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Riflessioni all’ombra dei ciliegi

di Chiara Schepis
  The Pride
Data di pubblicazione su web 18/12/2016  

«Ti ricordi quell’attore che recitava con me nel Giardino dei ciliegi?» – chiede Sylvia – «Ricordo vagamente quello spettacolo» – risponde Philip. 

Sylva e Philip sono i due coniugi usciti dalla penna di Alexi Kaye Campbell (classe 1966), autore greco di The Pride, di formazione statunitense e attore, per diverse stagioni, della Royal Shakespeare Company. Campbell ricama un testo nuovo e bello, per niente moralistico, una pièce di rara e raffinita sensibilità, cechoviana – si potrebbe osare –, proprio sulla scia di quel Giardino che, non a caso, viene evocato. Sarà forse l’agilità che ostenta nel gioco di mescolare storie e personaggi, differenze e assonanze, sarà il rispettoso atteggiamento nei confronti degli stati d’animo delle sue personae o, soprattutto, la capacità di gestire e annullare la variabile temporale ad avvicinare l’autore contemporaneo al mito russo. La regia di Luca Zingaretti, già apprezzato in una Torre d’Avorio di Harwood di qualche stagione fa, pare indugiare su questo aspetto eleggendolo a fortunata chiave di lettura del testo. 

Si tratta prevalentemente di un dramma notturno e di interni (solo nel finale l’azione si sposterà alle porte di un parco). Le luci di Pasquale Mari danno spessore a questi spazi, rendendo tangibili le emozioni. Nell’oscurità del pregiudizio le luci, calde o stroboscopiche, tirano fuori storie e racconti frammentari, evidenziandoli. Le mura domestiche infatti non proteggono, bensì denunciano l’impossibilità di nascondersi o difendersi dall’esterno. Il mondo c’è ed aggredisce, i personaggi ne portano addosso le ferite e lo materializzano nei loro discorsi: i pregiudizi urlati in metropolitana, l’auto-ghettizzazione gay nei parchi, l’omofobia, le frustrazioni professionali e poi l’esotico, il senso dell’altrove, del lontano, di una fuga tanto desiderata, contrapposta all’immobilità di due appartamenti londinesi, forse lo stesso luogo, nel 1958 e nel 2015. 


Un momento dello spettacolo © Dismappa
Un momento dello spettacolo 
© Dismappa

Il bilocale di fine anni Cinquanta accoglie la vita matrimoniale di Sylva/Valeria Milillo e Philip/Zingaretti subito minacciata dall’intrusione di un terzo personaggio, Oliver/Maurizio Lombardi, scrittore di racconti per bambini che sconvolgerà il quieto vivere della coppia, portando a galla ciò che era stato coperto per anni da tacita sopportazione, perché no, per affetto sincero e reciproco. André Benaim idea un interno modern style dall’arredo laccato che compone un accogliente salotto. Sulla parete di fondo una finestra e una porta lasciano percepire luci e rumori della città. Sarà sufficiente la lenta discesa in scena di un separé e un plaid sul divano a rendere contemporaneo il loft del 2015 abitato dalla coppia gay Holly/Lombardi e Philip/Zingaretti, di fresca rottura, e spesso frequentato dall’esuberante Sylvia/Milillo, attrice e amica di entrambi. 

Della trama di questo pregevole teatro contemporaneo di parola non sveliamo altro. Passiamo agli attori, tutti straordinari e camaleontici. Ogni attore interpreta due personaggi, omonimi eppure lontani tra loro. Non è facile cogliere la relazione che intercorre tra la old e la new generation. Campbell e Zingaretti vogliono dirci che un’evoluzione della coscienza sociale in materia di inclusion c’è stata, ma di che entità? Questa la riflessione che lo spettacolo ci impone.


Un momento dello spettacolo © Dismappa
Un momento dello spettacolo 
© Dismappa

Valeria Milillo è una “sfiatatissima” prima donna che si destreggia in un mondo di uomini. I suoi due personaggi molto ci dicono della condizione femminile – pur in un testo che sembra concentrarsi sull’omosessualità ma che in realtà la travalica. La Milillo è aerea, diafana, come se avesse appena smesso i panni di Ariel in una Tempesta shakespeariana; come moglie tradita e frustrata riesce a mostrarsi fragile come sul punto di rompersi. La Sylvia di oggi è invece una donna di mondo, a prima vista svampita, frivola ed aggressiva, ma che sotto l’abbigliamento rock (i costumi sono di Chiara Ferrantini) nasconde una fragilità caratteriale, vicina al personaggio degli anni Cinquanta, espressa nella ricerca disperata d’amore. Maurizio Lombardi, slanciato e sinuoso, in antitesi visiva rispetto al compagno Zingaretti, più basso e corpulento, nel ruolo di Oliver rimanda alla silhouette del dandy, quasi un raisonneur pirandelliano quando interpreta lo scrittore. Nel mondo di oggi, che non sa che farsene della compostezza, il suo alter ego Holly smette i panni dell’intellettuale e veste con meditata ostentazione quelli della checca affetta da disturbi sessuali. L’amara consapevolezza di un forte disagio interiore emerge nei rapporti con chi fuoriesce dalla sua sfera familiare: il travestito e il direttore della rivista (interpretati da Alex Cendron, quarto elemento della compagnia). Luca Zingaretti, da parte sua, pare un animale intrappolato nella gabbia della vita in quel lontano ’58. La cifra stilistica che domina il suo Philip è quella della frustrazione. Una frustrazione non naturalistica ma ostentatamente finta e costruita: è talmente costretto nella “normalità” di una vita domestica socialmente accettata, deve sentirsi talmente in colpa nei confronti della moglie, vittima in passato della sua morbosa gelosia, da agire in modo automatico e magnificamente finto (altro che Montalbano!). I gesti di questo attore sono volutamente inefficaci, dalla carezza a distanza alla moglie all’atto di violenza in proscenio. Questa inefficacia studiata diventa azione raffinatissima.


Un momento dello spettacolo © Dismappa
Un momento dello spettacolo 
© Dismappa

Che tipo di relazione intercorre, dunque, tra le due realtà raccontate da Campbell-Zingaretti? Plurime relazioni o forse nessuna, richiami e rimandi di un discorso ininterrotto che solo per pochi istanti storici si è fatto dialogo. Non ci sembra che la tematica di fondo, sebbene esibita, sia l’omosessualità; crediamo invece che qui si parli di benessere individuale, di welfare. Negli anni Cinquanta predominava il silenzio, oggi l’eccesso, l’ostentazione e la finta comprensione urlata dietro lo slogan “gay-friendly” o le pari opportunità. Passi avanti ne sono stati fatti, ma – per rimanere sulla questione della “diversità” sessuale – si pensi al divario esistente fra metropoli, città di provincia e campagna.  

Nel cuore di questo testo si nasconde la solitudine, la mancanza di una reale solidarietà fin dentro le braccia familiari, la vittoria del pregiudizio. La poesia che, con conquistata rassegnazione, Sylvia/Milillo delicatamente recita nel finale esorta alla vicinanza, alla cura dell’altro, al prendersi per mano per sentirsi meno soli in una realtà che ci delude attraverso sconfitte continue, illusioni spezzate, quotidiana insoddisfazione. Eppure la speranza potrebbe essere trovata nella solidarietà, propria dell’uomo, che, diceva Eduardo, «per natura è ottimista».




The Pride
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