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Il cinema allo stato puro

di Luigi Nepi
  Ang Babaeng Humayo
Data di pubblicazione su web 12/09/2016  

“Cos’è il cinema?”. Una domanda difficilissima da affrontare, che dopo centoventi anni di cambiamenti, “rivoluzioni” è gradualmente declinata in “cos’è diventato il cinema?” oppure “cosa sarà il cinema?” o addirittura “cosa sarà del cinema?”. Da qui testi e riviste di teoria e post teoria cinematografica per cercare di intercettare quali possano essere le nuove prospettive della Settima Arte. Poi improvvisamente arriva un film che per quasi quattro ore, in un emozionante bianco e nero, rapisce lo sguardo e mostra, con il rigore e la forza delle immagini, quanto ancora di vivo, di bello e di sensato ci sia nel fare e nel vedere il cinema. Questo film è Ang Babaeng Humayo (The Woman Who Left) di Lav Diaz, uno dei più grandi autori di questo inizio di millennio, vincitore del Leone d'oro della Mostra del Cinema di Venezia 2016, dopo aver vinto per due anni consecutivi la rassegna Orizzonti con Death in the Land of Encantos (2007) e Melancholia (2008). 

Siamo nell’estate del 1997. Mentre Hong Kong passa sotto il governo della Cina, in un carcere femminile filippino una detenuta, Horacia (Charo Santos-Concio), si preoccupa di rendere più sopportabile la vita alle altre carcerate, tenendo piccole lezioni di lingua, letture collettive, semplici lezioni di scienze per i figli delle compagne di cella. Un giorno una di loro, Petra, le va incontro, le chiede scusa per la sua malvagità e si allontana. Poco dopo Horacia viene chiamata dalla direttrice del carcere, che le dice che Petra ha rilasciato una precisa confessione: è stata quest’ultima a commettere l’omicidio a causa del quale Horacia è ingiustamente in carcere da trent’anni, per cui adesso è libera. Da questa libertà ritrovata inizia la storia di una donna che vorrebbe riprendere in mano le fila di ciò che è sopravvissuto della sua vita dopo trent’anni (la figlia e forse anche il figlio), ma che viene sopraffatta dal desiderio di vendetta verso chi è stato il mandante di tutto questo: Rodrigo Trinidad, un vecchio fidanzato respinto, che, una volta diventato un boss mafioso, ha voluto farle pagare l’affronto.


Una scena del film

Diceva Rossellini che esistono infiniti punti in cui poter posizionare la macchina da presa ma uno solo è quello giusto e il compito del regista è proprio quello di individuare quel punto. Diaz ha perfettamente assimilato questa lezione e il suo cinema è composto di quadri perfetti all’interno dei quali si sviluppa l’azione, o meglio la vita. Nelle sue inquadrature fisse ed esatte i personaggi si muovono, agiscono, parlano, raccontano costruendo ogni volta una nuova, imprevista narrazione; attraversano generi, suggestioni e richiamano alla mente altro cinema, altre storie. L’ispirazione tolstoiana del racconto Dio vede la verità ma non la rivela subito è solo sfiorata (si potrebbe dire che il film è una sua improbabile prosecuzione): Diaz si allontana subito dalla durezza della metafora dello scrittore russo. Quindi costruisce l’ossimoro di un revenge movie intorno a un personaggio cristologico che per compiere la sua vendetta si trasferisce nell’isola di Mindoro, dando vita a tre personaggi diversi (come confermano i titoli di coda che riportano i nomi di Horacia/Renata/Lucrecia), attraverso i quali è capace di generosità immense, ma anche di improvvisi scatti d’ira (proprio come Gesù nel tempio). Horacia regala terra, soldi, cure, affetto e ospitalità a tutti i diseredati che trova per la sua strada: alla custode della sua vecchia casa, al gobbo venditore di balut (uova di anatra fecondate e bollite poco prima della schiusa), alla barbona che vive intorno alla chiesa; mentre si fa addirittura samaritana verso Hollanda (John Lloyd Cruz), un travestito epilettico che si prostituisce nel quartiere, al quale salva la vita quando viene violentato e picchiato a sangue da un branco di ragazzi. Nonostante tutto questo non perde mai di vista il suo scopo. L’idea della vendetta rimane sempre ben presente in quel significativo fuoricampo dal quale, a volte, irrompe insieme alla violenza della cronaca (l’escalation dei rapimenti) e all’imprevedibile casualità della storia (le morti quasi contemporanee di Lady Diana e Madre Teresa di Calcutta). Il tutto in un bianco e nero spesso sovraesposto, bruciato, che esalta i contorni e i volti dei personaggi, le cui esistenze subiscono bruschi acceleramenti, all’interno di un cinema proiettato verso il futuro, ma che pone le sue radici nel rigore delle vedute Lumière, bruscamente interrotte solo una volta da una dilaniante soggettiva di Horacia in cerca di Hollanda a un concerto rock sulla spiaggia. 


Una scena del film

A questo forte senso della messa in scena, Diaz unisce una capacità rara di dirigere gli attori anche non professionisti come la protagonista, Charo Santos-Concho, ex presidente e attuale responsabile dei contenuti della ABS-CBN Corporation (il più grande network filippino). Il regista si prende perfino il lusso di stravolgere l’immagine di uno degli attori più importanti dell’arcipelago, come John Lloyd Cruz nel ruolo di Hollanda. La coppia dà vita ai momenti più emozionanti del film, come quando, durante una notte insonne, cantano a cappella Sunrise, Sunset da Il violinista sul tetto e Somewhere da West Side Story, in un indimenticabile e sensuale momento di musical fassbinderiano.

Con The Woman Who Left Diaz continua il suo viaggio all’interno delle contraddizioni e delle diseguaglianze della società filippina, di una chiesa troppo indulgente con la malavita, di una giustizia che non tocca i ricchi e i potenti e che costringe i poveri e i deboli a creare un loro cammino di redenzione prima di tutto terrena. Il suo è un cinema carico di senso, finalmente libero e fuori da tutti gli schemi preordinati; è un gesto di libertà completo, che vuole e deve prendersi il suo tempo e questo tempo non può essere certo quello dell’industria o dei distributori. Del resto, i duecentoventisei minuti di The Woman Who Left diventano quasi “brevi” a fronte di una cinematografia che comprende pellicole di cinque, sei, sette, nove ore.

Un lungo viaggio all’interno di uno sguardo insistito e sempre appassionato sull’imprevedibile casualità della vita.



Ang Babaeng Humayo
cast cast & credits
 
In concorso

La locandina del film
La locandina



 
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