Di tutti gli artisti approdati al Lido questanno,
Ulrich Seidl può forse non essere tra
i più amati, ma sul suo essere “personaggio” non vi è dubbio. Già nei titoli di
testa, alla didascalia “Ulrich Seidl production”, alcuni spettatori si sono
prodigati in un fragoroso applauso mentre altri hanno dimostrato il loro dissenso
in un clima da stadio.
Le provocazioni del sessantatreenne regista e
sceneggiatore austriaco, qui alla sua ventesima fatica, arrivano alla Mostra ormai
con cadenza biennale. Nel 2012 era la volta del controverso Paradise: Faith (link), capitolo centrale della Paradise Trilogy, una riflessione
politically uncorrect sul ruolo della
religione nella società austriaca. Se il capitolo finale di tale trilogia, Paradise: Hope (2013), lasciava intravedere
una svolta nella sua poetica verso una inedita leggerezza, a riportarlo sui propri
passi ci ha pensato il successivo Im
Keller (2014), anchesso presentato a Venezia: un documentario girato nelle
cantine delle classi agiate austriache, tra alcolismo, razzismo, pratiche
sadomaso e trofei di caccia.
Una scena del film È proprio dai trofei di caccia che prende le
mosse Safari, sorta di spin-off di Im
Keller. Il regista continua la sua analisi su quanto di peggio cova nei
luoghi di intrattenimento della borghesia austriaca, trasferendosi nella tenuta
di Leopard Lodge, in Namibia, una delle tante riserve africane in cui è ancora possibile
praticare la caccia. Non devessere stato facile, per un regista che ha fondato
tutta la sua poetica sulla derisione cinica e spietata della società, ottenere
dagli intervistati il nulla osta per seguirli
nelle battute di caccia e, addirittura, riprenderli in posa insieme alle
carcasse delle vittime. «Dicono che noi uccidiamo animali… Esatto, è proprio
quello che facciamo!», esclama uno dei personaggi, perfettamente consapevole dellimpopolarità
di tale affermazione. Azionando le leve del loro narcisismo, Seidl usa a
proprio vantaggio le modalità autorappresentative dei safaristi che si vantano dei
loro successi e giustificano il loro operato spesso con spiegazioni provocatorie
(«li uccidiamo perché si riproducano meglio!», dice un ragazzo intervistato).
Dietro al disagio innescato dalle numerose
immagini violente (in molti sono usciti dalla sala a proiezione in corso), cè
la volontà di capire che gusto si provi a uccidere un animale. Una volontà che sottende
tutto il film, legittimando quelle immagini ripugnanti. Le più insostenibili
sono le sequenze del mattatoio, sorta di grand
guignol zoologico dove la manodopera locale scuoia e sviscera zebre e
giraffe per dare la pelle e la carne ai turisti. In unaltra scena, in una
sorta di montaggio ejzenstejniano, una coppia di vecchi austriaci obesi sulle
sdraio al sole decanta la morbidezza della carne di antilope: «è insuperabile, incomparabilmente
migliore rispetto a quella di mucca!». Al di là dei giudizi di gusto, Seidl
dimostra la sua stoffa di documentarista, riuscendo a instaurare con i soggetti
analizzati un rapporto di dissenso, ma anche di fiducia e di rispetto reciproco
(alcuni safaristi sono venuti al Lido ad assistere alla première). La popolazione locale, come già in Paradise: Love (2012), resta in secondo
piano: corpi senza voce, ripresi in lunghi e muti long takes mentre rosicchiano gli scarti degli animali scuoiati,
oppure semplicemente immobili, circondati dai trofei. La frontalità delle
immagini e la fissità dello sguardo in macchina generano uninquietudine
efficace, benché non sia chiaro se il loro mutismo derivi da uneffettiva impossibilità
di parlare o sia una scelta espressiva del regista.
Una scena del film I momenti più intensi del film sono quelli delle lunghe battute di caccia, dai rituali di preparazione ai commenti successivi alluccisione delle bestie. Sono queste scene a generare i brividi maggiori. Ci piacerebbe che i “safaristi” fossero dei mostri, ma quelle che vediamo sono famiglie normali, regolate dallaffetto reciproco: discettano di calibri di fucile in assoluta pacatezza, si abbracciano se il loro tiro va a buon fine, si complimentano a vicenda per i risultati ottenuti. «Cara, mi piacerebbe che tu una volta uccidessi uno gnu, ti aiuterebbe a superare le tue insicurezze», dirà in una scena la madre a sua figlia. Cè una inquietante tenerezza nel rituale del safari, nei legami che si creano dopo ogni uccisione di zebre, antilopi, giraffe, bufali. Unagghiacciante dimensione familiare. Preso atto della banalità del male, lunica
risposta possibile è suggerita dal proprietario del resort in una delle scene finali: «lessere umano è in cima alla
catena alimentare, e contemporaneamente è superfluo. Senza luomo tutti se la
passerebbero meglio». Quella di Seidl è una misantropia radicale, in cui la
critica a una classe sociale trascolora nella critica alla natura umana nella
sua interezza, con tutta lirritante lucidità che solo gli autentici misantropi
possiedono.
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