La
sorella di Gesucristo è il terzo e ultimo capitolo della
Trilogia della provincia: tre monologhi scritti e interpretati
da Oscar De Summa, ospitati dal Teatro Fabbricone nello spazio
raccolto della Sala 2.
Come
i due episodi precedenti (Diario di provincia e Stasera
sono in vena), anche questa terza tappa è ambientata ad «Erchie:
provincia di Brindisi, città medievale, Comune dEuropa» (si
legge nella presentazione riportata sul sito dellattore) negli
anni 80, unepoca di contraddizioni in bilico fra un
apparentemente sfrenato progresso economico e tecnologico e il peso
di tradizioni ancestrali.
De
Summa, eclettico attore, drammaturgo e regista con alle spalle, fra
laltro, numerosi adattamenti shakespeariani, sceglie dunque come
punto di partenza la Puglia della propria adolescenza – una terra
resa ancor più difficile dalla nascita della Sacra Corona Unita –
per proporre temi universali e di stringente attualità.
Lo
spettacolo è certamente ascrivibile al genere del teatro di
narrazione. Ma in questo caso la narrazione è un tenue pretesto per
evocare voci, emozioni, contraddizioni, per suscitare nello
spettatore adesione e repulsione, per portarlo a mettere
continuamente in discussione ciò che viene raccontato e, in ultima
analisi, sé stesso.
La
storia infatti è semplice, di una linearità paradigmatica: la
diciassettenne Maria attraversa il sonnolento paesino pugliese con in
mano una pistola Smith & Wesson nove millimetri. In questa marcia
silenziosa e determinata, dalla meta ben precisa, incontra familiari,
compaesani, amici. Non interagisce con nessuno, ma il suo passaggio
suscita reazioni, commenti, prese di posizione. Infine la ragazza
giunge davanti alluomo che la sera precedente – un venerdì
santo – le ha usato violenza.
Il
percorso è scandito in fasi che si ripetono con lo stesso schema:
ogni segmento di racconto è preceduto dalla fredda enunciazione di
strategie militari e seguito da un riassunto per immagini in stile
comics (gli efficaci disegni di Massimo Pastore),
proiettate e accompagnate da musica pop-rock anni 80.
Oscar De Summa in un momento dello spettacolo ©Lucia Baldini
Tanto
il nome della protagonista quanto il suo ironico epiteto (“la
sorella di Gesucristo”) rimandano alla religione cattolica: così
le diverse tappe della marcia si configurano quasi come altrettante
stazioni di una Via Crucis. Più o meno scoperti, i
riferimenti alla Passione di Cristo abbondano: dal già citato
soprannome della ragazza allesplicito accostamento fra Giuda e
lamica traditrice, dallo scontro con maldicenze e derisioni
allincontro con figure solidali, fino alla scelta di ambientare la
vicenda proprio durante la Settimana santa.
Diametralmente
opposto lepilogo: Maria non va incontro al proprio ineluttabile
sacrificio, ma alla riappropriazione di sé stessa, che passa
attraverso luccisione dello stupratore. Una morte altrettanto
ineluttabile? Sì, se vogliamo adottare una lettura simbolica della
drammaturgia: durante la narrazione, del resto, lazione del
camminare viene spesso descritta come un dovere, quasi più grande
della volontà della stessa Maria. No, se la riflessione si sposta
sui concreti effetti della violenza: una via che lattore-autore
sembra indicare nellultima parte del monologo, lasciando poi lo
spettatore immerso nel rovello di dubbi e sensazioni contrastanti,
senza la possibilità di unaristotelica catarsi né il conforto di
una qualche cristiana redenzione.
Matteo
Gozzi progetta una scena completamente spoglia, illuminata da
luci arancio che passano al blu nei momenti più lirici. De Summa,
vestito in modo neutro, si sposta fra i due microfoni previsti dalla
“partitura” da lui orchestrata: protagonista assoluta diventa
così la sua voce, che, complici gli effetti sonori ottenuti grazie
alle diverse modulazioni dellamplificazione, riesce a
caratterizzare con infinite sfumature personaggi e azioni. Lattore,
nelluso quasi virtuosistico dello strumento vocale, sembra trovare
i suoi punti di riferimento nellarte di Carmelo Bene e Leo
de Berardinis.
