La rassegna teatrale 2017 della
Biennale di Venezia, affidata a partire da questanno e per il prossimo
quadriennio a Antonio Latella, è
stata dedicata, sotto il titolo Atto
primo: Regista, alla creatività femminile, quella che negli ultimi anni è considerata
dal curatore più aperta alle intersezioni delle forme e alle innovazioni del
linguaggio. Dal 25 luglio al 12 agosto nei luoghi scenici dellArsenale si sono
alternate le rappresentazioni di nove registe europee, presentando per ciascuna
di esse una mini antologia di spettacoli, con lintento di offrire uno sguardo
più articolato sulle rispettive tecniche espressive. Per lo più si è trattato
di produzioni non recenti, talvolta datate, anche se sono una novità per
lItalia. Il fattore temporale ha pesato sullefficacia delle strutture
drammaturgiche, mostrando in qualche caso soluzioni decontestualizzate nelle
tematiche e superate nella prassi; in altri momenti sono emersi illusioni
nostalgie e timori del tempo perduto, oppure tendenze istintive e
autoreferenziali.
Di fatto, in alcune proposte si è
avvertito il segno del paradosso performativo, vale a dire la tendenza alla
reciproca trasmigrazione della ricerca teatrale verso le più attuali
acquisizioni dellarte contemporanea, unarte sempre più legata a unazione che
si esprime mediante linterferenza dei corpi o luso determinato della
riproducibilità. Intanto è da notare come da parecchi anni la sezione Teatro della Biennale ha rinunciato a
offrire uno sguardo credibile sulle espressioni sperimentali della scena
internazionale, limitandosi a proporre repertori darchivio per un pubblico
costituito in prevalenza dai giovani allievi dei seminari collaterali, ai quali
è offerta la possibilità di seguire le varie rappresentazioni.
Si è iniziato con il giusto
omaggio allagguerrita regista polacca Maja
Kleczewska, alla quale è stato assegnato il Leone dargento; Kleczewska ha
proposto The Rage (2016), una
messinscena farraginosa in cui si affastellano citazioni e svariati materiali con
lo scopo di dichiarare lo sgomento dinanzi agli atti estremistici legati
allattualità e, insieme, la delusione per la perduta credibilità del progetto di unEuropa unita e solidale.
The Rage © Natalia Kabnow
Decisamente non risolto è sembrato
NO43
Kõnts (NO43 Filth, 2015), «lavoro seriale di arte concettuale», firmato da
Ene-Liis Semper e Tiit Ojasoo per il Teatro NO99 dellEstonia,
che si sviluppa sullo schema della ripetitiva e ossessiva corsa dellumanità
verso la dissoluzione totale, in una sorta di processo rituale (e religioso)
che conduce allinabissamento nel fango delle origini.
Della francese Nathalie Béasse
la rassegna veneziana ha proposto ben quattro realizzazioni sul tema della
famiglia e dellinfanzia, da Happy Child
(2008), Tout semblait immobile
(2013), Roses (2014), fino al recente
Le bruit des arbres qui tombent
(2017), lavori collegati – secondo la regista – da uno schema speculare che dichiara
la frammentarietà dellesistenza. In particolare, lultimo progetto sfrutta un
ripetitivo srotolarsi del sipario sulla solitudine di un quartetto di esseri
umani, che entrano e escono dal cerchio delle abitudini in maniera buffa e
ridicola, per approdare alla rassicurante evocazione di un antico apologo. Sulla
scia della favola è stato tributato un omaggio dovuto a Maria Grazia Cipriani, allo scenografo Graziano Gregori e al Teatro del Carretto; con sicurezza e bravura costoro
hanno offerto la magia di tre produzioni esemplari, da Biancaneve (1983) a Pinocchio
(2006) e alle Mille e una notte
(2014). Biancaneve © Tommaso Le Pera
Dallorizzonte italiano è giunta, poi, la personale di una regista sulla
quale oggi sembra concentrarsi lattenzione delle istituzioni teatrali; si
tratta di Livia Ferracchiati che
alla Biennale Teatro ha presentato Todi is
a Small Town in the Center of Italy (2016), uno sguardo sullinstabilità
della provincia italiana, insieme ai primi due capitoli della propria “trilogia
sullidentità”, Peter Pan guarda sotto le
gonne (2015) e Stabat Mater
(2017). La questione centrale per Ferracchiati è quella della matrice di genere
per un personaggio autobiografico, nato in un corpo di donna, che a ogni costo vuole
vivere totalmente nella dimensione maschile. Dapprima la regista ragiona con
caparbia insistenza sui travisamenti di una/un undicenne in cerca didentità. Il
secondo testo, invece, sullonda di un irrisolto rapporto con la madre (che
appare sullo schermo con il volto e la voce di Laura Marinoni), ha mostrato in chiave retorica, con punte di
banalità descrittiva e visiva, la figura di un trentenne impegnato a sedurre
una signora volitiva e una psicologa fatua; lesperimento si conclude (in via
provvisoria, in attesa della terza puntata) con il rifiuto da parte delluniverso
femminile nel seguire il protagonista nella ricerca di una sicura identità.
