Per un autore “impolitico” come Rossini (nel significato che a questa
parola diede Thomas Mann,
sottraendola alle sfumature qualunquiste del termine “apolitico”), unopera
come Le siège de Corinthe rappresenta
una significativa eccezione. La guerra della Grecia per affrancarsi dallImpero
ottomano (1821-1832: Le siège, del 1826,
si colloca giusto a metà di questo percorso) era un tema fortemente dibattuto:
furono molti gli artisti – a cominciare da Byron,
già autore di un The Siege of Corinth
– pronti a “sporcarsi le mani” in una questione che sembrava riguardare non un
conflitto tra due paesi, ma il destino della culla della civiltà europea; e per
Rossini, esordiente con questopera sulle scene parigine, giocare la carta metastorica
– mettere in musica uno scontro turco-ellenico del Quattrocento per alludere a
quello del presente – era un modo politically
correct diniziare la sua carriera come operista “francese”. Il
filoellenismo degli anni della Restaurazione, daltronde, rappresentava un input ideologico prima che culturale: non
a caso, a fine conflitto, la rinnovata autonomia della Grecia sarà solo
relativa, dato che il paese venne a trovarsi sotto il protettorato di quelle
potenze che, a cominciare proprio dalla Francia, avevano sostenuto la sua resistenza.
Sotto tale profilo non è incongruo
che La Fura dels Baus, per approcciare il primo dei capolavori francesi rossiniani,
abbia puntato sullattualizzazione. Chiamato a inaugurare il Rossini Opera
Festival di questanno, lo spettacolo non racconta lo scontro tra un popolo
conquistato e un popolo invasore né, tanto meno, una guerra specifica: è,
piuttosto, la narrazione di una lotta per la sopravvivenza – atemporale nella
ricostruzione depoca, ma di attualità stringente per scelta di contenuto –
legata allemergenza siccità e al controllo della poca acqua ancora disponibile
sul territorio. Non cè Corinto né Sublime Porta, nel Siège della Fura: in questo “altrove” postmoderno (o Medioevo
prossimo venturo) si combatte solo, con violenza disperata, per loro blu,
rappresentato da centinaia di bottiglioni di plastica. E in tale carneficina
legata a istinti elementari, dove taniche e fusti sono ora mero “segno”
teatrale ora scenografia vera e propria, lamore impossibile tra il condottiero
turco e la principessa greca non è più, come in Rossini, una variazione
sulleterno dualismo tra ragioni del cuore e ragion di stato: è invece, in questa
terra prosciugata, unoasi di sensualità. In cui la passione consente un ultimo
lampo di oblio prima della fine.
Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
Se le premesse dello spettacolo
possono essere appropriate, il suo sviluppo è però fragile. Tutto sembra
limitarsi a una riscrittura visiva della tragédie
lyrique rossiniana, senza che la rivisitazione venga corroborata da un Konzept “forte” (e, forse, neppure da un
Konzept qualsivoglia). La stessa modulazione
degli spazi – versante in cui il collettivo teatrale catalano gioca di solito
le sue carte migliori – non convince fino in fondo: lo stratagemma di trasportare
lazione in platea e nella pedana che circoscrive la fossa orchestrale viene
reiterato fino ad abusarne, mentre il vasto palcoscenico dellAdriatic Arena
pesarese resta sottoutilizzato. Quanto agli «elementi scenografici, pittorici e
video» di Lita Cabellut appaiono
suggestivi ma ingombranti: talvolta oltremodo didascalici, come nel caso delle
numerose citazioni di frasi byroniane, talaltra piuttosto criptici. E il lavoro
registico in senso stretto, firmato da Carlus
Padrissa, di fatto si limita ad alcune felici intuizioni sulla protagonista
femminile (qui tuttaltro che angelicata, anzi carnalissima) e sulla sua
recitazione, anche grazie alla duttilità attoriale del soprano Nino Machaidze.
Nonostante qualche momento di
stanchezza, che si è concretizzato in una gamma relativamente ristretta di
colori, la Machaidze spicca appunto sul resto del cast: per una personalità artistica di qualità superiore e una
vocalità ombreggiata, di naturale drammaticità timbrica, che nel Rossini
francese ha forse meno frecce al suo arco rispetto a quello napoletano (sono i
ruoli di “soprano Colbran”, composti da Rossini nelle opere per il San Carlo,
quelli che più valorizzano la fisionomia canora della Machaidze), ma simpone
comunque. Se Beverly Sills – a
tuttoggi linterprete per antonomasia di Pamyra ne Le siège – costruì la sua incarnazione sulle poetiche malinconie e
le delicate trasparenze della fanciulla-vittima, la cantante georgiana dà vita
a un personaggio più energico e assetato di vita, facendone un soprano
drammatico di agilità ante litteram.
