni personali e familiari viste nel tempo lo rendono più vicino a Richard Linklater o per certi versi a Ingmar Bergman che alla maggior parte della produzione giapponese odierna. Nel suo cinema c’è una ricerca costante sulla transitorietà del presente e sulla riemersione del passato, sia esso il ricordo del padre di Little Sister (2015), la storia d’amore finita di Ritratto di famiglia con tempesta (2016) o il figlio accidentalmente scambiato all’ospedale – e ormai troppo cresciuto – di Father and Son (2013).

Stavolta però Kore’eda spiazza tutti, virando sul film giudiziario o courtroom movie (ma c’è un quasi precedente: Father and Son). Protagonista è Shigemori (Fukuyama Masaharu), avvocato di successo che accetta di difendere un uomo accusato di omicidio e di rapina, Misumi (Yakusho Koji). Sebbene quest’ultimo abbia già confessato il reato, e rischi una condanna a morte, l’avvocato non si dà per vinto, conduce un’indagine sulla persona e sulla famiglia del suo assistito e inizia a dubitare della sua colpevolezza. Ma la presunzione di innocenza si rivela una proiezione di un desiderio inconscio: la verità sembra non venire a galla, mentre Shigemori comincia a dubitare della sua stessa esistenza.


Una scena del film

Una scena del film

Abbandonata la leggerezza dei lavori precedenti, Kore’eda approda a un’opera ambiziosa e la affronta con un linguaggio più essenziale e scarno del consueto. Il film è composto principalmente da primi piani (tutti girati in Cinemascope), chiaroscuri, scale di grigi, e soprattutto silenzi, appena scanditi da pochi, eterei intermezzi musicali (un Ludovico Einaudi che entra in punta di piedi, quasi con pudore). Una texture rarefatta e un crescendo di paranoia dietro l’apparente imperturbabilità dei volti e dei dialoghi. Qualcuno per descrivere il suo cinema ha parlato di wabi-sabi (letteralmente “solitario e povero”), espressione con la quale si indica quell’atteggiamento estetico, tipico della cultura giapponese, che tende a eliminare il superfluo e a ricercare la bellezza nell’imperfetto, nell’incompleto, nell’impermanente. The Third Murder estremizza tale poetica. I crescenti campi-controcampi dei colloqui tra avvocato e assassino sono, in questo senso, paradigmatici: due volti, un vetro divisorio, nient’altro. 



Una scena del film

Una scena del film

Nello splendido pre-finale, dal forte sapore bergmaniano, il vetro da elemento di separazione si fa specchio che riflette e sovrappone i volti dei due personaggi. Su questa doppia funzione Kore’eda innerva una sorta di ping-pong continuo in cui a contare non è tanto il vincitore, quanto la partita in sé: il conflitto, destinato a rimanere irrisolto, tra verità e giustizia. 

Il riferimento più evidente, in questo senso, sembra essere Rashomon di Akira Kurosawa (1950), anche se in The Third Murder il discorso filmico si  sposta dal piano sociale a quello individuale, ontologico. E così le quattro versioni di Rashomon si condensano in un solo, geniale personaggio, il quale dichiara una verità per poi negarla subito dopo, senza alcuna apparente logica. L’accusato è uno, cento e mille personaggi insieme, ognuno con una propria interpretazione dell’accaduto. Interpretazioni che non rispondono ad alcuna ratio, guidate come sono solo dall’intento di sparigliare le carte, sia a Shigomori che allo spettatore. Misumi è uno dei personaggi più deflagranti del cinema contemporaneo, capace di mettere in crisi il genere del film giudiziario: chi decide chi è l’assassino? Quanto un’assoluzione deriva da un’innocenza e quanto da una presunzione, tendenziosa, di innocenza? Come può l’uomo erigersi ad arbitro di altri uomini, quando non fa che proiettare la propria soggettività su di essi?


Una scena del film

Una scena del film

Quello di Kore’eda è un dilemma morale, quasi un hurly burly shakespeariano, che tuttavia non dà luogo a una tragedia, ma piuttosto a un’incertezza disarmante. Quando il confine tra vero e falso viene meno, e la giustizia perde la sua facoltà di discernimento, “colpevole” e “innocente” restano concetti vuoti, privi di significato («contenitori» li definisce lo stesso Shigomori nell’ultima battuta del film). Come dichiara il regista: «la nostra società condona un sistema imperfetto, che non può sostenersi a meno che alcune persone non giudichino altre persone senza sapere la verità». Kore’eda ha saputo tradurre in cinema tutto questo.



Sandome no Satsujin
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La locandina

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