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Nozze in sogno, orchestra in barca

di Paolo Patrizi
  Le nozze in sogno
Data di pubblicazione su web 31/08/2016  

La cosa più graziosa e di classe dello spettacolo è quell’omaggio post mortem che, forse, non tutti gli spettatori avranno colto: la quindicina (scarsa) di strumentisti dell’Ensemble Innsbruck Barock si trovano, insieme al loro direttore Enrico Onofri, all’interno di una barchetta blu davanti al palcoscenico; e la piccola imbarcazione, a prua, reca il nome “Alan”. È un modo affettuoso di ricordare Alan Curtis, che alla riscoperta di melodrammi dimenticati del Seicento (e non solo) dedicò la sua carriera di direttore-filologo e, tra le sue ricognizioni da Indiana Jones degli archivi musicali, aveva appena riesumato Le nozze in sogno di Pietro Antonio Cesti. Avrebbe dovuto dirigerle lui, in quest’edizione (la quarantesima) delle Settimane di Musica Antica a Innsbruck, se la morte – l’anno scorso – non l’avesse sottratto a questo e molti altri progetti: sicché quell’orchestra in barca (perché Le nozze in sogno è opera di ambiente marino, anzi portuale) è un modo tenero e gioioso di far musica ricordandolo.

Il libretto di Pietro Susini, drammaturgo (Il traditor fortunato fu forse il suo lavoro di maggior successo, 1685) e diffusore del teatro del siglo de oro spagnolo nella Firenze del diciassettesimo secolo, traduttore di Lope de Vega e Calderón de la Barca presso la corte medicea, reca come sottotitolo «dramma civile». Tuttavia, converrà sgombrare subito il campo da possibili equivoci: il sostantivo non sottintende un soggetto drammatico (siamo, anzi, nei paraggi della più classica commedia degli equivoci), ma semplicemente rimarca la natura di lavoro teatrale; mentre l’aggettivo, lungi dall’abbarbicarsi a temi etico-politici, rinvia all’idea di civitas.


Una scena dello spettacolo
© Rupert Larl

Al contrario di quanto accadrà con le grandi commedie in musica dei secoli successivi, dalla Napoli di Così fan tutte alla Siviglia del Barbiere, Le nozze in sogno è infatti un melodramma radicato nella città in cui si svolge l’azione: la Livorno degli affari e dei commerci in cui brulicano i tipi più strani, crocevia di culture – come spesso accade alle città portuali – e appunto per questo esempio di tolleranza razziale e religiosa. Nonostante una massiccia presenza di ebrei, Livorno non conobbe mai il loro tradizionale isolamento in un Ghetto: e la salace ironia di Susini verso la venalità giudaica, che oggi a qualcuno potrà apparire politicamente scorretta, non sottintende alcun antisemitismo, ma vuol essere solo uno spaccato di quel “gran teatro del mondo” che al drammaturgo-librettista premeva raccontare.

Alle prese con un tradizionale tourbillon di tutori sciocchi e servi scaltri, mercanti avidi e fanciulle smaniose, uomini vestiti da donna e donne mascherate da uomo, e anche con qualche zaffata macabro-farsesca nella scena al cimitero, Cesti costruisce una drammaturgia musicale non esilarante ma pacata. Il compositore toscano, che a Innsbruck lavorò a lungo (e infatti il Festival, al di là delle Nozze in sogno, ha costruito attorno a lui un vero e proprio progetto), sceglie la via della misura: vola programmaticamente meno alto rispetto alla Dori e all’Orontea (dove la commistione tra dramma e commedia gli offrivano forse maggiori sollecitazioni), non enfatizza ma semmai disinnesca, mostra quella relativa elementarità di linguaggio del tutto comprensibile quando si ha a che fare con un nascente registro stilistico (Le nozze in sogno risalgono al 1665), coltiva le parentesi patetiche con più convinzione delle ampie pennellate farsesche.


