«Conosco
la sua collera, non si raffredderà se non si scatena contro qualcuno. Spero
contro un nemico e non contro chi la ama […], ha il carattere terribile e la
natura di chi è piena di orgoglio»; così la nutrice nel prologo parla di Medea
al pedagogo. Una donna terribile, orgogliosa, piena di rabbia pronta ad
esplodere. La Medea di Euripide
diretta da Gabriele Lavia sviluppa
soprattutto queste caratteristiche delleroina tragica, uno dei personaggi più
complessi e dibattuti del teatro greco e non solo. Il testo dello spettacolo si
basa sulla traduzione realizzata per loccasione da Maria Grazia Ciani (già traduttrice per ledizione Marsilio del
1997), adattata dal regista. Il risultato è una sceneggiatura in linea di
massima fedele al dramma euripideo con un
lessico meno aulico e più moderno.
Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini Nellambiente
claustrofobico dellóikos si dibatte
la regina «con uno sguardo feroce come una leonessa appena sgravata». La
scenografia di Alessandro Camera rappresenta
una casa con un salone a sinistra, dove Medea interagisce con gli altri
personaggi e il coro, e la stanza nuziale a destra con al centro il talamo nel
quale la donna si accuccia, dopo le folgoranti
visioni tragiche, come un animale nella tana. Sullo sfondo un bagno con una
doccia e un lavandino. La scenografia “minimal”
accosta in modo paratattico spazio scenico e retroscenico.
I
colori sono terrei, rugginosi in accordo con la desolazione, l“arsura” di
Medea che più volte si lava il viso e beve alla ricerca di refrigerio, di
sollievo dalla sofferenza. Lacqua assume una forte valenza simbolica quando la
donna, dopo linfanticidio, si denuda e fa la doccia mentre il coro canta il thręnos.
È il momento dellictus tragico; la madre
assassina lava le sue colpe in una abluzione sacra.
Lo
spazio extrascenico della reggia di Creonte è evocato dalle parole dal
messaggero che nella rhésis angheliké
descrive con dettagli macabri e spaventosi la morte di Creusa e dello stesso Creonte arsi vivi dal veleno con cui Medea ha intriso
i doni nuziali: «una veste leggera e una corona doro». L«esperta di malefici»
li prepara in scena cuocendoli in un pentolone mentre il coro tenta di
convincerla a desistere dal folle piano.
Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini La
drammaturgia dei costumi, realizzati da Alessio
Zero, sottolinea latmosfera funerea: tutti i personaggi, Medea inclusa,
indossano severi abiti neri. Evidente è il contrasto cromatico tra il coro
vestito di chiaro e Medea, metafora dellinconciliabilità tra metriótes (misura) e upermétron (eccesso). «Un amore troppo
grande e violento non è un bene. Ci vuole moderazione. Allora lamore è
benedetto». Contrasto sottolineato anche dalluso sapiente delle luci di Michelangelo Vitullo che alterna
chiarore e tenebre.
Il
coro, composto da tredici elementi, a cui si aggiungono la nutrice e il pedagogo,
rimane in scena come nel teatro euripideo per tutto il dramma e alterna
recitazione corale e singola, recitativo e canto, movimento e stasi. Esso
interagisce con leroina attraverso il dialogo e la mimica alternando gesti accoglienti
di sympháteia a gesti respingenti di
disapprovazione. Pietà e terrore, éleos
e phóbos.
La
scelta del regista milanese insiste sullespressività di Medea che attraverso
la voce e il corpo esprime i cambiamenti interiori della donna che la portano
gradualmente alla catastrophé. Medea
inizialmente si muove con andatura animalesca, quasi a quattro zampe; i capelli
sciolti le coprono il viso mentre si agita in casa come una bestia braccata.
Successivamente, dopo aver escogitato il piano di vendetta, assume una
posizione eretta pur mantenendo landatura claudicante allusiva alla moralità
“zoppa”. I capelli sono ora scostati dal viso e lespressione fisiognomica è a
volte impassibile a volte stravolta.
Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini Federica Di Martino esprime con
straordinaria bravura le tante sfumature del dolore di una donna abbandonata:
lincredulità iniziale, il tentativo disperato di riconquistare lamato, il
rimprovero alla sacralità del vincolo matrimoniale («era legato a me con
giuramenti sacri»), il ricordo nostalgico del passato condiviso, la rabbia
(«per te io sono una maledizione vivente!»), il desiderio di vendetta, la
lucida follia («questa mia passione rabbiosa è più forte della mia ragione»),
lesitazione subito accantonata dallamor proprio («cosè questa mia debolezza?
Solo vigliaccheria»). Pianificata la vendetta, Medea recita con Giasone il
ruolo che il marito si aspetta da lei: «noi donne lo sai siamo quel che siamo
[…]. Ma tu sei un uomo e non devi abbassarti al
mio livello, ribattere alle mie sciocchezze». Nel gioco delle parti la donna
interpreta la moglie comprensiva e altruista, lucida e calma. Ed è in questo
“caos calmo” che scoppia la violenza.
Nel
momento tragico dellinfanticidio si ode un silenzio assordante. Nella penombra
della stanza nuziale Medea sgozza i figli inermi che, differenza con il testo
euripideo, non urlano né implorano la madre. I due corpi cadono morti sul letto
dove sono stati concepiti. Nel finale la madre si
ritira nellombra portandoli con sé.
Due
sono le differenze nel mythos che determinano un cambiamento di significato. La prima è
lassenza dellepisodio di Egeo, il re di Atene, che offre ospitalità a Medea,
condannata allesilio. «Nel momento della angoscia più grande, questuomo mi è
apparso: è lui il porto dove getterò gli ormeggi» (vv. 768-777). Nel dramma
euripideo Egeo ha limportante funzione di
offrire alla donna un asilo dove recarsi dopo lomicidio. Nello spettacolo di
Lavia, Medea non si pone il problema del futuro e vive nellurgenza del
presente.
Un momento dello spettacolo © Filippo Manzini Laltra
variatio importante è leliminazione
totale dei riferimenti agli dei. Mancano le invocazioni a Zeus, Afrodite,
Ecate, Apollo e al Sole, lavo di Medea, sostituito dalla perifrasi «terra dove
sorge il Sole»: ne deriva che le azioni umane non sono imputabili alla volontà
divina. Così Giasone non attribuisce la straordinarietà dellamore di Medea nei
suoi confronti al capriccio di Afrodite ma a Medea stessa: «tu mi desideravi!
Perché tu mi amavi. Pazzamente. Solo per questo mi hai salvato». Lamore
“malato” di Medea trova la sua ragione solo nel cuore della donna.
È
soprattutto nel finale che emerge linterpretazione di senso data dal regista.
In Euripide, secondo il consueto motivo eziologico, Medea dichiara di voler
seppellire i figli nel tempio di Era Acraia dove «per i tempi a venire
istituirò feste solenni e riti ad espiazione di questo empio assassinio» (vv.
1382-1383). Nello spettacolo, invece, leroina esprime
la volontà di portare via con sé i figli assassinati «perché nessuno possa
profanare la loro tomba».
Se
poi in Euripide Medea, figlia del Sole, fugge sul suo carro, rientrando nella
sfera del mito cui appartiene, nello spettacolo di Lavia la protagonista scompare nel buio della casa, nelle “tenebre della
ragione”, come una donna comune. Il male peggiore, luccisione dei propri
figli, non ha spiegazione e il coro non può che constatare: «così questa
vicenda si è conclusa» (toind apebe tode
pragma).
In
Euripide il riferimento finale topico agli dei («Zeus nellOlimpo, è arbitro di
molti eventi; e molti si compiono, per volere degli dei, contro ogni speranza»,
vv. 1415-1416) riconduce il male allimprevedibilità del volere divino.
Il
risultato è una Medea terribile, totalmente colpevole, che suscita più paura
che compassione. Il pubblico rimane in silenzio sbigottito dalla “banalità del
male”: «Quanto dolore e rabbia in una famiglia sconvolta!» (coro).
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