La
narrazione viene condotta a volte con ritmo frenetico, a volte con
sospensioni e pause poetiche; i compaesani di Maria diventano una
sorta di coro nel quale spiccano però alcune individualità
tratteggiate con ironia: la folla infatti assume un ruolo
fondamentale nella vicenda e spesso cambia opinione in modo tanto
repentino quanto compulsivo, come nel Giulio Cesare di
Shakespeare.
Ciascuno
dei personaggi principali, poi, viene restituito in tutta la sua
ambiguità e complessità: particolarmente efficaci i ritratti di
Teresa, lamica traditrice – che il pubblico è portato a
“condannare” non senza un moto di compassione –, e della madre
dello stupratore, che, descritta con tratti quasi animaleschi,
recupera una sua dimensione umana proprio schierandosi con Maria.
Oscar De Summa in un momento dello spettacolo ©Lucia Baldini
Così,
attraverso le tante voci di questo racconto corale, emergono a poco a
poco le diverse modalità con cui viene praticata la violenza “di
genere”: quella fisica, quella legata agli stereotipi, quella
determinata da ruoli sociali secolari e apparentemente incrollabili,
quella, sottile ma non meno distruttiva, delle parole. «Se lè
cercata», «è stata lei a provocarlo»: frasi che corrono di bocca
in bocca nella provinciale Erchie; frasi che chiunque, almeno una
volta, può aver ascoltato o letto (o magari pensato) a commento di
episodi di stupro.
Dalla
finzione scenica si passa senza soluzione di continuità
allattualità: ed ecco che lo spettatore diventa parte muta di
quel coro paesano ed è chiamato a interrogarsi e a confrontarsi in
modo critico con le proprie convinzioni sul tema della violenza.
Il
coinvolgimento del pubblico è ottenuto attraverso un ben dosato
equilibrio fra il pathos dei momenti più intensi e il
distacco provocato dallironia, complici le musiche che dialogano
in modo serrato e coerente con la narrazione. Dagli Eurythmics ai
Police, dai Pink Floyd ai Nirvana, passando per gli U2, De Summa
sceglie un repertorio di grandi classici del pop-rock
risalenti prevalentemente agli anni 80: se da una parte i brani
selezionati rappresentano la colonna sonora ideale di chi in quel
periodo ha vissuto la propria adolescenza, dallaltra costituiscono
un patrimonio comune intergenerazionale immediatamente riconoscibile.
Per questo sono un tappeto musicale perfetto per linarrestabile
marcia di Maria, accentuandone il carattere simbolico.
Proprio
la protagonista sembra lunica a non trovare una sua voce. Se gli
altri personaggi vengono descritti con precisione chirurgica nelle
loro più intime contraddizioni, la “sorella di Gesucristo”
rimane insondabile, quasi inaccessibile. Così lo scarto di registro
che caratterizza lultimo “atto” della vicenda lascia spazio a
molteplici interpretazioni. De Summa si allontana dai microfoni,
riduce lamplificazione al minimo, smette le inflessioni dialettali
con cui aveva in precedenza tratteggiato alcuni passaggi, adotta un
tono di voce neutro, privo di picchi espressivi, e dà vita al
personaggio dello stupratore, enunciando una vera e propria apologia
della violenza.
Si
sente uno sparo. Siamo di fronte a una morte necessaria, “giusta”
punizione di unazione gravissima, premessa imprescindibile al
riscatto di Maria e di tutti coloro che hanno subito un trauma
simile? Oppure si tratta di unulteriore conseguenza nefasta
dellatto violento, talmente forte da confondere vittima e
carnefice in una spirale potenzialmente infinita?
Nel
programma di sala si legge: «È giusto usare la violenza per
riparare ad una violenza? E se così non fosse che alternative
avremmo?». Quesiti lasciati deliberatamente aperti, che non trovano
risposta nello spettacolo. Ma poiché il teatro diventa tanto più
pregnante quanto più semina dubbi e inquietudini, stimolando la
riflessione e incoraggiando il pensiero critico, la performance
di De Summa risulta pienamente convincente.
|
|