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L’assedio di Tebe e la fenomenologia della guerra secondo Eschilo e Euripide

di Caterina Barone
  I Sette contro Tebe, le Fenicie
Data di pubblicazione su web 29/05/2017  

I Sette contro Tebe di Eschilo e le Fenicie di Euripide sono le due tragedie che con una scelta ardua, ma culturalmente stimolante, l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) ha selezionato per il 53° Ciclo di spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa (in scena a giorni alterni fino al 25 giugno). La sfida è rappresentare due drammi che trattano lo stesso mythos, lo scontro fratricida per il potere tra Eteocle e Polinice, figli di Edipo e di Giocasta, preludio al tragico epilogo della saga dei Labdacidi, sovrani di Tebe.

Con la regia rispettivamente di Marco Baliani, i Sette contro Tebe, e di Valerio Binasco, le Fenicie, selezionati dal direttore artistico Roberto Andò, gli spettacoli consentono un confronto tra il mondo ideologico e poetico dei due grandi drammaturghi ateniesi. Il nucleo tematico centrale della guerra e della violenza all’interno della famiglia nella lotta per il potere viene declinato con accenti epici da Eschilo che, coerentemente con la propria teodicea, mette in risalto il tema della maledizione degli dèi, stabilendo una stretta relazione tra il mondo divino e quello umano, mentre Euripide cerca, scavando nell’animo dei personaggi, le motivazioni delle loro azioni rovinose per denunciarne l’intrinseca meschinità.

Rappresentate, l’una nel 467 a.C., l’altra tra il 410 e il 408 a.C., le tragedie riflettono la diversa temperie politica vissuta dalla polis a distanza di oltre mezzo secolo. Negli anni Sessanta nella memoria degli ateniesi era ancora vivo il ricordo delle guerre persiane combattute contro un nemico esterno, ed Eschilo nei suoi versi denuncia gli aspetti devastanti delle lotte armate in una visione che travalica il tema del conflitto fratricida. Euripide invece propone alla coscienza critica dei suoi concittadini una riflessione sul relativismo morale sotteso alle dinamiche della corsa al potere e sugli aspetti deleteri della guerra civile, in particolare quella che si era scatenata nel 411 a.C. con il colpo di stato dei Quattrocento contro il regime democratico.


Un momento dello spettacolo I Sette contro Tebe
   © Carnera

La strada percorsa da Baliani e Binasco non è nella linea della lettura filologica, fornita loro dalle due valide traduzioni, rispettivamente di Giorgio Ieranò e di Enrico Medda. Entrambi i registi operano in direzione di un avvicinamento delle tragedie al pubblico odierno intervenendo sul testo con tagli, cambi nell’attribuzione delle battute dei personaggi, inserzione di elementi didascalici, fino ad arrivare, nel caso dei Sette contro Tebe, a un radicale adattamento.

Baliani porta sulla scena un Coro che, a differenza di quello eschileo fatto di sole donne, presenta una significativa componente maschile per rendere con maggiore icasticità l’immagine di un’intera comunità assediata dal nemico e in preda al panico. Lavorando a fondo sugli interpreti (gli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico dell’INDA, sezione Giusto Monaco), il regista (con l’ausilio della coreografa Alessandra Fazzino) ne ha fatto corpi narranti, espressione del terrore che invade tutti. Una scelta che tuttavia non intacca il risalto dato nell’originale alla condizione femminile, nella sua intrinseca vulnerabilità ed esposizione alla violenza dei vincitori.

A capo di questo Coro inedito, nei panni della Corifea, Baliani mette Antigone (la interpreta in maniera non del tutto convincente Anna Della Rosa), benché nel testo greco il personaggio compaia solo nel finale, per altro riconosciuto come spurio dai filologi. Ne deriva l’immagine di una fanciulla fragile, un’anti-eroina, che condivide la paura delle altre donne e non cessa i suoi iterati lamenti di fronte agli aspri rimproveri del fratello Eteocle. E lo stesso eroe subisce una metamorfosi, resa in maniera persuasiva da Marco Foschi. All’inizio si dimostra abile nocchiero di una nave in tempesta, baluardo sicuro in difesa dei propri sudditi, osteggiando la psicosi del nemico, sciogliendo enigmi, mettendo in opposizione strategica i propri uomini contro i nemici. Poi la dolorosa presa di coscienza dell’ineluttabilità della maledizione paterna ne rivela l’intima sofferenza. La sicurezza con cui risponde alla vivida descrizione dei guerrieri argivi fatta dal Messaggero (un efficace Aldo Ottobrino) cede il posto a un senso di impotenza di fronte alla via tracciata dagli dèi.

