“Cosè
il cinema?”. Una domanda difficilissima da affrontare, che dopo centoventi anni
di cambiamenti, “rivoluzioni” è gradualmente declinata in “cosè diventato il
cinema?” oppure “cosa sarà il cinema?” o addirittura “cosa sarà del cinema?”. Da
qui testi e riviste di teoria e post teoria cinematografica per cercare di
intercettare quali possano essere le nuove prospettive della Settima Arte. Poi
improvvisamente arriva un film che per quasi quattro ore, in un emozionante
bianco e nero, rapisce lo sguardo e mostra, con il rigore e la forza delle immagini,
quanto ancora di vivo, di bello e di sensato ci sia nel fare e nel vedere il
cinema. Questo film è Ang Babaeng Humayo
(The Woman Who Left) di Lav Diaz, uno dei più grandi autori di
questo inizio di millennio, vincitore del Leone d'oro della
Mostra del Cinema di Venezia 2016, dopo aver vinto per due anni consecutivi la rassegna Orizzonti con Death
in the Land of Encantos (2007) e Melancholia
(2008).
Siamo nellestate del 1997. Mentre Hong Kong passa
sotto il governo della Cina, in un carcere femminile filippino una detenuta, Horacia
(Charo Santos-Concio), si preoccupa
di rendere più sopportabile la vita alle altre carcerate, tenendo piccole
lezioni di lingua, letture collettive, semplici lezioni di scienze per i figli
delle compagne di cella. Un giorno una di loro, Petra, le va incontro, le
chiede scusa per la sua malvagità e si allontana. Poco dopo Horacia viene
chiamata dalla direttrice del carcere, che le dice che Petra ha rilasciato una
precisa confessione: è stata questultima a commettere lomicidio a causa del
quale Horacia è ingiustamente in carcere da trentanni, per cui adesso è
libera. Da questa libertà ritrovata inizia la storia di una donna che vorrebbe
riprendere in mano le fila di ciò che è sopravvissuto della sua vita dopo
trentanni (la figlia e forse anche il figlio), ma che viene sopraffatta dal
desiderio di vendetta verso chi è stato il mandante di tutto questo: Rodrigo
Trinidad, un vecchio fidanzato respinto, che, una volta diventato un boss
mafioso, ha voluto farle pagare laffronto.
Diceva Rossellini
che esistono infiniti punti in cui poter posizionare la macchina da presa ma
uno solo è quello giusto e il compito del regista è proprio quello di
individuare quel punto. Diaz ha perfettamente assimilato questa lezione e il
suo cinema è composto di quadri perfetti allinterno dei quali si sviluppa
lazione, o meglio la vita. Nelle sue inquadrature fisse ed esatte i personaggi
si muovono, agiscono, parlano, raccontano costruendo ogni volta una nuova,
imprevista narrazione; attraversano generi, suggestioni e richiamano alla mente
altro cinema, altre storie. Lispirazione tolstoiana del racconto Dio vede
la verità ma non la rivela subito è solo sfiorata (si potrebbe dire che il
film è una sua improbabile prosecuzione): Diaz si allontana subito dalla
durezza della metafora dello scrittore russo. Quindi costruisce lossimoro di un
revenge movie intorno a un personaggio cristologico che per compiere la
sua vendetta si trasferisce nellisola di Mindoro, dando vita a tre personaggi
diversi (come confermano i titoli di coda che riportano i nomi di Horacia/Renata/Lucrecia),
attraverso i quali è capace di generosità immense, ma anche di improvvisi
scatti dira (proprio come Gesù nel tempio). Horacia regala terra, soldi, cure, affetto e
ospitalità a tutti i diseredati che trova per la sua strada: alla custode della
sua vecchia casa, al gobbo venditore di balut (uova di anatra fecondate
e bollite poco prima della schiusa), alla barbona che vive intorno alla chiesa;
mentre si fa addirittura samaritana verso Hollanda (John Lloyd Cruz), un travestito epilettico che si prostituisce nel quartiere, al quale
salva la vita quando viene violentato e picchiato a sangue da un branco di
ragazzi. Nonostante tutto questo non perde mai di vista il suo scopo. Lidea
della vendetta rimane sempre ben presente in quel significativo fuoricampo dal
quale, a volte, irrompe insieme alla violenza della cronaca (lescalation dei
rapimenti) e allimprevedibile casualità della storia (le morti quasi
contemporanee di Lady Diana e Madre Teresa di Calcutta). Il tutto in
un bianco e nero spesso sovraesposto, bruciato, che esalta i contorni e i volti
dei personaggi, le cui esistenze subiscono bruschi acceleramenti, allinterno
di un cinema proiettato verso il futuro, ma che pone le sue radici nel rigore
delle vedute Lumière, bruscamente
interrotte solo una volta da una dilaniante soggettiva di Horacia in cerca di
Hollanda a un concerto rock sulla spiaggia. Una scena del film A questo forte senso della messa in scena, Diaz
unisce una capacità rara di dirigere gli attori anche non professionisti come
la protagonista, Charo Santos-Concho, ex presidente e attuale responsabile dei
contenuti della ABS-CBN Corporation (il più grande network filippino). Il
regista si prende perfino il lusso di stravolgere limmagine di uno degli
attori più importanti dellarcipelago, come John Lloyd Cruz nel ruolo di
Hollanda. La coppia dà vita ai momenti più emozionanti del film, come quando,
durante una notte insonne, cantano a cappella Sunrise, Sunset da Il violinista
sul tetto e Somewhere da West Side Story, in un
indimenticabile e sensuale momento di musical fassbinderiano. Con The Woman Who Left Diaz continua il suo
viaggio allinterno delle contraddizioni e delle diseguaglianze della società
filippina, di una chiesa troppo indulgente con la malavita, di una giustizia
che non tocca i ricchi e i potenti e che costringe i poveri e i deboli a creare
un loro cammino di redenzione prima di tutto terrena. Il suo è un cinema carico
di senso, finalmente libero e fuori da tutti gli schemi preordinati; è un gesto
di libertà completo, che vuole e deve prendersi il suo tempo e questo tempo non
può essere certo quello dellindustria o dei distributori. Del resto, i duecentoventisei
minuti di The Woman Who Left diventano quasi “brevi” a fronte di una
cinematografia che comprende pellicole di cinque, sei, sette, nove ore. Un lungo viaggio allinterno di uno sguardo
insistito e sempre appassionato sullimprevedibile casualità della vita.
|
|