Da quando Schumann la definì «musica per teatro di burattini», i tedeschi
hanno qualche senso di colpa nei confronti della Favorita. Tanto più perché questo turning point della maturità di Donizetti – lo si proponga nella vulgata italiana (che per decenni
ne ha rappresentato il veicolo di sdoganamento) o nelloriginale francese (come
oggi è duso e anche in questa produzione a Monaco si è fatto) – è unopera tra
le più “europee” del suo autore, che va ben oltre i desiderata del nostro belcanto.
La sua profondità drammaturgica
(un intreccio politico-privato da drammone dappendice che si stempera in un
doloroso e trasognato romanzo di formazione, con tre personaggi di
shakespeariano frastagliamento psicologico) e la relativa sapienza
contrappuntistica (a partire dalla sinfonia, dove il Donizetti allievo del
bavarese Mayr emerge in pieno)
dovrebbero essere oltremodo congeniali al gusto germanico: in questa prospettiva,
la vecchia incisione discografica in lingua tedesca – nel 1960 alla Radio di
Stoccarda, con Ira Malaniuk e Heinz Hoppe – offre più
duno spunto di riflessione. Che poi, presso il pubblico italiano, si sia
voluto scorgere nella Favorita una
palestra per alpinismi tenorili (con i due Do scritti da Donizetti e un terzo
aggiunto, al calar del sipario, dagli interpreti), preziosismi baritonali e
grintosità preverdiane dei mezzosoprani rientra in quelle tradizioni che,
certo, hanno rinsaldato la popolarità dellopera. Ma compromesso, al contempo,
una veridica percezione donizettiana.
Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl
Lo spettacolo alla Bayerische
Staatsoper è un ottimo tassello nel mosaico dun Donizetti riappropriato delle
sue complessità e spogliato, invece, da quelle corrività e quel surplus esornativo che, specie sul
fronte vocale, la prassi esecutiva ha sedimentato. Il ricorso alloriginale
francese – questa Favorita monacense
è La favorite – qui non è pruderie
filologica: se la versione italiana deraglia il plot sul versante familiare, smussando lo scontro tra le manovre
della Chiesa e quelle del Palazzo, la regia di Amélie Niermeyer trova il suo nocciolo drammatico proprio nel
tentativo, destinato al fallimento, dei due protagonisti di non venir
stritolati dai gangli della vita di corte (nel caso di lei) e della vita di
convento (nel caso di lui). Daltra parte, anche il cast a disposizione –
nellinsieme ottimo, ma allinterno di una taglia canora più lirica che
drammatica – sarebbe forse risultato meno persuasivo alle prese con il nostro
idioma: che rispetto al francese pretende maggior apertura vocalica e, quindi,
più sostanziosa espansione fonica.
Dunque, piuttosto che sulle
dinamiche teatrali, il lavoro della Niermeyer e del Dramaturg Rainer Karlitschek punta su un solido Konzept, a partire da una scenografia
appunto fortemente concettuale: una stilizzatissima scena unica (la firma Alexander Müller-Elman, mentre i
costumi, moderni, sono di Kirsten
Dephoff) che è di volta in volta monastero e stanza del potere, in cui
Madonne e crocifissi traspaiono al di là delle vetrate – ora minacciosi, ora
quasi eroticamente catturanti – e dove Léonor e Fernand si perdono come in un
labirinto destinato ad annientarli (sul finire della sinfonia limpianto
scenico si restringe sempre più, fino a schiacciare i due protagonisti). Non si
era mai vista una Favorita in cui
fosse così palpabile il valore metaforico dello scherzoso bendaggio di Fernand,
viatico dun viaggio di andata e ritorno – dal convento al mondo al convento –
tanto iniziatico quanto devastante; e straordinaria, daltronde, è la capacità
della regista di far “recitare” gli oggetti, insufflandovi un inusitato
spessore semantico (luso particolarissimo delle sedie, i fiori nuziali
scagliati contro la novella sposa fedifraga in unideale lapidazione
delladultera…).
Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl
Ovviamente, però, oltre agli
oggetti recitano benissimo pure i cantanti. E se modernizzare può voler dire
anche prosaicizzare (Léonor, quale «maîtresse
du roi», qui ha le stimmate della escort
di lusso; Fernand diventa più isterico che idealista; le ambigue e regali
inquietudini di Alphonse XI si diluiscono nel premier mandrillo di turno, con la sua corte di yes-men), sta di fatto che Elina Garanča, Matthew Polenzani e Mariusz
Kwiecien mostrano una tale adesione ai personaggi riprofilati dalla
Niermeyer, e una così fluida naturalezza nel vestire i panni di questo
Donizetti figlio anche del nostro tempo, da rendere del tutto calzanti le loro
raffigurazioni.
Semmai, in un simile contesto,
resta poco spazio per quel momento decorativo – un pedaggio imposto dalla
committenza parigina – che sono le danze del secondo atto, anzi è palese che si
tratta dun siparietto di cui la regista non sa cosa farsene. Ma se, per lo
stesso motivo, Ronconi e Peter Stein cassarono i ben più
attraenti ballabili dellAida, la
Niermeyer aggira lostacolo con maggiore ironia: le danze restano – come musica
– ma non si vedono, trasformate in un filmino di propaganda (nel libretto si
tratterebbe dei festeggiamenti per la vittoria dellesercito catto-spagnolo sui
mori infedeli) che il re e la sua favorita, seduti soli al proscenio, guardano
scorrere su uno schermo invisibile agli occhi del pubblico. Con il sovrano che
mima scatenato mitragliate e pistolettate, mentre lamante in carica, comè uso
in ogni saletta cinematografica appartata, armeggia invece con la patta dei
pantaloni.
Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl
La Garanča è appunto una
protagonista sensualissima, e non solo per la sua bellezza diafana ma non
algida, di una luminosità intorbidita dalla cognizione del dolore. Sensuosa è
anche la vocalità: carnale senza essere opulenta, ombreggiata senza essere
scura, intensa ma mai forzata, scorrevole negli occasionali passaggi
virtuosistici, omogenea nei transiti di una tessitura che Donizetti qualifica
mezzosopranile, ma di fatto spazia dal soprano al contralto. Lomogeneità del
suono è invece la qualità meno presente in Polenzani, che con la Garanča ha in
comune compenetrazione espressiva e correttezza di linea, ma non luguaglianza
della fonazione (piuttosto laboriosa, forse perché preoccupato di raggiungere
certe note: i Do sono pallidi e appena sfiorati). Tuttavia, sulla distanza,
lemissione faticosa appare efficacemente speculare alla fatica di vivere del
personaggio. E questo Fernand dove il romanticismo vira in nevrosi sarà forse
deficitario sul piano della “tenorilità pura”, ma resta un bellesempio di
tenorilità artistica.
Il ruolo di Alphonse XI presenta
la drammaturgia vocale più variegata di tutta la letteratura baritonale
preverdiana: Kwiecien laffronta con aplomb
da puro baritono lirico, mira a un fraseggio asciugato da magniloquenze e
ricercatezze, risolve con un trillo spavaldamente sintetico quelle che per
tradizione erano cadenze elaboratissime. Attore assai duttile, rende sul piano
scenico la volgarità attribuita dalla Niermeyer al personaggio, ma al contempo
lammortizza – non contraddice – con un senso della frase che restituisce le
nobiltà negate e le verità nascoste di questo potente infoiato e machiavellico,
ma forse anche innamorato.
Debitamente più monolitico in una
parte che riassume le implacabili certezze della religione, Mika Kares sfoggia voce di basso profondo, anche se – data la giovane
età – non così tenebrosa e sepolcrale come il ruolo di Balthazar richiederebbe:
e tuttavia questo padre spirituale aggressivo e giovanile, anziché onusto
danni e desperienza, apre a sua volta una finestra nuova. Elsa Benoit è agile e lieve
nellarietta di Inès, Joshua Owen Mills
– come Don Gaspard – pennella un cortigiano odiosetto e mercuriale, mentre Karel Mark Chichon, sul podio, fa buona
routine, con tempi equilibrati
(sebbene qualche indugio in più non avrebbe guastato) e sonorità rispettose
delle voci. Non sarà un direttore molto personale: ma lormai lunga militanza
donizettiana dellorchestra della Bayerische Staatsoper garantisce una giusta
idiomaticità.
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