Il titolo è un plateale omaggio al Molière
dellÉcole des maris e Lécole des femmes, ma Antonio Salieri e il suo librettista Caterino
Mazzolà, quando nel 1778 diedero vita al «dramma giocoso in due atti» La
scuola de gelosi, ebbero antenne sintonizzate sul presente più che occhi
rivolti al passato: se accensione della vis comica e forza della
capacità di osservazione appaiono molieriane (filtrate però da uno schematismo
psicologico poco riconducibile allautore di Tartuffe), la globalità
dellimpianto e il retrogusto da conte philosophique sono figli
del secolo dei Lumi.
La comicità abbinata ai fremiti delleros era nellaria: Mozart e Da Ponte, pochi anni
dopo, lavrebbero fatta assurgere alle vette del sublime. Ma nulla nasce dal
nulla, come mostrano le sotterranee anticipazioni – ampiamente disseminate
nella Scuola de gelosi – di Così fan tutte (lidea di
“esperimento amoroso”), delle Nozze di Figaro (luso metaforico, in orchestra,
dei corni), di Don Giovanni (la tirata del sospettosissimo marito
protagonista preannuncia il «Faccia il nostro cavaliere / Cavaliera ancora te»
di Masetto); e se, al di là delle leggende poi ricamate al riguardo, Salieri verrà
schiacciato da Mozart, almeno Mazzolà dovrebbe riottenere il suo diritto di
primogenitura rispetto a Da Ponte. Anche se forse è vero, come diceva Borges, che ogni grande scrittore crea
i suoi predecessori.
Un momento dello spettacolo © Stefano Binci
A corroborare una rivalutazione di questopera cè poi linteresse che suscitò
in Goethe: non perché le sue opinioni
musicali fossero infallibili (derrori di valutazione in materia ne fece
molti), ma perché La scuola de gelosi restituisce sollecitazioni
drammaturgiche care alla Weimar goethiana. Autentico climax musicale e
teatrale della partitura, il quintetto della partita a carte – dove
linconfessata posta in gioco è una donna – sembra anticipare lanaloga scena
del biliardo nel Wildschütz di Lortzing:
gioiello dellopera comica tedesca che segue, sì, di oltre sessantanni il
dramma giocoso di Salieri, ma alla cui radice cè una commedia di Kotzebue. Ossia uno degli autori di
punta, sebbene allinterno dei “minori”, nella vita teatrale weimeriana.
Dunque un gioco sottile di anticipazioni e rimandi, che richiede – al concertatore
non meno che al regista – capacità di mediazione, consapevolezza culturale, pertinenza
stilistica: e in questa prima rappresentazione dellopera in tempi moderni (ma
lanno scorso ha avuto luogo unincisione discografica tedesca diretta da Werner Ehrhardt), frutto di una
coproduzione tra sei teatri (la recensione dà conto duna recita tenuta a
Jesi), tali desiderata venivano ottemperati. Giovanni Battista Rigon è bacchetta agile e scattante, sensibile
più al ritmo teatrale che allanatomizzazione della struttura: ne sortisce una
lettura musicale che, sottolineando i frequenti cambi di tempo della partitura
(e potendo contare sulla duttilità di un ensemble classico-barocco come I
Virtuosi Italiani), rende giustizia alla briosità del lavoro senza indugiare
sullandamento paratattico dei suoi numeri. Anche sui cantanti, soprattutto
quanto a dizione e modanatura dei recitativi, il concertatore dà lidea di aver
insufflato giusta vivacità; e piacciono certe estemporanee citazioni mozartiane
che – un po per celia, un po per non morire – Rigon si riserva al cembalo, rendendo
palpabile, anziché ideale, il ponte tra La scuola de gelosi e la
trilogia di Da Ponte.
Un momento dello spettacolo © Stefano Binci
Se il direttore guarda a Mozart, il regista non dimentica Goethe. Leggiadro
e discreto, lo spettacolo di Italo Nunziata e dei suoi collaboratori Andrea Belli (scenografo) e
Valeria Donata Bettella (costumista)
sinforma proprio a quella «varietà trattata con gusto delicato» con cui il
Vate di Weimar motivava la sua ammirazione per questopera: lo straniamento
della gelosia, e la vacuità delle sue motivazioni, si traducono in un impianto
scenico antinaturalistico (singoli e mobilissimi elementi piuttosto che una
scenografia unitaria) dove si “gioca” con i sentimenti anziché raccontarli; i
costumi sdoganano, in luogo del diciottesimo secolo lombardo descritto nel
libretto, un primo Novecento vagamente oscarwildiano memore degli equivoci
coniugali del Ventaglio di Lady Windermere; e il fatto che a dar volto
alla possessività incontrollata del villano arricchito Blasio e ai più
temperati rovelli dellaristocratico Conte Bandiera ci siano, rispettivamente,
la pelle gialla del baritono coreano Byongick
Cho e quella nera del tenore congolese Patrick
Kabongo restituisce alla perfezione – meglio di qualunque Regietheater
– interclassismo e transnazionalità della gelosia.
Dei sette interpreti, tutti giovani o giovanissimi, solo tre erano
italiani: la giusta proiezione del testo poteva scapitarne, ma si è detto delleccellente
lavoro svolto su pronuncia e dizione. Poi, certo, non in tutti laccento era ugualmente
saporoso e pregnante; ma non si può negare che il coreano Cho sia un “buffo” di
ottima presenza timbrica e scioltissimo recitar cantando. Semmai cè ancora da
ovviare a qualche disuguaglianza di emissione – soprattutto nel registro
superiore – in Kabongo, comunque provvisto dellaplomb da malinconico viveur
richiesto dal suo personaggio. A spiccare, però, è in primo luogo la Contessa
di Francesca Longari: che onora il
ruolo di gran lunga più arduo (unaria, nel secondo atto, degna del miglior
Mozart concertistico) con un canto terso, levigato e scorrevole, ma sempre ben
timbrato, e dominando la corda patetica abbinandola ad affondi da autentica commediante.
Un momento dello spettacolo © Stefano Binci
Eleonora Bellocci è una “seconda donna” in odor di
coprotagonismo, spiritosa e spigliata senza che la precisione musicale venga
meno. In Manuel Amati si è potuto
ascoltare un tenorino freschissimo (ventanni), ma non acerbo. Qianming Dou e Ana Victoria Pitts plasmano una coppia comico-plebea (servo poltrone
e servetta scaltra) simpatica, seppure non del tutto a fuoco. Ma, al di là di
graduatorie o preferenze, ciò che più simprime nella memoria è lomogeneità
dellinsieme e un vivido lavoro di squadra.
|
|