Se
il concetto di “tinta” è, insieme a quello di “parola scenica”, lobiettivo
espressivo su cui Verdi insisteva
maggiormente (almeno a giudicare dal suo epistolario), sarà allora difficile imbattersi
in una messinscena più verdiana di questa Giovanna
dArco realizzata a Parma da Peter
Greenaway.
Chi
nutriva dubbi sulla compatibilità tra il teatro dopera e un cineasta
antimelodrammatico nel senso colloquiale e approssimativo del termine come
lautore del Ventre dellarchitetto dovrà ricredersi: alle
prese con questo Verdi che unimmarcescibile vulgata ha liquidato come minore (e la debolezza della Giovanna sarebbe un altro luogo comune
da scardinare), il Greenaway “narratore
per immagini” gioca la carta di un rosso sangue e un giallo oro speculari a due
sollecitazioni da un lato leterna violenza della guerra, dallaltro il fasto
del potere contrapposto al mondo degli umili forse non centrali nelloriginale
schilleriano, ma che sono motore del libretto di Temistocle Solera. Al
contempo, Greenaway ritrova nel plot di
questopera molti spunti cari alla sua cinematografia: dallinestricabile nodo avviluppato
religione-superstizione (che era anche il soggetto del Bambino di Mβcon) alla ferocia della società contrapposta allumano
bisogno di amore (tema ineludibile perfino in una pellicola cannibalesca come Il cuoco, il ladro, sua moglie e lamante).
Una scena dello spettacolo © Roberto Ricci Infine,
forte della sua formazione pittorica, il regista gestisce da vero maestro degli
spazi la cornice seicentesca del Teatro Farnese (per una produzione così peculiar il Verdi Festival non si è
servito del Teatro Regio): utilizzando come ideale palcoscenico la cavea a
gradini, teoricamente destinata al pubblico, e ridisegnando al computer gli archi
a tutto sesto e le architravi che la dominano. Gli elementi virtuali si
sovrappongono dunque a quelli originari, trasformando il Farnese in quella “scatola
magica” che era poi il traguardo del suo architetto Giovan Battista Aleotti: ma qui entra in gioco anche una grande
artista multimediale come Saskia Boddeke,
non a caso chiamata a firmare a quattro mani questa regia. Appagantissimo
sul versante estetico, lo spettacolo non è da meno sul piano concettuale. Anziché
scavare nei personaggi dallinterno, lavorando sullisteria verginale della
protagonista e sulla figura del padre intesa non come affettività biologica ma
simbolo sociale (era questa la chiave della recente Giovanna dArco alla Scala), Greenaway preferisce restituire gli
elementi soprannaturali del dramma, riportandoli però a unossimorica cornice
di “deformata oggettività”. Come dire che solo larte di Verdi, in primis,
ma pure quella di chi lo mette in scena può raccontare lineffabile e che
voci angeliche e canti demoniaci sono, per la castissima protagonista come per
lo spettatore, due facce della stessa medaglia. Pure la santità è una
tentazione: il transito dai richiami celesti a quelli infernali qui si azzera
con una dissolvenza dimmagine al computer, passando da un alveare di Madonne
(tanti volti di Maria per ogni serliana della cavea) a una parata di ghigni
deformati.
Una scena dello spettacolo © Roberto Ricci Più
che un ritratto femminile romantico, ne sortisce unanima divisa in due: Giovanna
viene sdoppiata da una coppia di mime (le plastiche, incantate Linda Vignudelli e Lara Guidetti, questultima responsabile dei movimenti coreografici)
che riassumono la dicotomia tra fanciulla innocente e guerriera esaltata; e che
la protagonista abbia gli occhi a mandorla del soprano Vittoria Yeo consente a Greenaway, tra tanti contenuti
multimediali, anche la proiezione di
un volto femminile in stile manga, non si sa se più benedicente o dissacrante.
Laddove le ultime immagini che evocano ben altre donne o madonne,
rappresentando una serie di madri dolorose di bimbi migranti solo allapparenza
sono la concessione a una vena politically
correct molto british-progressista:
di fatto, appaiono perfettamente consonanti a quellidea dimpegno etico e
civile che è prioritaria nel teatro di Verdi.
La
Yeo è appunto una protagonista concentrata e compenetrata, oltre che dalla
dizione italiana eccellente come di rado si ascolta in voci orientali. Soprano
lirico puro, mostra occasionali spigolosità in quei momenti pochi in cui
Giovanna deraglia da tale complessione vocale, per sbrigliarsi in un canto più impetuoso
e mordente: ma sono sbavature minime in questa pulzella dOrléans dolorosa e trasognata,
che reca limpronta di una cantante molto musicale e una fraseggiatrice sempre
allerta.
Luciano Ganci, a
sua volta, non potrà contare su unemissione omogenea nel suo intero arco (a
certe screziature nasali si potrebbe ovviare), avvicinandosi però alla
quadratura del cerchio: se lo squillo è limpidamente tenorile, la sagacia
interpretativa lo porta a una raffigurazione antieroica che della tenorilità
classica, dunque, ha ben poco del tutto calzante per questo re di Francia
insicuro e perdente, che Verdi plasma con un occhio già rivolto allo Schiller di Don Carlos.
Una scena dello spettacolo © Roberto Ricci Lunico
a non mostrare limite vocale alcuno è però il terzo lato del triangolo: il
baritono, qui impegnato in funzioni antagonistiche non in quanto spasimante
respinto, ma padre geloso della purezza (o santità?) della figlia. Vittorio Vitelli è voce di tinta chiara ma timbratissima, tanto energica
nella declamazione quanto sfumata nel cantabile, capace di restituire senza surplus denfasi ma solo con giusta
eloquenza quella prescrizione espressiva (“grandioso”) che il giovane Verdi
apponeva spesso in partitura quandè in scena il baritono e che, puntualmente,
troviamo nella Giovanna dArco.
Mentre
i comprimari, a loro volta, chiudono la locandina allinsegna della più alta
qualità: Luciano Leoni e Gabriele Mangione fanno
di Talbot e Delil non solo due personaggini che si elevano, per poche battute,
al di sopra della massa dei soldati inglesi (luno) e francesi (laltro), ma le
“voci” di due eserciti egualmente attoniti e piegati dagli eventi.
In
unacustica (data anche la rimodulazione degli spazi operata da Greenaway)
forse più favorevole allorchestra che ai cantanti, Ramon Tebar ha innanzi tutto il pregio di non coprire le voci. A
parte questo, la sua direzione si caratterizza per un andamento un po
altalenante (a certi rallentamenti, mai comunque troppo estenuati, si alternano
subitanee accelerazioni), ma sulla distanza abbastanza efficace. Come
concertatore, invece, sembra mirare a una generica grinta risorgimentale e
primoverdiana: che, comunque, solo in certe code orchestrali si traduce in
ridondanza di volumi.
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