Stabat Mater © Andrea Avezzù
Al Teatro Piccolo Arsenale è stata ospitata lultima messinscena della
regista Anna-Sophie Mahler, Alla fine del mare, che sispira al film
E la nave va di Fellini: il motivo di fondo, non sempre ben evidenziato, è quello
dei conflitti legati al fenomeno dei rifugiati. Costoro sono raggelati da
Mahler nellincapacità/impossibilità di esprimersi con il canto (quello melodrammatico
della Traviata o della Carmen); ne deriva un pastiche, simile a quello dellaltra sua
pièce, vaga e inefficace, Tristan oder
Isolde. Ein pastiche (2013), che saffida per lo più a visioni di quadro, simili
a fotogrammi filmici. Anche la questione socio-culturale che la regista di
Zurigo intende segnalare è travolta dal marasma di banali gag. Alla fine del mare © Ilja Mess
Alquanto datato si è rivelato Bimbo (2011) di Suzan Boogaerdt e Bianca Van der Schoot, artiste olandesi che amano agire mediante un sistema di istallazioni tecnologiche (visual statements) per additare stavolta il “voyerismo” sessuale della società maschilista. Limpianto della scena ha disposto gli spettatori dinanzi a schermi televisivi sui quali si susseguono le elaborazioni virtuali di uninterminabile “pole-dance” visibile dal vivo in uno spazio reale, posto alle spalle dei presenti, un luogo soffocante che funge da palcoscenico e da spogliatoio. La denuncia si rivolge contro la degradazione del corpo femminile, che le due autrici-attrici esprimono mediante un frenetico balletto che mescola erotismo e abiezione; luso di maschere e di travestimenti in lattice contrassegna un irriverente e grottesco impasto narrativo che sinabissa nel mondo deformante e mai appagante della pornografia. Bimbo © Ben van Duin Poco incisivo è parso Und Dann (2013)
della tedesca Claudia Bauer,
costruito sul tormento di un uomo ossessionato dai ricordi infantili legati a
una quotidianità da incubo vissuta dalla sua famiglia nel grigiore della
Germania dellEst. Per segnalare lo scarto tra la memoria della fanciullezza e il
tormento dellesistenza si sfrutta il modulo dei mascheroni alla Disney, indossati
dagli attori nello spazio artificiale della casa immaginata, mentre la litania
della reminiscenza è descritta dalle proiezioni deformanti del volto di un individuo
che tende a sottrarsi.
Lelemento del gioco per bimbi e dellingenuità fiabesca sembra essere una
costante nelle scelte operate per questa edizione da
Antonio Latella che volutamente ha inteso rivalutare lidea di regia come
scrittura (o riscrittura) scenica, confidando più nellemergere di nuovi/nuove
artefici da “scovare” tra le giovani generazioni. Intanto, in attesa di un
necessario aggiustamento del progetto artistico pluriennale, di fronte
allincerto zibaldone delle rappresentazioni è comunque da riconoscere la buona
professionalità degli attori e la loro comprovata abilità interpretativa.
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