Goldoni è di casa al Verdi di Padova e Giorgio Sangati sembra esserne lambasciatore; dopo Le donne gelose di qualche settimana fa,
il giovane regista, sostenuto dal Teatro Stabile del Veneto, azzarda con Arlecchino, testo celeberrimo dellAutore
veneziano. Altro che potere intimidatorio dei classici! Il servitore di due padroni, in special modo in Italia, rappresenta
una sfida dichiarata per chi decide di proporne una nuova regia. Macchina
scenica perfetta, dalla trama tanto aggrovigliata quanto vincente, chez nous quando si dice Arlecchino si
dice Strehler e Piccolo Teatro. Il
fortunatissimo allestimento strehleriano, lo si voglia o no, è diventato pietra
di paragone per ogni nuova riattivazione del testo e Sangati, formatosi allatelier milanese, lo sa bene.
La nuova messinscena si pone, dunque, in rapporto
contraddittorio con la tradizione, citando con gusto, sorprendendo il palato e
azzardando con spezie nuove che possono essere più o meno apprezzate, ma che
non mancano di qualità. In particolare, del celebre spettacolo del 1947,
Sangati sembra privilegiare ledizione detta di Villa Litta del 1963, nella
quale la metateatralità del testo viene sottolineata. Questo Arlecchino 2017 comincia
nella penombra di uno stanzone in cui un gruppo di comici sta riposando tra
bauli e abiti polverosi. Ad apertura di sipario la compagnia si sveglia e,
accorgendosi del pubblico, sprimaccia
la scena e dà avvio alla narrazione.
Un momento dello spettacolo
© Serena Pea
Nove attori e una musicista, panche, bauli e luci, ma
soprattutto le maschere di Donato
Sartori: questi gli elementi che scrivono
lo spettacolo. I colori sono quelli della terra, marrone, ocra, rosso, qualche
punta di verde e blu nei costumi, nuances
mai brillanti ma come sbiadite dal tempo. Le tonalità smorzate, unite al trucco
degli attori, conferiscono alla recitazione la cifra stilistica di una Commedia
dellArte da cartolina. Non realistica, ma riprodotta. Non filologica, ma
originale.
Simile atteggiamento interessa le scelte in materia
testuale. Ladattamento infatti ritraduce la commedia assegnando ai personaggi
dialetti differenti rispetto a quelli tradizionali. Il dottore, Michele Mori, si esprime così in
fiorentino e non nel consueto bolognese, i canti intonati dagli attori e accompagnati
dalla fisarmonica di Veronica Canale provengono dalla cultura popolare del
nostro meridione, in particolare da quella siciliana.
Un momento dello spettacolo
© Serena Pea
Il regista gioca non solo con
i dialetti dei suoi attori, ma anche con i generi: Pantalone è interpretato con
efficacia da unandrogina Eleonora Fuser che toglie in
aggressività – tipica del rustego pater
familias – e aggiunge in nostalgia. Unaltra donna, Anna De Franceschi, rotondissima nel costume di Brighella,
costruisce un oste che predilige la simpatia a quel tratto di ostentata
superiorità che separa di consueto i due zanni, lo sciocco e lastuto,
Brighella e Arlecchino (un Arlecchino, quello di Marco Zoppello, affatto tontolone). Sangati, sulla scia
dellartista Sartori, pare aver seguito il sentiero delle origini di questa
maschera fino a recuperarne i tratti meno caserecci, quelli ancestrali, ferini, diabolici, istintuali.
Arlecchino/Zoppello,
rossiccio di barba e capello, non conosce pudore, è guidato da sesso e fame,
scopi ultimi del suo agire. Il soddisfacimento di questi bisogni primari è
lintenzione su cui si costruiscono i movimenti dellattore. Zoppello plasma un
personaggio giovane, comico e animalesco; non è un acrobata e non tenta di
emulare le imprese di alcuni storici predecessori. I lazzi vengono infatti
ricalibrati sulle sue caratteristiche. La mollica di pane, la mosca, la lettera
fatta a pezzi, la rocambolesca cena, sono lazzi-espedienti tutti presenti ma
reinterpretati.
Un momento dello spettacolo
© Serena Pea
Gli
innamorati, da parte loro, spingono senza riserve sul pedale del grottesco.
Silvio/Folena Comini, Clarice/Meneghetti, Florindo/Rota, Beatrice/Serena, divengono così più maschere delle maschere, portatori
ognuno di un “ruolo” che pare fondere Commedia dellArte e compagnia per ruoli
ottocentesca in un potpourri che
stimola franche risate.
Infine
Smeraldina, la servetta di casa De Bisognosi, costituisce unottima prova per Irene Lamponi. Lattrice delinea un
personaggio rozzo e sguaiato ma dal retrogusto svampito e contemporaneo, da giovane
donna emancipata. Come il compare Arlecchino, per estrazione sociale o per
“mentalità”, anche Smeraldina è poco avvezza alle formalità e meravigliosamente
pragmatica in gesti, azioni, battute. Il regista riserva a lei la celebre
sentenza con la quale Clarice chiude il primo atto: «Ah, pur troppo egli è vero: in questa vita per lo più o si pena, o si
spera, e poche volte si gode» (I, 22). E gode
Smeraldina e ci esorta a godere, insieme alla maschera a noi tanto cara e a Sir
Goldoni attraverso una serata tutta inscritta nel “mondo
del teatro”. Un divertissement senza
pretese moralistiche nel quale trionfa larte, così utile oggi, del sapersi
arrangiare.
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