A fare da cornice allo spettacolo, in apertura e in chiusura, Baliani introduce due rheseis spurie, scritte di suo pugno, recitate da un anziano “custode del teatro” (Gianni Salvo) che rende edotti gli spettatori sulle vicende mitiche, estrapolandole dal testo, e li esorta pleonasticamente, con toni retorici, a fare tesoro di quanto avviene in scena. Di fatto il regista conferisce alla sua lettura un taglio marcatamente politico. Un pamphlet contro le guerre dei nostri giorni, più o meno vicine. Si stabilisce così un’equivalenza tra l’assedio di Tebe e quello di Sarajevo o Aleppo o Kobane.


Un momento dello spettacolo I Sette contro Tebe
   © Centaro

In quest’ottica sono stati ideati i costumi: arcaici e tribali nella parte iniziale si mutano in ultimo nelle tuniche e nel capo coperto delle donne musulmane che disperate abbracciano i caduti. Il passaggio dal tempo mitico alla contemporaneità è contrassegnato anche dalle musiche di Mirto Baliani. Un tessuto sonoro composito, che a tratti si fa melodia. Un grumo di rumori bellici assordanti e incombenti, all’interno del quale lo scalpitio dei cavalli e il cozzare di lance e scudi diventano il fragore esplosivo delle armi da fuoco e delle bombe che aprono profondi crateri nel terreno.

Un albero frondoso è posto al centro della scena creata da Carlo Sala, autore anche dei costumi. Una sorta di totem intorno al quale si stringevano gli assediati in preda al terrore, che alla fine si spezza a sancire la rovina di una famiglia e di un’intera città: salva dalla conquista nemica, ma lacerata dalla guerra fratricida e da un contrasto che causerà nuove morti, quello per la sepoltura del corpo di Polinice. Il governo di Tebe, che lo considera un traditore per aver osato muovere guerra contro la patria, decreta che il suo corpo debba rimanere insepolto. Una decisione empia e tirannica di cui il regista sottolinea la ferocia con l’uso di un altoparlante sul genere di quelli usati nei campi di sterminio nazisti. La violenza del potere, la sua ottusa protervia, il suo contrapporsi alla Giustizia non conoscono confini temporali. La fiera resistenza di Antigone al decreto, in un atteggiamento eroico in contrasto con la vulnerabilità emotiva dimostrata fino a quel momento, lascia presagire un futuro luttuoso.

Per le Fenicie la scenografia di Sala copre il terreno con un telo rosso che dilaga come sangue oltre l’orchestra: al centro spicca un albero secco, reso bianco dall’usura del tempo quasi a segnare il passaggio dall’epoca eschilea a quella euripidea, vuota ormai di prospettive politicamente vitali.

Anche per questo spettacolo il regista introduce in apertura una rhesis riassuntiva del contenuto mitico, affidata alla voce della Corifea (Simonetta Cartia) che con accento dell’Est parla in un microfono a stelo. Ai margini della scena siedono “brechtianamente” alcuni degli attori protagonisti.

Giocasta recita il prologo dopo aver rivolto a Zeus una preghiera che Binasco estrapola dalle Troiane euripidee, dove è Ecuba a pronunciarla. Le sue parole segnano la distanza della divinità dalle vicende umane: nessun aiuto soprannaturale soccorre gli individui in balia della sorte e delle loro stesse rovinose azioni.

Secondo Euripide, l’anziana regina, diversamente da quanto raccontato da Eschilo e da Sofocle, ha scelto di vivere nonostante l’atroce scoperta dell’incesto consumato inconsapevolmente col figlio Edipo, il quale a sua volta vive ancora nella reggia dopo essersi accecato.


Un momento dello spettacolo Fenicie
© Carnera        

Fin dalle prime battute il regista sottolinea il ruolo materno di Giocasta, interpretata con appassionato accoramento da Isa Danieli. L’attrice circonda di amorose cure, nutrendolo e accarezzandolo, Edipo, l’attore italo-giapponese Yamanuchi Hal. Presenza muta, ma inquietante per tutta la durata della vicenda. Sempre da madre, Giocasta si appella a Eteocle e a Polinice, li convince a incontrarsi, cerca con loro una comunicazione fisica oltre che verbale in un gioco prossemico teatralmente efficace. Sforzi vani che si infrangono nella brama di potere di Eteocle (reso con vibrante arroganza da Guido Caprino) e nella irremovibile determinazione di Polinice (Gianmaria Martini dai toni talvolta queruli). Binasco drammatizza lo scontro in atto esasperandone i toni e mettendo in evidenza il carattere violento dei due fratelli. Radicalizza la fisionomia di Eteocle, guerriero audace, ma incline più all’azione che al ragionamento; e attribuisce a Creonte, diversamente dall’originale, l’oculata idea di consultare l’indovino Tiresia, dando anche risalto all’ordine di non seppellire il cadavere del fratello e di punire con la morte chiunque osi farlo. Un inserto testuale probabilmente spurio.

