In
un piccolo paesino islandese di pescatori Thor (Baldur Einarsson) e il suo migliore amico Kristjan (Blaer Hinriksson) affrontano come
possono lapatia delle vacanze estive: vanno a pesca, si accaniscono sui
rottami di macchine abbandonate, corteggiano ragazze locali. Il desiderio di
libertà dei due si scontra però con situazioni familiari complesse: dalla parte
di Thor, i genitori sono divorziati e la madre cerca invano di rifarsi una
vita, contro il volere del ragazzo e delle due sorelle; più problematica la
situazione di Kristjan il cui padre, un alcolista violento, manifesta insofferenza
verso i suoi atteggiamenti effemminati. Poco a poco Kristjan perde la testa per
Thor. Quando, durante unuscita in tenda, questultimo bacerà la sua prima
ragazza, il già fragile equilibrio tra i due verrà definitivamente
infranto.
Una scena del film
Quello
di Gudmundur Arnar Gudmundsson,
classe 1982, qui suo al primo lungometraggio, è il primo film islandese ad approdare
al Lido, nelle Giornate degli Autori, rassegna autonoma modellata sulla
Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes. È difficile distinguere il
valore dellopera dal fascino naturale di uno dei luoghi più “esotici” del
continente europeo. Ci si appassiona alle memorie adolescenziali del regista in
parte perché incuriositi dalla vita e dalle usanze islandesi. Da qui il
sospetto iniziale che dietro la presenza del film di Gudmundsson alla Mostra vi
sia la convergenza tra un interesse etnologico, quello del pubblico, e uno
promozionale, quello della produzione: considerando la commistione,
particolarmente rodata nei paesi nordici, tra industria cinematografica, film commissions e finanziamenti
pubblici, lipotesi è tuttaltro che peregrina.
Ma
è un sospetto fallace, che si sgretola già dalle prime battute del film. Certo,
gli elementi folkloristrici non mancano, e nelladolescenza dei due ragazzini si
pescano trote selvagge, si scalano scogliere, ci si sposta a cavallo, si
ascolta Björk e il buio non cala mai;
tuttavia a contare, più che le differenze culturali, sembrano essere le
analogie. Quello descritto da Gudmundsson è uno spaccato adolescenziale
qualunque, in tutta la sua bellezza e la sua miseria. Alcune soluzioni
espressive sono ispirate dal cinema di Lerry
Clark, seppur epurate dai suoi eccessi “scabrosi”. Si guarda anche al primo
Ken Loach: si pensi alla somiglianza,
somatica e caratteriale, tra Thor e il Billy di Kes (1969). A differenza dei due modelli evocati, tuttavia, Gudmundsson
non cerca né lo scandalo, né la denuncia sociale, ma solo il ricordo, al
contempo nostalgico e doloroso, del passaggio dallinfanzia alletà adulta. È
dalla contemplazione del ricordo, più che dalla sua sofferenza, che scaturisce unopera
come Hjartasteinn.
Una scena del film
Coerentemente
la scansione degli eventi è quella tipica del memoriale, appesa agli stati
danimo di un ragazzino nella fase della pubertà. Ne risulta un pastiche visivo puramente emotivo, in
cui si alternano scene topiche delladolescenza (il primo bacio, la prima
sbronza, la sorella di Thor che aspira ad essere una poetessa maledetta) a microdrammi
dipinti con poche, leggerissime pennellate: la madre single che si scontra con lo stigma familiare e sociale, le
vessazioni del bullo di quartiere e, soprattutto, il dramma di Kristjan, il cui desiderio non
corrisposto per Thor conquista lentamente il centro della scena.
Lomosessualità,
non più repressa, di Kristjan viene schernita dai coetanei e osteggiata dal
padre. Questultimo rappresenta il machismo
dilagante nelle aree più periferiche del paese e al tempo stesso la
cristallizzazione di una dinamica tipica del disagio adolescenziale:, destinato a
rimanere inascoltato, a meno che non sfoci in gesti irreparabili. Lo sguardo di
Gudmundsson è sensibile alla psicologia dei personaggi (nota di merito per il casting): ne esamina i volti, i gesti,
le posture, ma anche e soprattutto le relazioni, dipanando un tessuto sociale
che verrà strappato solo nel finale, con la fuga verso Reykjavik e la rinascita.
Una scena del film
Bravissimo
nellalternare primi piani a campi lunghi, in un gioco continuo di inserimento
e isolamento dal contesto, il regista islandese propone un lavoro sofferto, autenticamente
personale, e proprio per questo universale. Riprendendo il topos, mai abusato, della fuga dalla campagna alla città, il film è
un potente spaccato di vita di un paese che è al contempo un luogo interiore, da
cui a un certo momento è necessario distaccarsi. Lautenticità della provincia
islandese, forse, sta proprio qui, nel suo essere banalmente uguale a qualsiasi
altra provincia.
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