Sempre
molto amate dal pubblico di tutto il mondo, sempre, per questo,
tradizionalmente considerate inadatte ai palcoscenici di primissima sfera. Non
è un caso che, se Puccini torna a inaugurare la Scala dopo oltre trentanni, al
Festival di Salisburgo la Bohème sia
arrivata solo nel 2012, preceduta, guarda un po, da Tosca e Turandot ma anche
queste in tempi recenti (rispettivamente nel 1989 e nel 2002). La rivalutazione
culturale, più che solo musicale, di Puccini è del resto storia degli ultimi
decenni: è il frutto dellimpegno di un manipolo di studiosi, via via cresciuto
tanto da non essere adesso più solo un manipolo, che non hanno avuto paura di confrontarsi
con un fenomeno operistico moderno, sofisticato ma anche “di massa”, e con le
sfide intellettuali e i piaceri sensuali (forse il pericolo maggiore) che esso offre
a chi vi si accosti.
Una scena dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano
Su
questo fronte la Scala si trova adesso in una congiuntura ideale: il
sovrintendente Alexander Pereira,
che ha una manifesta propensione per cartelloni meno ingessati rispetto al
recente passato (penso alla ottima Cena
delle beffe di Umberto Giordano
con regia di Mario Martone nella
scorsa stagione, impensabile sotto le precedenti gestioni), si trova a
collaborare con Riccardo Chailly quale
direttore principale, uno dei maggiori e più intellettualmente curiosi direttori
(anche) pucciniani fin dagli inizi della sua carriera. Il risultato sono state
due delle più interessanti produzioni degli ultimi anni: La fanciulla del West della primavera 2016 (vedi recensione) e
appunto questultima Madama Butterfly.
Di
entrambe le opere Chailly ha presentato versioni inconsuete. Della Fanciulla la primizia assoluta della
versione prima della “prima” a New York nel 1910; di Butterfly la prima versione scaligera del 1904, quella caduta in
uno dei più sonori fiaschi della storia dellopera. In questo caso la primizia non
è assoluta. La ricostruzione della versione originaria di Butterfly si deve a Julian
Smith, che la realizzò su commissione di Ricordi nel 1981 per un
allestimento alla Fenice di Venezia nel 1982, e che poi è stata alla base di
una registrazione discografica nel 1996. Dal punto di vista musicale, molto cè
di diverso rispetto alla Butterfly che
normalmente si ascolta in teatro, niente tuttavia che ci aiuti oggi davvero a
capire i perché di quel tonfo clamoroso la sera del 17 febbraio 1904. Certo è,
però, che la vicenda nel 1904 ha tratti di ferocia razzista che lautore si
adopera a smussare nel corso delle riprese successive dellopera (le principali
a Brescia, pochi mesi dopo la disastrosa prima a Milano, poi Londra nel 1905, Parigi nel 1906 e lultima a New York nel 1907).
Nella
versione finale Pinkerton non diventerà un personaggio amabile, ma non sarà più
neppure così irrimediabilmente odioso come nella prima, e verrà perfino ricompensato
con un intenso, quanto ormai inutile, cedimento sentimentale, Addio, fiorito asil: un passo decisivo
perché il tenore, allopera tradizionalmente il “buono”, potesse guadagnarsi in extremis un briciolo di simpatia dal pubblico
(pubblico che a sua volta poteva così guardarsi in un specchio meno inquietante
rispetto a quellautentico mostro che era il Pinkerton del 1904).
Per
questa Butterfly Alvis Hermanis (regia) ha voluto una scena fissa giapponese (scene
di Hermanis stesso e Leila Fteita), fatta
di pareti scorrevoli (come quelle menzionate nel testo della prima scena dellopera),
con uno spazio al centro (di volta in volta la sala della casetta di
Butterfly-Pinkerton, la veranda, il giardino) sovrastato da due livelli
praticabili. Su questi si svolgono alcune scene e controscene in momenti
importanti dellopera. Sulle note del fugato dapertura, alcune geishe vi
mimano farfalle bianche intrappolate che pian piano si spengono; vi si svolge
lingresso di Butterfly nel primo atto (che così quindi è “visto” in scena e
non solo “udito” da dietro le quinte come nel libretto; a muoversi sul
praticabile è comunque una controfigura), vi si raccoglie un gruppo statuario di
invitate alle nozze di Butterfly con Pinkerton, fa la sua apparizione (sul
secondo livello) lo zio Bonzo, viene danzato il coro
a bocca chiusa e così via.
Una scena dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano
Le
pareti scorrevoli di carta aprono e chiudono spazi alla vista e sono anche lo schermo
su cui si alternano le proiezioni (di Ineta
Spunova), che mostrano immagini tratte da stampe giapponesi, collegate a
quanto di volta in volta il libretto menziona: fiori se si parla di fiori,
geishe se si parla di donne giapponesi, paesaggi con porto se si parla di navi,
paesaggi notturni quando si fa sera; in generale molte pagode (specie nel
secondo atto).
I
personaggi sono caratterizzati secondo lappartenenza etnica: i giapponesi
hanno costumi tradizionali e gestualità da teatro kabuki, gli americani costumi e gestualità occidentali (costumi di Kristīne
Juriāne, coreografie di Alla
Sigalova). Solo Butterfly allinizio del secondo atto
tenta limpossibile trasformazione, vestendo abiti da signora yenkee in una casa che è anche arredata
allamericana (come già nella regia famosa di Jean-Pierre Ponnelle).