Il critico purista potrà contestare certe anticipazioni stilistiche: ma,
davanti alla compenetrazione espressiva e al canto sempre a fuoco della
Machaidze, pure il filologo più intransigente dovrebbe domandarsi «e se avesse
ragione lei?».
Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
Gli interpreti maschili sono
dovuti scendere a patti – almeno la sera della “prima” – con il dettato
rossiniano: occasionali semplificazioni di coloratura nel Mahomet di Luca Pisaroni, qualche sconto quando si
trattava di ascendere al registro sopracuto nel Néoclès di Sergey Romanovsky. Tuttavia ciò che lascia perplessi nel primo, ben
più delle agilità perfettibili, sono i naturalia
vocali rispetto al ruolo: il timbro pallido, il volume che si rimpicciolisce in
basso, il baricentro stesso della voce lascerebbero pensare a un baritono
tenorile piuttosto che a un basse-baryton.
Mentre Romanovsky sopperisce a qualche limite canoro con una forte
interiorizzazione: questo Néoclès più tormentato che eroico, più introverso che
epicizzante è comunque un bel personaggio. E lo strumento, sebbene non ancora
governato a dovere, è di materiale forse disomogeneo, ma certo interessante.
Ancor meglio fa John Irvin, cui oltretutto va la Palma per la migliore pronuncia
francese, capace di ricondurre Cléomène in un alveo pienamente
coprotagonistico. Da “secondo tenore”, daltronde, questo ruolo ha solo
lassenza di momenti solistici: laddove lampiezza dellestensione, la
plasticità imposta da una scrittura spesso declamatoria, la duttilità richiesta
per gli inopinati transiti dal declamato allarioso – e sono tutti desiderata pienamente ottemperati da
Irvin – richiedono gran classe unita ad alto tecnicismo. Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
Meno convincenti gli apporti di
quelle parti di fianco che, però, sono tuttaltro che comprimariali: Carlo Cigni è un basso dal timbro
troppo sfocato per esprimere la sepolcrale ieraticità di Hiéros, né il suo
appiombo ritmico è così preciso da governare sino in fondo una scena –
musicalmente di estrema complessità – come quella in cui incita i corinzi a
morire per la patria; e Cecilia Molinari
ha voce troppo esigua per valorizzare al meglio i piccoli, ma significativi
spazi (lesornativa ballade del
secondo atto e, forse più ancora, i numerosi “pertichini” disseminati qua e là)
che Rossini concede al personaggio di Ismène. Mentre per quanto riguarda i
comprimari veri e propri, sia Omar che Adraste vengono ben sottolineati dalla
regia (la presenza muta di questultimo trasforma il terzetto del primo atto in
un quartetto), ma Iurii Samoilov e Xabier Anduaga, del loro, non paiono aggiungervi
molto.
A deludere, però, è soprattutto
il podio. Non al meglio delle sue possibilità fisiche ed espressive (aveva un
braccio infortunato al collo), Roberto
Abbado sigla una lettura nitidamente calligrafica, precisa nel dettaglio anziché
illuminante nella visione dinsieme (sotto questo profilo il Rossini francese,
frantumato in un maggior numero di brani, gli è più congeniale delle
monumentali ma unitarie macrostrutture del Rossini napoletano), avara di
fastosità e povera di mordente. In una parola, rinuncia a indagare su quel
ponte tra classicismo e preromanticismo che – col senno di poi – proprio in Le siège de Corinthe sinizia a
edificare: della tragédie lyrique Abbado
evidenzia più laggettivo che il sostantivo e, di questo primo Rossini parigino,
preferisce scorgere linvolucro dellesercizio di stile piuttosto che la carica
innovativo-sperimentale. Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
È una scelta esecutiva dove, forse,
ha avuto il suo peso pure la nuova edizione critica (la si attendeva da anni,
di tutti i capolavori rossiniani Le siège
è quello che presenta maggiori problemi testuali) appena realizzata dalla
Fondazione Rossini: che, recuperando circa quattrocento battute di musica poi
subito espunte, in qualche modo avalla laccumulo di materiali, la non perfetta
unitarietà, il bisogno dellautore di soddisfare la committenza doltralpe a
costo di non essere se stesso fino in fondo. Inevitabile utilizzarla al
festival. Ma per esecuzioni in altro contesto – sia detto a bassa voce – sarà
forse meglio affidarsi a fonti meno filologiche e più tradizionali.
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