È
tutto pronto in casa Höller per il compleanno di Himmler. È un giorno importante:
il giorno della “ricorrenza”. Vera Höller (Elena
Bucci) entra in scena quasi a passi di danza, tenendo in mano un ferro da
stiro.
Fa
freddo. Le pareti sono «gelide», le «mura agghiaccianti». Pochi arredi si
stagliano nel buio della scena: qualche sedia, una poltrona, un tavolo. Un
pianoforte quasi dimenticato. Un asse da stiro. E Vera, in quel giorno che si
ripete da sempre ogni anno, si appresta a stirare la toga del fratello Rudolf (Marco Sgrosso), mentre Clara (Elisabetta Vergani), sorella
paraplegica, gli rammenda i calzini. Prende avvio così Prima della pensione, commedia in tre atti di Thomas Bernhard, messa in scena allArena del Sole di Bologna dalla
compagnia Le Belle Bandiere di Elena Bucci e Marco Sgrosso, che ne hanno curato
le scene e la regia, oltre che il progetto.
Vor dem
Ruhestand
(questo il titolo originario) è una commedia “politica” – anche se solo in
apparenza – rappresentata per la prima volta a Stoccarda allo Staatstheater nel
1979, sotto la direzione di Claus Peymann,
che ha firmato la regia di quasi tutti i lavori di Bernhard.
In
Italia il teatro del drammaturgo austriaco è arrivato tardi. Prima della pensione ha visto il suo debutto italiano soltanto nel 1999, per la regia di Piero Maccarinelli, con la celebre
interpretazione di Umberto Orsini
nel ruolo di Rudolf, e con Milena
Vukotic e Valeria Moriconi nei
panni delle due sorelle. A colpire fu probabilmente latmosfera familiare,
borghese che ne emergeva, se Renato
Palazzi sulle colonne de «Il Sole 24 Ore» titolò la sua recensione Il nazista in pantofole. Del resto la
commedia parla sì della persistenza del nazismo in Germania, ma lo rappresenta
allinterno di dinamiche familiari e di precari equilibri, tra medaglioni di
vitello serviti a tavola e bottiglie di spumante tenute in fresco, discorrendo
della tappezzeria da cambiare o della polvere di cui è intrisa tutta la casa.
Una commedia “psicologica” e solo apparentemente politica, definita da Benjamin Heinrichs «il più complicato,
il più sinistro, il testo migliore di Bernhard» (come si legge nelle note di
regia).
Un momento dello spettacolo © Luca Del Pia
Il
7 ottobre di ogni anno i tre fratelli, Vera, Rudolf e Clara festeggiano il
compleanno di Himmler con una prelibata cena, nella casa in cui vivono da
quando erano bambini. Così vuole Rudolf: è la sua «follia personale», questa,
di celebrare la ricorrenza indossando la divisa del tempo, cenando con un buon
bicchiere di Principe di Metternich, lo spumante dei “bei tempi andati”: quelli
del lager.
Rudolf,
ex ufficiale delle SS, stimato e apprezzato da Himmler, oggi è un giudice
prossimo alla pensione, con smanie ecologiste: ha appena impedito la
costruzione di una fabbrica di veleni davanti alla propria casa. Vera è sua
sorella devota. Anche lei nostalgica del nazismo. Condivide con il fratello,
oltre agli ideali, un rapporto incestuoso. Si occupa della casa, nonché
dellaltra sorella, Clara, paralizzata su una sedie a rotelle a causa di un
bombardamento americano durante lultimo conflitto mondiale. Ribelle e di
sinistra, si oppone strenuamente alle idee dei fratelli.
I
protagonisti sono immobili, prigionieri delle proprie manie, delle proprie
ossessioni che ritornano e si ripetono continuamente. Immanenti e monolitici, come
i personaggi di una tragedia greca, non possono sfuggire a ciò che il destino
ha stabilito per loro, né evadere dal proprio “ruolo”.
I
luoghi sono chiusi e la casa assume le sembianze di un antro, caverna-prigione
in cui quel “rito” deve compiersi. I movimenti sono ridotti, talvolta
obbligati, come quelli cui costringe la sedia a rotelle. Le azioni si cristallizzano
in rituali che si perpetuano. Tutto è codice e regola. Niente è mai cambiato,
neanche la tappezzeria della casa, che è ancora quella scelta dai genitori, una
madre suicida e un padre autoritario, i cui gretti insegnamenti echeggiano di
continuo sulla scena. Questa assenza di cambiamento è ribadita ripetutamente nel
corso di tutta la pièce, riflesso del perdurare del nazismo in quella società
tedesca che è costretta a vivere i propri ideali di nascosto, coltivando il
sogno di poterli un giorno dichiarare al mondo intero. Sono dei «cospiratori», dunque,
questi fratelli, «un gruppo di cospiratori» sempre in agguato.
