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Medea senza dèi

di Diana Perego
  Medea
Data di pubblicazione su web 02/05/2017  

«Conosco la sua collera, non si raffredderà se non si scatena contro qualcuno. Spero contro un nemico e non contro chi la ama […], ha il carattere terribile e la natura di chi è piena di orgoglio»; così la nutrice nel prologo parla di Medea al pedagogo. Una donna terribile, orgogliosa, piena di rabbia pronta ad esplodere.

La Medea di Euripide diretta da Gabriele Lavia sviluppa soprattutto queste caratteristiche dell’eroina tragica, uno dei personaggi più complessi e dibattuti del teatro greco e non solo. Il testo dello spettacolo si basa sulla traduzione realizzata per l’occasione da Maria Grazia Ciani (già traduttrice per l’edizione Marsilio del 1997), adattata dal regista. Il risultato è una sceneggiatura in linea di massima fedele al dramma euripideo con un lessico meno aulico e più moderno.


Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini
Un momento dello spettacolo 
© Filippo Manzini

Nell’ambiente claustrofobico dell’óikos si dibatte la regina «con uno sguardo feroce come una leonessa appena sgravata». La scenografia di Alessandro Camera rappresenta una casa con un salone a sinistra, dove Medea interagisce con gli altri personaggi e il coro, e la stanza nuziale a destra con al centro il talamo nel quale la donna si accuccia, dopo le folgoranti visioni tragiche, come un animale nella tana. Sullo sfondo un bagno con una doccia e un lavandino. La scenografia “minimal” accosta in modo paratattico spazio scenico e retroscenico. 

I colori sono terrei, rugginosi in accordo con la desolazione, l’“arsura” di Medea che più volte si lava il viso e beve alla ricerca di refrigerio, di sollievo dalla sofferenza. L’acqua assume una forte valenza simbolica quando la donna, dopo l’infanticidio, si denuda e fa la doccia mentre il coro canta il thręnos. È il momento dell’ictus tragico; la madre assassina lava le sue colpe in una abluzione sacra. 

Lo spazio extrascenico della reggia di Creonte è evocato dalle parole dal messaggero che nella rhésis angheliké descrive con dettagli macabri e spaventosi la morte di Creusa e dello stesso Creonte arsi vivi dal veleno con cui Medea ha intriso i doni nuziali: «una veste leggera e una corona d’oro». L’«esperta di malefici» li prepara in scena cuocendoli in un pentolone mentre il coro tenta di convincerla a desistere dal folle piano.   


Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini
Un momento dello spettacolo 
© Filippo Manzini

La drammaturgia dei costumi, realizzati da Alessio Zero, sottolinea l’atmosfera funerea: tutti i personaggi, Medea inclusa, indossano severi abiti neri. Evidente è il contrasto cromatico tra il coro vestito di chiaro e Medea, metafora dell’inconciliabilità tra metriótes (misura) e upermétron (eccesso). «Un amore troppo grande e violento non è un bene. Ci vuole moderazione. Allora l’amore è benedetto». Contrasto sottolineato anche dall’uso sapiente delle luci di Michelangelo Vitullo che alterna chiarore e tenebre. 

Il coro, composto da tredici elementi, a cui si aggiungono la nutrice e il pedagogo, rimane in scena come nel teatro euripideo per tutto il dramma e alterna recitazione corale e singola, recitativo e canto, movimento e stasi. Esso interagisce con l’eroina attraverso il dialogo e la mimica alternando gesti accoglienti di sympháteia a gesti respingenti di disapprovazione. Pietà e terrore, éleos e phóbos

La scelta del regista milanese insiste sull’espressività di Medea che attraverso la voce e il corpo esprime i cambiamenti interiori della donna che la portano gradualmente alla catastrophé. Medea inizialmente si muove con andatura animalesca, quasi a quattro zampe; i capelli sciolti le coprono il viso mentre si agita in casa come una bestia braccata. Successivamente, dopo aver escogitato il piano di vendetta, assume una posizione eretta pur mantenendo l’andatura claudicante allusiva alla moralità “zoppa”. I capelli sono ora scostati dal viso e l’espressione fisiognomica è a volte impassibile a volte stravolta. 


Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini
Un momento dello spettacolo 
© Filippo Manzini

Federica Di Martino esprime con straordinaria bravura le tante sfumature del dolore di una donna abbandonata: l’incredulità iniziale, il tentativo disperato di riconquistare l’amato, il rimprovero alla sacralità del vincolo matrimoniale («era legato a me con giuramenti sacri»), il ricordo nostalgico del passato condiviso, la rabbia («per te io sono una maledizione vivente!»), il desiderio di vendetta, la lucida follia («questa mia passione rabbiosa è più forte della mia ragione»), l’esitazione subito accantonata dall’amor proprio («cos’è questa mia debolezza? Solo vigliaccheria»). Pianificata la vendetta, Medea recita con Giasone il ruolo che il marito si aspetta da lei: «noi donne lo sai siamo quel che siamo […]. Ma tu sei un uomo e non devi abbassarti al mio livello, ribattere alle mie sciocchezze». Nel gioco delle parti la donna interpreta la moglie comprensiva e altruista, lucida e calma. Ed è in questo “caos calmo” che scoppia la violenza. 

Nel momento tragico dell’infanticidio si ode un silenzio assordante. Nella penombra della stanza nuziale Medea sgozza i figli inermi che, differenza con il testo euripideo, non urlano né implorano la madre. I due corpi cadono morti sul letto dove sono stati concepiti. Nel finale la madre si ritira nell’ombra portandoli con sé. 

Due sono le differenze nel mythos che determinano un cambiamento di significato. La prima è l’assenza dell’episodio di Egeo, il re di Atene, che offre ospitalità a Medea, condannata all’esilio. «Nel momento della angoscia più grande, quest’uomo mi è apparso: è lui il porto dove getterò gli ormeggi» (vv. 768-777). Nel dramma euripideo Egeo ha l’importante funzione di offrire alla donna un asilo dove recarsi dopo l’omicidio. Nello spettacolo di Lavia, Medea non si pone il problema del futuro e vive nell’urgenza del presente. 


Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini
Un momento dello spettacolo 
© Filippo Manzini

L’altra variatio importante è l’eliminazione totale dei riferimenti agli dei. Mancano le invocazioni a Zeus, Afrodite, Ecate, Apollo e al Sole, l’avo di Medea, sostituito dalla perifrasi «terra dove sorge il Sole»: ne deriva che le azioni umane non sono imputabili alla volontà divina. Così Giasone non attribuisce la straordinarietà dell’amore di Medea nei suoi confronti al capriccio di Afrodite ma a Medea stessa: «tu mi desideravi! Perché tu mi amavi. Pazzamente. Solo per questo mi hai salvato». L’amore “malato” di Medea trova la sua ragione solo nel cuore della donna. 

È soprattutto nel finale che emerge l’interpretazione di senso data dal regista. In Euripide, secondo il consueto motivo eziologico, Medea dichiara di voler seppellire i figli nel tempio di Era Acraia dove «per i tempi a venire istituirò feste solenni e riti ad espiazione di questo empio assassinio» (vv. 1382-1383). Nello spettacolo, invece, l’eroina esprime la volontà di portare via con sé i figli assassinati «perché nessuno possa profanare la loro tomba». 

Se poi in Euripide Medea, figlia del Sole, fugge sul suo carro, rientrando nella sfera del mito cui appartiene, nello spettacolo di Lavia la protagonista scompare nel buio della casa, nelle “tenebre della ragione”, come una donna comune. Il male peggiore, l’uccisione dei propri figli, non ha spiegazione e il coro non può che constatare: «così questa vicenda si è conclusa» (toind apebe tode pragma). 

In Euripide il riferimento finale topico agli dei («Zeus nell’Olimpo, è arbitro di molti eventi; e molti si compiono, per volere degli dei, contro ogni speranza», vv. 1415-1416) riconduce il male all’imprevedibilità del volere divino. 

Il risultato è una Medea terribile, totalmente colpevole, che suscita più paura che compassione. Il pubblico rimane in silenzio sbigottito dalla “banalità del male”: «Quanto dolore e rabbia in una famiglia sconvolta!» (coro).

 


Medea
cast cast & credits
 



Un momento dello spettacolo Teatro della Pergola, Firenze
Un momento dello spettacolo Teatro della Pergola, Firenze



L'attrice Federica Di Martino
L'attrice Federica Di Martino



 
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