Raccontata
così potrebbe essere una Madama Butterfly
qualsiasi. E in effetti è una Madama
Butterfly qualsiasi. Non discuto la qualità tecnica dellallestimento:
scene, costumi, macchine sono tutti di primordine, quali solo un teatro con
risorse economiche come la Scala può e sa mettere in campo. Quello che non mi
convince è il senso delloperazione. Le opere del 7 dicembre sono quelle con
cui si vuole dare un segno artistico forte, capace, almeno nelle intenzioni, di
dare unimpronta alla stagione, oltre che sottolineare limportanza della Scala
nel contesto operistico nazionale e internazionale.
In
passato si è provato a dare questo segno, con risultati alterni, come è ovvio
che sia, ma ci sono stati spettacoli che, proprio per il coraggio delle loro
scelte, hanno saputo far discutere. Penso al Tristan di Patrice Céreau,
alla Carmen di Emma Dante, al Don Giovanni
di Robert Carsen, al Lohengrin di Claus Guth, alla Traviata
di Dmitri Tcherniakov, al Ring di Guy Cassiers, a Giovanna
dArco di Moshe Leiser e Patrice Caurier. Questi spettacoli hanno
anche sollevato dissensi più o meno rumorosi, ed è inevitabile: quando si fanno
scelte decise qualcuno si scontenta sempre.
Con
la Butterfly la Scala questanno è al
riparo. Non ci sono stati i fischi dei soliti loggionisti; con poche eccezioni,
non ci sono state recensioni severe. Tutto è andato liscio. Si dirà: è stato un
bene. Forse, ma per questa scelta la Scala paga anche lo scotto di avere
inaugurato con uno spettacolo di routine,
di aver rinunciato a mettersi in gioco su uno degli aspetti che sono di
maggiore interesse nel teatro dopera contemporaneo, la regia.
Una scena dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano
La
Butterfly di Hermanis è per molti
aspetti uno spettacolo incoerente (sulla stampa si è letto anche “inesistente”)
e non riconciliato col testo che con tanto clamore si è scelto di portare in
scena. Parto da questultimo punto. Perché mai scegliere la prima versione di Butterfly,
quella in cui, come si è detto, il razzismo e la spregevolezza di Pinkerton sono
ai limiti del sostenibile, se poi la regia immunizza tutte le sue asprezze in
un giapponismo rassicurante? Perché mostrare uno Sharpless interessato quanto
Pinkerton alle spose bambine (tanto che intasca il catalogo che gliene
fornisce) se poi il personaggio è lunico occidentale che mostri da subito
pietà per Cio-Cio-San, di cui capisce la sincerità dei sentimenti?
Perché
poi quelle sporadiche rotture rispetto allazione
suggerita dal libretto, in uno spettacolo che gli è aderente con esiti perfino didascalici
(le proiezioni di cui sopra)? Qual è cioè il senso di mostrare larrivo di
Butterfly in scena, o di far “danzare” il coro a
bocca chiusa se da ciò non deriva un lavoro interpretativo sul personaggio (come nellepisodio
di Sharpless appena ricordato) o sulla situazione drammatica?
La
regia di Hermanis non ha trovato il modo di rendere interessante sul piano scenico
e narrativo un testo che pure gli offriva molti spunti: il razzismo e il
turismo sessuale (Butterfly ha quindici anni, l«età dei giuochi», come
sottolinea Sharpless nel primo atto) sono, purtroppo, ancora oggi temi di
scottante attualità e, come dicevo, sono più presenti nella
versione del 1904 che in quella standard dellopera.
Lo
spettacolo deve il suo successo alla componente musicale. Innanzitutto alla
direzione di Riccardo Chailly, che
si dimostra capace di dare un corpo sonoro differente ai
diversi Puccini che affronta. Tanto il suono della Fanciulla del West era trasparente e moderno, tanto quello di
questa Butterfly è denso, avvolgente,
struggente. Il suo compito era stavolta reso ancora più arduo dalla scelta della
prima versione dellopera. La Butterfly
del 1904 è una partitura meno risolta sul piano drammatico, che insiste su
scene che le versioni successive snelliscono in modo evidente e che,
soprattutto, presenta una audace, ma problematica articolazione in due atti.
Reggere la tensione nel lunghissimo secondo atto, nonostante un lieve cedimento
nellintermezzo (il punto su cui poi intervenne Puccini, dividendo latto in
due), è stata una grande prova direttoriale. Il pubblico ha per questo
giustamente premiato Chailly agli applausi
finali.
Unindisposizione
ha imposto la sostituzione di Maria José
Siri (Butterfly) che ha cantato tutte le recite allinfuori del 16 dicembre.
Al suo posto cera Liana Aleksayan.
Il soprano armeno è stata una molto gradita sorpresa. La sua voce, nonostante
un registro grave non particolarmente sonoro, si presta ad assecondare le
richieste di un ruolo che da quasi belcantistico nel primo atto, si fa vieppiù
drammatico nel secondo. Ottimo già il suo ingresso, con il temibile re bemolle
sovracuto pieno e sicuro; splendido sia dal punto di vista musicale che da
quello scenico il finale.
Molto
bene Bryan Hymel in uno dei ruoli
più ingrati dellintero repertorio: ha le difficoltà di un tenore eroico senza
averne le gratificazioni drammatiche e musicali (qui manca Addio, fiorito asil), ed è uno dei personaggi più esecrabili della storia
del melodramma. Il pubblico fatica a ricompensarlo come
avrebbe meritato (come si fa ad applaudire Pinkerton?). Benissimo anche lo
Sharpless di Carlos Álvarez, un
autentico lusso (vocale e scenico) per il console americano. Molto bene anche i
comprimari: gli ottimi Suzuki di Annalisa
Stroppa e il Goro di Carlo Bosi.
Molto bene anche Costantino Finucci
(il principe Yamadori) e il resto del cast.