Un momento dello spettacolo © Luca Del Pia
Lossessione
sembra diventare allora la dimensione drammaturgica della messa in scena (come
sempre nel teatro di Bernhard) e pervade, nella forma della ripetizione i gesti
rituali e limpalcatura linguistica, fatta di frasi martellanti che si
duplicano, si triplicano, con variazioni e scarti minimi, diventando quasi formulari.
Sono fiumi di parole inframmezzate da risatine, sospiri, voci stridule o parole
urlate, gli interminabili sproloqui di Vera, dominati da una straordinaria
Elena Bucci (neo vincitrice del Premio Ubu come miglior attrice, nonché del prestigioso
premio Eleonora Duse).
Vera
si muove ostentando la disinvoltura, solo apparente, di chi tenta di tenere
tutto sotto controllo, facendo ricorso ai registri più diversi: talvolta,
perfida e feroce, si scaglia contro il mondo, reo perfino di essere povero, se
– diceva suo padre – «chi è povero / è anche colpevole del proprio stato / guai
aiutare i poveri»; altre volte questa Elettra bernhardiana ricorda nostalgica
linfanzia perduta, o raccoglie, un po civetta, i capelli in lunghe trecce,
quelle che piacciono tanto a Rudolf; o ancora si scopre vanitosa, nel terzo
atto, seduta a tavola in un brillante abito color argento (la supervisione ai
costumi è di Ursula Patzak). Leggera
si muove sulle tracce di una musica che percorre tutto lo spettacolo, spaziando
da Rachmaninov a Beethoven, da Björk a Marlene Dietrich,
passando per sonorità rock e pop (drammaturgia e cura del suono di Raffaele Bassetti). È un personaggio formidabilmente
restituitoci in tutta la sua volumetria: sfaccettato e contraddittorio,
nevrotico e compulsivo.
Un momento dello spettacolo © Luca Del Pia
Le
parole scorrono copiose anche nei lunghi discorsi, a tratti monologhi, affidati
a Rudolf, uno strepitoso Marco Sgrosso che, evocato più volte nel primo atto,
entra in scena soltanto nel secondo, tronfio e paranoico, che si lancia in
tirate contro lAmerica, contro la democrazia, clamorosa «truffa» – dice – e
contro gli ebrei che «mercanteggiano con la natura», e «sotto il pretesto della
democrazia» la «sventrano». Mentre sfoglia lalbum di fotografie con sua
sorella Vera, le sue nostalgie naziste sembrano invocare i fantasmi di un rito
esoterico e ricostruire lepos di una
tradizione mitica, sotto gli effetti ipnotici di luci verdastre e allucinanti
(disegnate da Loredana Oddone). La
sua è una follia “in poltrona”, quella stessa su cui resta seduto per tutto il
secondo atto; una follia fatta di minacciati colpi di pistola, ma anche di grandi
colpi di scena: lultimo, sul finale, quando, còlto da un improvviso attacco di
cuore, chiude questa commedia con unironia tragica che si riconosce in tutto
lo spettacolo.
Contraltare
ai due fratelli è Clara, una convincente e tenace Elisabetta Vergani. Il suo implacabile
mutismo cresce progressivamente dal primo allultimo atto, raggiungendo un
silenzio definitivo: quasi un kophon prosopon, mero ingombro non parlante di classica
memoria, la cui afasia ha più il sapore della reticenza che quello dellassenza
di contenuto. Clara – la cui menomazione fisica è emblema delloltraggio che
lAmerica ha compiuto nei confronti della Germania – diviene il simbolo di ciò
che non deve essere raccontato, che non deve uscire da quella casa, e insieme rappresenta
ogni spettatore che è testimone (muto) di questa tragica commedia. «Lei recita
la parte più difficile» – dice Vera –. «Noi siamo solo i suggeritori / Lei
tacendo / tiene viva la commedia», secondo unidentificazione di teatro e vita
che inquadra in una prospettiva metateatrale tutto lo spettacolo, perché, in
fondo – dice – «abbiamo imparato a memoria il copione / i ruoli sono già
assegnati da trentanni / ognuno ha la propria parte».
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