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Il re, la vergine, suo padre e il regista

di Paolo Patrizi
  Giovanna d'Arco
Data di pubblicazione su web 18/10/2016  

Se il concetto di “tinta” è, insieme a quello di “parola scenica”, l’obiettivo espressivo su cui Verdi insisteva maggiormente (almeno a giudicare dal suo epistolario), sarà allora difficile imbattersi in una messinscena più verdiana di questa Giovanna d’Arco realizzata a Parma da Peter Greenaway.

Chi nutriva dubbi sulla compatibilità tra il teatro d’opera e un cineasta antimelodrammatico – nel senso colloquiale e approssimativo del termine – come l’autore del Ventre dell’architetto dovrà ricredersi: alle prese con questo Verdi che un’immarcescibile vulgata ha liquidato come minore (e la debolezza della Giovanna sarebbe un altro luogo comune da scardinare), il Greenaway  “narratore per immagini” gioca la carta di un rosso sangue e un giallo oro speculari a due sollecitazioni – da un lato l’eterna violenza della guerra, dall’altro il fasto del potere contrapposto al mondo degli umili – forse non centrali nell’originale schilleriano, ma che sono motore del libretto di Temistocle Solera.

Al contempo, Greenaway ritrova nel plot di quest’opera molti spunti cari alla sua cinematografia: dall’inestricabile nodo avviluppato religione-superstizione (che era anche il soggetto del Bambino di Mβcon) alla ferocia della società contrapposta all’umano bisogno di amore (tema ineludibile perfino in una pellicola cannibalesca come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante). 

Una scena dello spettacolo © Roberto Ricci
Una scena dello spettacolo 
© Roberto Ricci

Infine, forte della sua formazione pittorica, il regista gestisce da vero maestro degli spazi la cornice seicentesca del Teatro Farnese (per una produzione così peculiar il Verdi Festival non si è servito del Teatro Regio): utilizzando come ideale palcoscenico la cavea a gradini, teoricamente destinata al pubblico, e ridisegnando al computer gli archi a tutto sesto e le architravi che la dominano. Gli elementi virtuali si sovrappongono dunque a quelli originari, trasformando il Farnese in quella “scatola magica” che era poi il traguardo del suo architetto Giovan Battista Aleotti: ma qui entra in gioco anche una grande artista multimediale come Saskia Boddeke, non a caso chiamata a firmare a quattro mani questa regia. 

Appagantissimo sul versante estetico, lo spettacolo non è da meno sul piano concettuale. Anziché scavare nei personaggi dall’interno, lavorando sull’isteria verginale della protagonista e sulla figura del padre intesa non come affettività biologica ma simbolo sociale (era questa la chiave della recente Giovanna d’Arco alla Scala), Greenaway preferisce restituire gli elementi soprannaturali del dramma, riportandoli però a un’ossimorica cornice di “deformata oggettività”. Come dire che solo l’arte – di Verdi, in primis, ma pure quella di chi lo mette in scena – può raccontare l’ineffabile e che voci angeliche e canti demoniaci sono, per la castissima protagonista come per lo spettatore, due facce della stessa medaglia. Pure la santità è una tentazione: il transito dai richiami celesti a quelli infernali qui si azzera con una dissolvenza d’immagine al computer, passando da un alveare di Madonne (tanti volti di Maria per ogni serliana della cavea) a una parata di ghigni deformati. 

Una scena dello spettacolo © Roberto Ricci
Una scena dello spettacolo 
© Roberto Ricci

Più che un ritratto femminile romantico, ne sortisce un’anima divisa in due: Giovanna viene sdoppiata da una coppia di mime (le plastiche, incantate Linda Vignudelli e Lara Guidetti, quest’ultima responsabile dei movimenti coreografici) che riassumono la dicotomia tra fanciulla innocente e guerriera esaltata; e che la protagonista abbia gli occhi a mandorla del soprano Vittoria Yeo consente a Greenaway, tra tanti contenuti multimediali, anche la proiezione di un volto femminile in stile manga, non si sa se più benedicente o dissacrante. Laddove le ultime immagini – che evocano ben altre donne o madonne, rappresentando una serie di madri dolorose di bimbi migranti – solo all’apparenza sono la concessione a una vena politically correct molto british-progressista: di fatto, appaiono perfettamente consonanti a quell’idea d’impegno etico e civile che è prioritaria nel teatro di Verdi. 

La Yeo è appunto una protagonista concentrata e compenetrata, oltre che dalla dizione italiana eccellente come di rado si ascolta in voci orientali. Soprano lirico puro, mostra occasionali spigolosità in quei momenti – pochi – in cui Giovanna deraglia da tale complessione vocale, per sbrigliarsi in un canto più impetuoso e mordente: ma sono sbavature minime in questa pulzella d’Orléans dolorosa e trasognata, che reca l’impronta di una cantante molto musicale e una fraseggiatrice sempre all’erta. 

Luciano Ganci, a sua volta, non potrà contare su un’emissione omogenea nel suo intero arco (a certe screziature nasali si potrebbe ovviare), avvicinandosi però alla quadratura del cerchio: se lo squillo è limpidamente tenorile, la sagacia interpretativa lo porta a una raffigurazione antieroica – che della tenorilità classica, dunque, ha ben poco – del tutto calzante per questo re di Francia insicuro e perdente, che Verdi plasma con un occhio già rivolto allo Schiller di Don Carlos

Una scena dello spettacolo © Roberto Ricci
Una scena dello spettacolo 
© Roberto Ricci

L’unico a non mostrare limite vocale alcuno è però il terzo lato del triangolo: il baritono, qui impegnato in funzioni antagonistiche non in quanto spasimante respinto, ma padre geloso della purezza (o santità?) della figlia. Vittorio Vitelli è voce di tinta chiara ma timbratissima, tanto energica nella declamazione quanto sfumata nel cantabile, capace di restituire senza surplus d’enfasi ma solo con giusta eloquenza quella prescrizione espressiva (“grandioso”) che il giovane Verdi apponeva spesso in partitura quand’è in scena il baritono e che, puntualmente, troviamo nella Giovanna d’Arco

Mentre i comprimari, a loro volta, chiudono la locandina all’insegna della più alta qualità: Luciano Leoni e Gabriele Mangione fanno di Talbot e Delil non solo due personaggini che si elevano, per poche battute, al di sopra della massa dei soldati inglesi (l’uno) e francesi (l’altro), ma le “voci” di due eserciti egualmente attoniti e piegati dagli eventi. 

In un’acustica (data anche la rimodulazione degli spazi operata da Greenaway) forse più favorevole all’orchestra che ai cantanti, Ramon Tebar ha innanzi tutto il pregio di non coprire le voci. A parte questo, la sua direzione si caratterizza per un andamento un po’ altalenante (a certi rallentamenti, mai comunque troppo estenuati, si alternano subitanee accelerazioni), ma – sulla distanza – abbastanza efficace. Come concertatore, invece, sembra mirare a una generica grinta risorgimentale e primoverdiana: che, comunque, solo in certe code orchestrali si traduce in ridondanza di volumi. 



Giovanna d'Arco



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