La connotazione positiva data alla figura di Creonte è affidata alla sensibile interpretazione di Michele Di Mauro. In lui, all’abile stratega che suggerisce a Eteocle il piano difensivo da opporre agli aggressori, si somma la fisionomia di padre tenero. Un padre che all’interesse dello Stato antepone la vita del figlio Meneceo, indicato da Tiresia come vittima da sacrificare per la salvezza di Tebe. Sarà il giovane ad abbracciare volontariamente la morte compiendo una scelta che l’interprete (Matteo Francomano) rende con fanciullesco e volutamente goffo eroismo.

Completano il quadro dei personaggi principali Antigone (un’espressiva Giordana Faggiano), fanciulla irrequieta, curiosa di vedere i guerrieri nemici dall’alto delle mura, sospesa tra timore e stupita meraviglia, legata a Eteocle e soprattutto all’esule Polinice in maniera così viscerale da far subito intuire quale sarà il suo comportamento di fronte al divieto di seppellire il fratello. E anche la sua dedizione nei confronti del padre, di cui condividerà l’esilio, è in linea con il carattere generoso e appassionato che la contraddistingue.

Nel disegnare teatralmente una saga tanto cupa e sanguinosa Binasco sceglie un’intonazione variegata, dove a momenti resi con intensa drammaticità si alternano venature comiche e grottesche. A cominciare dalla scena della teichoskopia giocata tra Antigone e il Pedagogo (Simone Luglio) con toni talvolta ludici. Per continuare con l’episodio di Tiresia, dove l’indovino (interpretato da Alarico Salaroli) è rappresentato come un vecchio bizzarro, con infradito ai piedi e in mano un sacchetto di plastica in cui custodisce la corona d’oro ottenuta per i suoi meriti nell’arte della divinazione. Analogamente, nelle due drammatiche rheseis dei messaggeri. L’una a resoconto della battaglia, l’altra del mortale duello tra Eteocle e Polinice e del suicidio di Giocasta, recitate dallo stesso attore, Massimo Cagnina, con accento siciliano. Qui il tono epico si abbassa a quello di un racconto popolare sul genere del cuntu e vengono intercalate battute comiche, che sebbene gradite al pubblico appaiono troppo insistite.


Un momento dello spettacolo Fenicie
© Centaro

In controtendenza rispetto alla consuetudine del teatro greco siracusano, Binasco riserva una dimensione statica al Coro (sempre gli allievi dell’Accademia). Le donne Fenicie, con il volto coperto da maschere e gli abiti dimessi, appaiono come un gruppo di profughe che nell’abbigliamento sembrano richiamare le deportazioni della seconda guerra mondiale, un tempo cui alludono anche le divise militari dei messaggeri e del pedagogo. La loro funzione è ieratica, sacrale. Con le loro parole, doppiate dalla Corifea, le donne richiamano le origini del mito, in quell’abisso insondabile che governa la storia degli uomini. L’azione si svolge davanti ai loro occhi, ma le Fenicie guardano lontano oltre il presente, in una dimensione che travalica il contingente e assume una valenza universale. È una meditazione sul destino degli uomini, sul loro essere in balia del volere degli dèi o dei capricci della sorte, attraverso la quale il regista esprime una sua dolente consapevolezza. A dilatare questo effetto contribuiscono le musiche di Arturo Annecchino suonate dal vivo al pianoforte digitale da Eugenia Tamburri ed echeggiate da un pianoforte registrato. Cellule melodiche che si ripetono insistentemente ed evocano con andamento sempre uguale l’essenza delle antiche storie, la perenne immanenza del teatro greco.



53° Ciclo di spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa
I Sette contro Tebe
cast cast & credits
 
Fenicie
cast cast & credits
 



Un momento dello spettacolo
I Sette contro Tebe
© Carnera














































Un momento dello spettacolo
Fenicie
© Centaro






























































Un momento dello spettacolo
Fenicie
© Centaro







                   
 





 
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