Unico
regista giapponese in concorso, Hirokazu
Koreeda è uno dei nomi più affermati del cinema nipponico contemporaneo,
almeno nellambito della cinefilia occidentale, forse anche per lispirazione
in parte europea del suo stile e della sua poetica. Le sue analisi sulle
relazioni personali e familiari viste nel tempo lo rendono più vicino a Richard Linklater o per certi versi a Ingmar Bergman che alla maggior parte
della produzione giapponese odierna. Nel suo cinema cè una ricerca costante
sulla transitorietà del presente e sulla riemersione del passato, sia esso il
ricordo del padre di Little Sister
(2015), la storia damore finita di Ritratto
di famiglia con tempesta (2016) o il figlio accidentalmente scambiato
allospedale – e ormai troppo cresciuto – di Father and Son (2013).
Stavolta
però Koreeda spiazza tutti, virando sul film giudiziario o courtroom movie (ma cè un quasi
precedente: Father and Son).
Protagonista è Shigemori (Fukuyama
Masaharu), avvocato di successo che accetta di difendere un uomo accusato
di omicidio e di rapina, Misumi (Yakusho
Koji). Sebbene questultimo abbia già confessato il reato, e rischi una
condanna a morte, lavvocato non si dà per vinto, conduce unindagine sulla
persona e sulla famiglia del suo assistito e inizia a dubitare della sua
colpevolezza. Ma la presunzione di innocenza si rivela una proiezione di un
desiderio inconscio: la verità sembra non venire a galla, mentre Shigemori
comincia a dubitare della sua stessa esistenza.
Una scena del film
Abbandonata
la leggerezza dei lavori precedenti, Koreeda approda a unopera ambiziosa e la
affronta con un linguaggio più essenziale e scarno del consueto. Il film è
composto principalmente da primi piani (tutti girati in Cinemascope),
chiaroscuri, scale di grigi, e soprattutto silenzi, appena scanditi da pochi,
eterei intermezzi musicali (un Ludovico
Einaudi che entra in punta di piedi, quasi con pudore). Una texture rarefatta e un crescendo di
paranoia dietro lapparente imperturbabilità dei volti e dei dialoghi. Qualcuno
per descrivere il suo cinema ha parlato di wabi-sabi
(letteralmente “solitario e povero”), espressione con la quale si indica
quellatteggiamento estetico, tipico della cultura giapponese, che tende a
eliminare il superfluo e a ricercare la bellezza nellimperfetto,
nellincompleto, nellimpermanente. The
Third Murder estremizza tale poetica. I crescenti campi-controcampi dei
colloqui tra avvocato e assassino sono, in questo senso, paradigmatici: due
volti, un vetro divisorio, nientaltro.
Una scena del film
Nello
splendido pre-finale, dal forte sapore bergmaniano, il vetro da elemento di
separazione si fa specchio che riflette e sovrappone i volti dei due
personaggi. Su questa doppia funzione Koreeda innerva una sorta di ping-pong continuo in cui a contare non
è tanto il vincitore, quanto la partita in sé: il conflitto, destinato a
rimanere irrisolto, tra verità e giustizia. Il riferimento più evidente, in questo senso, sembra essere Rashomon di Akira Kurosawa (1950), anche se in The Third Murder il discorso filmico si sposta dal piano sociale a quello individuale, ontologico. E così le quattro versioni di Rashomon si condensano in un solo, geniale personaggio, il quale dichiara una verità per poi negarla subito dopo, senza alcuna apparente logica. Laccusato è uno, cento e mille personaggi insieme, ognuno con una propria interpretazione dellaccaduto. Interpretazioni che non rispondono ad alcuna ratio, guidate come sono solo dallintento di sparigliare le carte, sia a Shigomori che allo spettatore. Misumi è uno dei personaggi più deflagranti del cinema contemporaneo, capace di mettere in crisi il genere del film giudiziario: chi decide chi è lassassino? Quanto unassoluzione deriva da uninnocenza e quanto da una presunzione, tendenziosa, di innocenza? Come può luomo erigersi ad arbitro di altri uomini, quando non fa che proiettare la propria soggettività su di essi? Quello
di Koreeda è un dilemma morale, quasi un hurly
burly shakespeariano, che tuttavia non dà luogo a una tragedia, ma
piuttosto a unincertezza disarmante. Quando il confine tra vero e falso viene
meno, e la giustizia perde la sua facoltà di discernimento, “colpevole” e
“innocente” restano concetti vuoti, privi di significato («contenitori» li definisce
lo stesso Shigomori nellultima battuta del film). Come dichiara il regista:
«la nostra società condona un sistema imperfetto, che non può sostenersi a meno
che alcune persone non giudichino altre persone senza sapere la verità». Koreeda
ha saputo tradurre in cinema tutto questo.
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