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Oltre Corinto

di Paolo Patrizi
  Le Siège de Corinthe
Data di pubblicazione su web 30/08/2017  

Per un autore “impolitico” come Rossini (nel significato che a questa parola diede Thomas Mann, sottraendola alle sfumature qualunquiste del termine “apolitico”), un’opera come Le siège de Corinthe rappresenta una significativa eccezione. La guerra della Grecia per affrancarsi dall’Impero ottomano (1821-1832: Le siège, del 1826, si colloca giusto a metà di questo percorso) era un tema fortemente dibattuto: furono molti gli artisti – a cominciare da Byron, già autore di un The Siege of Corinth – pronti a “sporcarsi le mani” in una questione che sembrava riguardare non un conflitto tra due paesi, ma il destino della culla della civiltà europea; e per Rossini, esordiente con quest’opera sulle scene parigine, giocare la carta metastorica – mettere in musica uno scontro turco-ellenico del Quattrocento per alludere a quello del presente – era un modo politically correct d’iniziare la sua carriera come operista “francese”. Il filoellenismo degli anni della Restaurazione, d’altronde, rappresentava un input ideologico prima che culturale: non a caso, a fine conflitto, la rinnovata autonomia della Grecia sarà solo relativa, dato che il paese venne a trovarsi sotto il protettorato di quelle potenze che, a cominciare proprio dalla Francia, avevano sostenuto la sua resistenza.

Sotto tale profilo non è incongruo che La Fura dels Baus, per approcciare il primo dei capolavori francesi rossiniani, abbia puntato sull’attualizzazione. Chiamato a inaugurare il Rossini Opera Festival di quest’anno, lo spettacolo non racconta lo scontro tra un popolo conquistato e un popolo invasore né, tanto meno, una guerra specifica: è, piuttosto, la narrazione di una lotta per la sopravvivenza – atemporale nella ricostruzione d’epoca, ma di attualità stringente per scelta di contenuto – legata all’emergenza siccità e al controllo della poca acqua ancora disponibile sul territorio. Non c’è Corinto né Sublime Porta, nel Siège della Fura: in questo “altrove” postmoderno (o Medioevo prossimo venturo) si combatte solo, con violenza disperata, per l’oro blu, rappresentato da centinaia di bottiglioni di plastica. E in tale carneficina legata a istinti elementari, dove taniche e fusti sono ora mero “segno” teatrale ora scenografia vera e propria, l’amore impossibile tra il condottiero turco e la principessa greca non è più, come in Rossini, una variazione sull’eterno dualismo tra ragioni del cuore e ragion di stato: è invece, in questa terra prosciugata, un’oasi di sensualità. In cui la passione consente un ultimo lampo di oblio prima della fine.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Se le premesse dello spettacolo possono essere appropriate, il suo sviluppo è però fragile. Tutto sembra limitarsi a una riscrittura visiva della tragédie lyrique rossiniana, senza che la rivisitazione venga corroborata da un Konzept “forte” (e, forse, neppure da un Konzept qualsivoglia). La stessa modulazione degli spazi – versante in cui il collettivo teatrale catalano gioca di solito le sue carte migliori – non convince fino in fondo: lo stratagemma di trasportare l’azione in platea e nella pedana che circoscrive la fossa orchestrale viene reiterato fino ad abusarne, mentre il vasto palcoscenico dell’Adriatic Arena pesarese resta sottoutilizzato. Quanto agli «elementi scenografici, pittorici e video» di Lita Cabellut appaiono suggestivi ma ingombranti: talvolta oltremodo didascalici, come nel caso delle numerose citazioni di frasi byroniane, talaltra piuttosto criptici. E il lavoro registico in senso stretto, firmato da Carlus Padrissa, di fatto si limita ad alcune felici intuizioni sulla protagonista femminile (qui tutt’altro che angelicata, anzi carnalissima) e sulla sua recitazione, anche grazie alla duttilità attoriale del soprano Nino Machaidze.

Nonostante qualche momento di stanchezza, che si è concretizzato in una gamma relativamente ristretta di colori, la Machaidze spicca appunto sul resto del cast: per una personalità artistica di qualità superiore e una vocalità ombreggiata, di naturale drammaticità timbrica, che nel Rossini francese ha forse meno frecce al suo arco rispetto a quello napoletano (sono i ruoli di “soprano Colbran”, composti da Rossini nelle opere per il San Carlo, quelli che più valorizzano la fisionomia canora della Machaidze), ma s’impone comunque. Se Beverly Sills – a tutt’oggi l’interprete per antonomasia di Pamyra ne Le siège – costruì la sua incarnazione sulle poetiche malinconie e le delicate trasparenze della fanciulla-vittima, la cantante georgiana dà vita a un personaggio più energico e assetato di vita, facendone un soprano drammatico di agilità ante litteram. Il critico purista potrà contestare certe anticipazioni stilistiche: ma, davanti alla compenetrazione espressiva e al canto sempre a fuoco della Machaidze, pure il filologo più intransigente dovrebbe domandarsi «e se avesse ragione lei?».


