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Quando lo spirito è materia

di Paolo Patrizi
  Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg
Data di pubblicazione su web 23/05/2017  

In Heinrich von Ofterdingen – romanzo che nominalmente non rientra fra le fonti del Tannhäuser, ma il cui tema di fondo, ossia il viaggio alla ricerca di sé stessi, è il medesimo di questa Grosse romantische Oper wagneriana – uno dei personaggi esalta le guerre di religione, intese come apoteosi della follia, ma anche forma di dissoluzione da cui potrà nascere un’umanità rigenerata. Il libro di Novalis venne pubblicato postumo e incompiuto nel 1802, oltre quarant’anni prima che Tannhäuser vedesse la luce, e – com’è nel destino dei lavori lasciati a metà – non appare inequivocabile in tutte le sue argomentazioni: d’altronde, il cuore poetico del romanzo è racchiuso nelle sue innumerevoli metafore, non nei suoi occasionali paradossi. Altrettanto paradossalmente, però, ci voleva un regista estraneo alla cultura tedesca per illuminare il nesso tra Wagner e Novalis: è accaduto in questa produzione allo Staatstheater di Darmstadt, dove Amir Reza Koohestani (uno dei nuovi protagonisti della scena teatrale di oggi, ghettizzarlo al mero ambito sperimentale sarebbe ormai limitativo) si è cimentato nella sua prima regia operistica.

Il legame non deriva solo dal fatto che Ofterdingen, al pari di Tannhäuser, è un trovatore medievale realmente esistito e poi trasfigurato dall’autore che vi s’identifica. Altri argomenti puntellano tanto l’opera quanto il libro: il dolore della lontananza, l’esperienza del ritorno, l’insufficienza d’un approccio conoscitivo solo intellettuale o solo emozionale, che unicamente il riapprodo a un’età primigenia potrà ricondurre a unità. E se Wagner non parla di guerre di religione, l’esaltato misticismo e il rigore sessuofobico che, almeno all’apparenza, intridono il Tannhäuser potrebbero oggi suggerire un’attualizzazione in tal senso.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Wolfgang Runkel

Così facendo, l’iraniano Koohestani non solo racconta assai bene un mondo che conosce, ma ci restituisce un Tannhäuser “rovesciato” eppure di straordinaria autenticità. Dunque, la Turingia del tredicesimo secolo cede il posto a un Medioriente contemporaneo, ma soprattutto ideale; la polemica antiecclesiastica e antiromana di Wagner – il Papa, in quest’opera, non è certo un modello di perdono cristiano – diventa un j’accuse verso l’intransigenza islamica; lo struggente ma ambiguo ascetismo mariano di Elisabeth, angelicata più per necessità che intima virtù, si converte in una ragazza in hijab non priva di conati trasgressivi (sotto la tunica traspaiono i jeans), che si esalta d’amor platonico e aspira all’amore completo. All’opposto, Venus, piuttosto che demonica signora della passione e bellezza ultraterrena, qui è una donna innamorata e ancora piacentissima, ma a un dipresso dallo sfiorire: allettante e implorante l’uomo che la sta abbandonando come fosse la protagonista della Voix humaine.

Tutti questi tasselli – natura versus cultura, femminilità antitetiche ma complementari allo specchio, l’eros come ansia di conoscenza prima ancora che di piacere – vengono ricostruiti da Koohestani con la sinergia, per lui consueta, tra linguaggio teatrale e cinematografico. Filmati da Philipp Widmann, i video non diventano solo un modo di tradurre immagini irrealizzabili per via scenografica, come il tripudio di naiadi, sirene e baccanti nel Venusberg: è una maniera di restituire quell’utopia di «scena invisibile» wagneriana (espressione coniata dallo stesso compositore) per cui si può raccontare senza “illustrare”. E l’uso delle telecamere qui amplifica gli spazi mentali piuttosto che quelli fisici: come la moltiplicazione del volto di Elisabeth quando s’incammina verso il suo castissimo ed eroticissimo olocausto santificatorio, o il primo piano di Wolfram dietro le quinte, che spia disperato l’amore tra lei e Tannhäuser.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Wolfgang Runkel