Una scena dello spettacolo
© Rupert Larl

Come talvolta accade ai solisti passati alla direzione d’orchestra (è un ottimo violinista barocco), Onofri asseconda la partitura con rispetto, amore e forse un’ombra di timidezza: laddove l’autore difetta di vivacità, il concertatore non gliela insuffla come potrebbe; e quando Cesti – nelle arie improntate a patetismo – assurge a una ricchezza formale difficilmente raggiunta altrove, si avverte, da parte di Onofri, la volontà non di sottolineare quei momenti, ma di omogenizzarli con il resto dell’opera. Tuttavia, in una sorta di mal bilanciato contrappasso, il regista sembra scegliere invece una strada opposta: e i risultati disorientano un po’.

È possibile che la recita di cui si dà conto – spostata, causa maltempo, da un luogo aperto a una sala chiusa – non abbia reso giustizia all’impianto scenico di Davide Amadei, che si basava, a giudicare dalle fotografie della première, sulla felice contiguità tra il palcoscenico naturale (un cortile di palazzo storico) e gli elementi costruiti ad hoc. Avulsi dal contesto, tali elementi (a parte la barchetta-orchestra, dei semplici containers lignei che rinviano all’attività portuale, ma anche all’idea di tanti microcosmi cittadini) risultano invece poco accattivanti; e ancor meno gradevoli, sul piano estetico, appaiono i costumi: ora pop, ora senza meno trash, ora – ulteriore omaggio alla Livorno marinara – desunti dai film di pirati. Il tutto centrifugato dalla regia di Alessio Pizzech, uomo di teatro in altre occasioni non privo di una sua cifra stilistica, ma che qui sembra imboccare la deriva (già collaudata nei Barbieri e negli Elisir di alcuni quotati registi italiani di modaiola corrività) dell’opera buffa “aggiornata” con gags fumettistiche e pacchianerie televisive.


Una scena dello spettacolo
© Rupert Larl

Deconcentrati o divertiti che fossero da tale contesto, i cantanti – per quanto di valore diseguale – “funzionano” tutti bene. Spiccano un gradino sugli altri, com’è inevitabile, i destinatari delle arie più belle: il controtenore Rodrigo Sosa Del Pozzo (mobile nel fraseggio, patetico nell’accento, contraltile nel timbro, scatenata drag queen nella recitazione) e il tenore Bradley Smith (che stempera in elegiaca compostezza un ruolo all’insegna dell’aristocratica dabbenaggine). Accanto a loro, Arianna Vendittelli incarna con scioltezza canora e pertinenza stilistica il prototipo della fanciulla monellesca, sensuale e gabbatutore, mentre Yulia Sokolik – alle prese con una parte meno briosa e più risentita – mostra tautologicamente pure qualche spigolosità vocale in più.

Nei panni del servo demiurgico Konstantin Derri sfrutta in senso caratterizzante una voce di controtenore acutissimo, laddove Francisco Fernández-Rueda evita invece sbracamenti transgender nel suo ruolo tenorile en travesti di fantesca anzianotta, ma con gli ormoni a pieno regime. Rocco Cavalluzzi rinnova (anzi, trattandosi di Cesti, anticipa) la tradizione dei baritoni buffi di voce scabra e accento saporoso, e Ludwig Obst gli fa da degna spalla con talento forse più attoriale che canoro. Jeffrey Francis, una ventina d’anni fa, era tenore ausiliario – non di prima linea – nel parco della renaissance rossiniana e donizettiana di allora. Dismessi ormai panni protagonistici, qui lo ritroviamo nel ruolo ridicolo del vecchio zio e in quello sulfureo (brevissimo, un cammeo) del commerciante ebreo: affrontati con voce che si è fatta oggi usurata, ma anche più mobile, colorita, espressiva. Meglio adesso che ai vecchi tempi, insomma.



Le nozze in sogno



cast cast & credits
 
trama trama


Una scena dello spettacolo alle Settimane di Musica Antica a Innsbruck
© Rupert Larl


 
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