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The act of killing

di Raffaele Pavoni
  Safari
Data di pubblicazione su web 06/09/2016  

Di tutti gli artisti approdati al Lido quest’anno, Ulrich Seidl può forse non essere tra i più amati, ma sul suo essere “personaggio” non vi è dubbio. Già nei titoli di testa, alla didascalia “Ulrich Seidl production”, alcuni spettatori si sono prodigati in un fragoroso applauso mentre altri hanno dimostrato il loro dissenso in un clima da stadio.

Le provocazioni del sessantatreenne regista e sceneggiatore austriaco, qui alla sua ventesima fatica, arrivano alla Mostra ormai con cadenza biennale. Nel 2012 era la volta del controverso Paradise: Faith (link), capitolo centrale della Paradise Trilogy, una riflessione politically uncorrect sul ruolo della religione nella società austriaca. Se il capitolo finale di tale trilogia, Paradise: Hope (2013), lasciava intravedere una svolta nella sua poetica verso una inedita leggerezza, a riportarlo sui propri passi ci ha pensato il successivo Im Keller (2014), anch’esso presentato a Venezia: un documentario girato nelle cantine delle classi agiate austriache, tra alcolismo, razzismo, pratiche sadomaso e trofei di caccia.


Una scena del film
Una scena del film

È proprio dai trofei di caccia che prende le mosse Safari, sorta di spin-off  di Im Keller. Il regista continua la sua analisi su quanto di peggio cova nei luoghi di intrattenimento della borghesia austriaca, trasferendosi nella tenuta di Leopard Lodge, in Namibia, una delle tante riserve africane in cui è ancora possibile praticare la caccia. Non dev’essere stato facile, per un regista che ha fondato tutta la sua poetica sulla derisione cinica e spietata della società, ottenere dagli intervistati il nulla osta per seguirli nelle battute di caccia e, addirittura, riprenderli in posa insieme alle carcasse delle vittime. «Dicono che noi uccidiamo animali… Esatto, è proprio quello che facciamo!», esclama uno dei personaggi, perfettamente consapevole dell’impopolarità di tale affermazione. Azionando le leve del loro narcisismo, Seidl usa a proprio vantaggio le modalità autorappresentative dei safaristi che si vantano dei loro successi e giustificano il loro operato spesso con spiegazioni provocatorie («li uccidiamo perché si riproducano meglio!», dice un ragazzo intervistato).

Dietro al disagio innescato dalle numerose immagini violente (in molti sono usciti dalla sala a proiezione in corso), c’è la volontà di capire che gusto si provi a uccidere un animale. Una volontà che sottende tutto il film, legittimando quelle immagini ripugnanti. Le più insostenibili sono le sequenze del mattatoio, sorta di grand guignol zoologico dove la manodopera locale scuoia e sviscera zebre e giraffe per dare la pelle e la carne ai turisti. In un’altra scena, in una sorta di montaggio ejzenstejniano, una coppia di vecchi austriaci obesi sulle sdraio al sole decanta la morbidezza della carne di antilope: «è insuperabile, incomparabilmente migliore rispetto a quella di mucca!». Al di là dei giudizi di gusto, Seidl dimostra la sua stoffa di documentarista, riuscendo a instaurare con i soggetti analizzati un rapporto di dissenso, ma anche di fiducia e di rispetto reciproco (alcuni safaristi sono venuti al Lido ad assistere alla première).

La popolazione locale, come già in Paradise: Love (2012), resta in secondo piano: corpi senza voce, ripresi in lunghi e muti long takes mentre rosicchiano gli scarti degli animali scuoiati, oppure semplicemente immobili, circondati dai trofei. La frontalità delle immagini e la fissità dello sguardo in macchina generano un’inquietudine efficace, benché non sia chiaro se il loro mutismo derivi da un’effettiva impossibilità di parlare o sia una scelta espressiva del regista.


Una scena del film
Una scena del film

I momenti più intensi del film sono quelli delle lunghe battute di caccia, dai rituali di preparazione ai commenti successivi all’uccisione delle bestie. Sono queste scene a generare i brividi maggiori. Ci piacerebbe che i “safaristi” fossero dei mostri, ma quelle che vediamo sono famiglie normali, regolate dall’affetto reciproco: discettano di calibri di fucile in assoluta pacatezza, si abbracciano se il loro tiro va a buon fine, si complimentano a vicenda per i risultati ottenuti. «Cara, mi piacerebbe che tu una volta uccidessi uno gnu, ti aiuterebbe a superare le tue insicurezze», dirà in una scena la madre a sua figlia. C’è una inquietante tenerezza nel rituale del safari, nei legami che si creano dopo ogni uccisione di zebre, antilopi, giraffe, bufali. Un’agghiacciante dimensione familiare.

Preso atto della banalità del male, l’unica risposta possibile è suggerita dal proprietario del resort in una delle scene finali: «l’essere umano è in cima alla catena alimentare, e contemporaneamente è superfluo. Senza l’uomo tutti se la passerebbero meglio». Quella di Seidl è una misantropia radicale, in cui la critica a una classe sociale trascolora nella critica alla natura umana nella sua interezza, con tutta l’irritante lucidità che solo gli autentici misantropi possiedono. 




Safari
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La locandina
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