Quanto a quella borghesizzazione dell’èpos wagneriano che dai tempi di Chéreau e Ronconi sembra un affondo ineludibile per ogni regia “d’autore”, Koohestani non vi rinuncia del tutto: il certamen trovadorico del secondo atto ha le luci sparate e il pubblico cammellato di certe competizioni in studio televisivo, mentre il Venusberg viene ricondotto a un mastodontico letto a baldacchino, simbolo di benessere sessuale e, probabilmente, anche finanziario. Ma si tratta di ammodernamenti d’un regista interessato all’eternità più che all’attualità della vicenda. Usciti da teatro, quel che resta negli occhi è soprattutto la forza di certe immagini che riassumono la sensualità della religione e il misticismo della materia: come il velo islamico abbandonato da Elisabeth, che Wolfram trasforma in reliquia erotica e feticistico oggetto di desiderio; o proprio quel letto a baldacchino, un tempo ricettacolo di piaceri, ormai smantellato e ridotto a una colonna e un brandello di tenda che evocano una crocifissione stilizzata. Quasi si fosse assistito a una martirizzazione dell’eros.

Bacchetta in passato abbastanza presente in Italia, e oggi direttore della Staatsorchester Darmstadt, Will Humburg sigla una concertazione in fruttuosa empatia con la regia. Ne scaturisce una lettura musicale tanto di alto profilo tecnico (respiro ampio, colori cangianti, suggestivi effetti di avvicinamento e allontanamento del suono grazie alla variabile dislocazione del coro e degli ottoni) quanto di estrema lucidità narrativa (la contrapposizione tra il tema diatonico e quello cromatico che, già dalla Sinfonia, evoca il mondo dello spirito e quello della carne si profila con immediata chiarezza). Ed è rimarchevole anche la capacità di far “cantare” l’orchestra: le voci vengono perfettamente sostenute dal podio, si tratti dei momenti di lirismo strofico o dei plasticissimi transiti dall’arioso al declamato.

Stando così le cose anche il cast vocale ha una bella tenuta complessiva, sebbene le due protagoniste femminili sopravanzino gli interpreti maschili. A dominare è Katrin Gerstenberger, voce di soprano drammatico fertilmente ibridata con il mezzosoprano e, dunque, epitome della fisionomia canora di Venus (nonché di Ortrud, Kundry, della stessa Isolde): un canto slanciato e dalla straordinaria forza di penetrazione, capace però al contempo di subitanee morbidezze, che ritrae alla perfezione questa dea dell’amore “umana, troppo umana”. Mentre la voce più lirica di Edith Haller, come Elisabeth, ne rappresenta un ideale contraltare: in lei è la limpida sofficità del suono a evocare la sensualità sottopelle del personaggio, che la cantante sottrae alla serena spiritualità delle raffigurazioni tradizionali, ma pure alle esaltazioni isterico-verginali di certe interpretazioni “alternative” (Anja Silja, Gwyneth Jones).

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Wolfgang Runkel

Sul fronte maschile s’impone il Langravio di Martin Snell: un basso non più giovane di cui dunque tanto più colpisce l’autorevolezza sonora, oltre che la pregnanza di accento e fraseggio. Cantante d’ottimo appiombo musicale, David Pichlmaier circoscrive Wolfram in una dimensione di soavità e raccoglimento, confacente al ritratto da seminarista inibito e perdente in amore che sembra farne Koohestani: il timbro, però, è troppo poco baritonale (non manca, anzi, un retrogusto di pallida e nasale paratenorilità) per rendere giustizia ai grandi momenti solistici del personaggio. Mentre il Tannhäuser plasmato dal musicalmente meno preciso Deniz Yilmaz è quello d’un Heldentenor deficitario, sì, ma non più d’altri più blasonati tenori wagneriani di oggi: porta la sua recita fino in fondo e non arriva senza voce al micidiale monologo dell’ultimo atto.

I comprimari sono tutti a fuoco, ed è bello – dato il crogiolo di culture e morali diverse che permea il Tannhäuser – che tra i cantori della Wartburg ci sia il Walther von der Vogelweide dai tratti orientali di Minseok Kim e lo Heinrich der Schreiber di pelle nera di Musa Nkuna. Kim, in particolare, con la sua tenorilità lirica si ritaglia un bel primo piano nel Lied di Walther; mentre l’angoloso e robusto strumento bassobaritonale di Nicolas Legoux imprime icasticità alla feroce intransigenza di Biterolf. E il soprano Amelie Gorzellik è deliziosa nella melopea del pastorello, che qui sembra innalzarsi alle vette del lamento del pastore in Tristan und Isolde: grazie alla bravura della cantante e a Humburg e Koohestani che, musicalmente e visivamente, trasformano quest’episodio di raccordo in un momento magico.




Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg
Grande opera romantica in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama




Un momento dello spettacolo
andato in scena allo
Staatstheater di Darmstadt
© Wolfgang Runkel




 
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