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Gli interpreti maschili sono dovuti scendere a patti – almeno la sera della “prima” – con il dettato rossiniano: occasionali semplificazioni di coloratura nel Mahomet di Luca Pisaroni, qualche sconto quando si trattava di ascendere al registro sopracuto nel Néoclès di Sergey Romanovsky. Tuttavia ciò che lascia perplessi nel primo, ben più delle agilità perfettibili, sono i naturalia vocali rispetto al ruolo: il timbro pallido, il volume che si rimpicciolisce in basso, il baricentro stesso della voce lascerebbero pensare a un baritono tenorile piuttosto che a un basse-baryton. Mentre Romanovsky sopperisce a qualche limite canoro con una forte interiorizzazione: questo Néoclès più tormentato che eroico, più introverso che epicizzante è comunque un bel personaggio. E lo strumento, sebbene non ancora governato a dovere, è di materiale forse disomogeneo, ma certo interessante.

Ancor meglio fa John Irvin, cui oltretutto va la Palma per la migliore pronuncia francese, capace di ricondurre Cléomène in un alveo pienamente coprotagonistico. Da “secondo tenore”, d’altronde, questo ruolo ha solo l’assenza di momenti solistici: laddove l’ampiezza dell’estensione, la plasticità imposta da una scrittura spesso declamatoria, la duttilità richiesta per gli inopinati transiti dal declamato all’arioso – e sono tutti desiderata pienamente ottemperati da Irvin – richiedono gran classe unita ad alto tecnicismo.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Meno convincenti gli apporti di quelle parti di fianco che, però, sono tutt’altro che comprimariali: Carlo Cigni è un basso dal timbro troppo sfocato per esprimere la sepolcrale ieraticità di Hiéros, né il suo appiombo ritmico è così preciso da governare sino in fondo una scena – musicalmente di estrema complessità – come quella in cui incita i corinzi a morire per la patria; e Cecilia Molinari ha voce troppo esigua per valorizzare al meglio i piccoli, ma significativi spazi (l’esornativa ballade del secondo atto e, forse più ancora, i numerosi “pertichini” disseminati qua e là) che Rossini concede al personaggio di Ismène. Mentre per quanto riguarda i comprimari veri e propri, sia Omar che Adraste vengono ben sottolineati dalla regia (la presenza muta di quest’ultimo trasforma il terzetto del primo atto in un quartetto), ma Iurii Samoilov e Xabier Anduaga, del loro, non paiono aggiungervi molto.

A deludere, però, è soprattutto il podio. Non al meglio delle sue possibilità fisiche ed espressive (aveva un braccio infortunato al collo), Roberto Abbado sigla una lettura nitidamente calligrafica, precisa nel dettaglio anziché illuminante nella visione d’insieme (sotto questo profilo il Rossini francese, frantumato in un maggior numero di brani, gli è più congeniale delle monumentali ma unitarie macrostrutture del Rossini napoletano), avara di fastosità e povera di mordente. In una parola, rinuncia a indagare su quel ponte tra classicismo e preromanticismo che – col senno di poi – proprio in Le siège de Corinthe s’inizia a edificare: della tragédie lyrique Abbado evidenzia più l’aggettivo che il sostantivo e, di questo primo Rossini parigino, preferisce scorgere l’involucro dell’esercizio di stile piuttosto che la carica innovativo-sperimentale.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

È una scelta esecutiva dove, forse, ha avuto il suo peso pure la nuova edizione critica (la si attendeva da anni, di tutti i capolavori rossiniani Le siège è quello che presenta maggiori problemi testuali) appena realizzata dalla Fondazione Rossini: che, recuperando circa quattrocento battute di musica poi subito espunte, in qualche modo avalla l’accumulo di materiali, la non perfetta unitarietà, il bisogno dell’autore di soddisfare la committenza d’oltralpe a costo di non essere se stesso fino in fondo. Inevitabile utilizzarla al festival. Ma per esecuzioni in altro contesto – sia detto a bassa voce – sarà forse meglio affidarsi a fonti meno filologiche e più tradizionali.



Le Siège de Corinthe



cast cast & credits
 
trama trama

Il nuovo allestimento dell’opera rossiniana vista il 10 agosto scorso al Rossini Opera Festival


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi


 
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