Dopo
encomi di pubblico e critica e il tutto esaurito da mesi, lo spettacolo del
regista Daniele Salvo approda al
Teatro Menotti di Milano.
Le
Baccanti, a distanza di secoli,
continuano a esercitare su pubblico e lettori il loro fascino inquietante
attraverso unatmosfera cupa e allucinata e un continuo intrecciarsi di gioco e
crudeltà. La seduzione della tragedia
euripidea è quella di un enigma insolubile, un riddle (“rompicapo”), come lo definì il famoso grecista Gilbert Norwood (The Riddle of the Bacchae, the Last Stage of Euripides Religious Views,
Manchester, Manchester University Press, 1908). Illusorio cercarne una chiave
interpretativa univoca e definitiva. Da qui le interpretazioni registiche più diverse,
tra cui quelle di Luca Ronconi
(2002), e di Antonio
Calenda (2012) entrambe allestite nel teatro greco di Siracusa.
Un momento dello spettacolo © Giovanni Bocchieri La
proposta di Daniele Salvo (allievo e collaboratore di lungo corso dello stesso Ronconi)
ha il merito di restituire la violenza, la profonda emotività, il senso di
straniamento euripidei. Lo spettatore ne è insieme coinvolto e sconvolto.
La
performance inizia con il video di
una città metropolitana e di un feto nel grembo materno. Riferimenti analogici
alla polis di Tebe e alla doppia
nascita di Dioniso? Sono i primi interrogativi insoluti che si moltiplicano nel
corso dello spettacolo.
La
sceneggiatura è fedele al testo euripideo, tradotto e rielaborato con sapienza dal
regista, che ha una solida esperienza di teatro greco. Basti ricordare la
direzione degli spettacoli siracusani sofoclei: Edipo a Colono (2009), Aiace
(2010), Edipo re (2013), Coefore/Eumenidi (2014).
La
messinscena è di taglio moderno. Studio filologico della tragedia euripidea ed
elementi contemporanei non sempre si mescolano in modo armonioso. Non
convincono, ad esempio, gli abusati costumi dark
in pelle nera di Dioniso e Penteo, che ricordano le divise degli ufficiali tedeschi
del Reich (soluzione già adottata
anche da Salvo in Edipo re). Pure lutilizzo
dei video non sempre è funzionale alla messinscena. Alcuni filmati sono
mimetici di spazi scenici (la reggia di Tebe), retroscenici (il carcere in cui
è imprigionato Dioniso) ed extrascenici (il monte Citerone abitato dalle Baccanti);
altri sono utilizzati in un modo “analogico” non sempre comprensibile (le
statue ammassate di Venere).
Un momento dello spettacolo © Giovanni Bocchieri La
dirompente emotività dello spettacolo è merito di bravi attori che già in
passato si sono confrontati con il teatro greco e che ne conoscono la potenza
espressiva. Paolo Bessegato nel
ruolo di Cadmo, il vecchio re di Tebe aperto ai nuovi culti; Melania Giglio, interprete convincente
della rhesis anghelikè in cui
riferisce con tragicità visionaria lo sparagmós
di Penteo; e Manuela Kustermann (lattuale
direttrice del Teatro del Vascello di Roma), unAgave straziante. La loro recitazione
è molto “corporea”, quasi una danza costante, ipercinetica, a tratti snervante.
Così Penteo (Diego Facciotti), il
difensore dellordine della polis, il
quale urla in modo esasperato e corre con una prossemica iperbolica
costringendo lo spettatore a vagare continuamente con lo sguardo.
Il
fascino ambiguo di Dioniso è espresso pienamente dallo stesso Salvo soprattutto
attraverso la mimica facciale. Il trucco è funzionale: incarnato bianco
(richiamo analogico al trucco della tragedia delle origini?) e labbra rosso
brillante esprimono una seduzione dirompente e pericolosa.
Il
coro delle Baccanti, come nelle intenzioni di Euripide, costituisce lomphalos dello spettacolo. Sette attrici
interpretano sia le Baccanti dAsia che hanno seguito Dioniso dal lontano
Oriente fino a Tebe, sia le Baccanti tebane che in preda allestasi dionisiaca
hanno abbandonato “spole e telai” e si sono ritirate sul monte Citerone. Il movimento delle menadi è continuo e fremente. Con
ritmo tellurico evocano Dioniso Bromio,
“il fragoroso”. Si esprimono con canti, preghiere talvolta in greco antico, e
versi ancestrali. Le parole urlate, il falsetto, la monodia, il canto corale,
la danza scomposta, talvolta lasciva, coinvolgono il pubblico in unatmosfera
“dionisiaca”. Semplicistica e superflua tuttavia la scena dellorgia lesbica in
cui le seguaci di Dioniso indossano un ridotto costume in stile burlesque.
Un momento dello spettacolo © Giovanni Bocchieri Mentre
nel testo euripideo si insiste sul concetto del “vedere” – Dioniso è venuto a
Tebe per rendersi “visibile”, lepifania dionisiaca è θέατρον:
teatro/spettacolo da vedere – la scelta registica di Salvo è rivolta ad una
fruizione soprattutto sonora. Emerge lo studio attento (in collaborazione con
il foniatra Marco Podda, autore
delle musiche) sulla vocalità indagata nelle sue
tante sfumature: falsetto, sfiatati, stimbrati, grida gutturali, versi atavici.
La
scenografia è minimal: una montagna
al centro (monte Citerone e theologheion),
lo schermo sullo sfondo (dietro al quale in alcune scene si intravedono le Baccanti
allineate come nelle pitture vascolari) e lo scheletro nero di Semele sul proscenio
(un memento mori barocco) abbracciato
nel finale da Dioniso. Questultimo, dopo aver punito in modo spietato Agave
che in preda al furor dionisiaco ha
ucciso il figlio Penteo, assume un tratto di umanità, assente nel testo
euripideo, abbracciando lo scheletro della madre. Un finale consolante.
Un
piccolo “kolossal” penalizzato dallangusto palcoscenico del Teatro Menotti.
Una performance potente, esplosiva
che meglio avrebbe interagito con il maestoso spazio dellantico Teatro di
Siracusa, già sede di altri apprezzati spettacoli di Salvo.
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