Esponente
di punta della cosiddetta sesta generazione del cinema cinese, a dieci anni da
quello Still life (Leone doro al 63°
Festival di Venezia) che lo ha fatto conoscere al pubblico internazionale, Jia Zhang-Ke torna a girare nella sua
città natale, Fenyang. Lottavo lungometraggio del regista è un dramma in tre
atti dalle forti tinte melò, quasi
una sorta di Ieri, oggi e domani in
chiave orientale.
La
storia parte dal 1999, con il più classico dei triangoli amorosi: Tao (Zhao Tao), graziosa commessa, viene
corteggiata contemporaneamente da Lianzi (Jing
Dong Liang), modesto minatore, e da Zhang (Yi Zhang), giovane capitalista dalle grandi ambizioni. La
competizione tra i due si fa sempre più forte, e quando la ragazza decide di
cedere alle lusinghe di Zhang, Lianzi lascia la città per cercare fortuna
altrove. Vi torna quindici anni dopo, affetto da un tumore, e a pagargli le
cure necessarie è proprio Tao, la quale nel frattempo è diventata una donna sola
e distrutta: il marito Zhang e il figlio avuto con lui, Dollar (Zishan Rong), lhanno abbandonata per
trasferirsi a Shanghai dove il piccolo può crescere nel lusso e studiare in
inglese. In seguito alla morte di suo padre, Tao prova a ricucire i rapporti
con il figlio, ma si trova davanti un estraneo, incapace persino di parlare la
sua lingua. La terza parte ci porta al 2025: Dollar, ormai diciottenne (Zijian Dong), vive in Australia col
padre, ma escogita una fuga. Infatuatosi di Mia (Sylvia Chang), insegnante cinese espatriata e divorziata (chiaro
sostituto della figura materna), il ragazzo decide di lasciare il college e partire con lei alla ricerca
delle proprie radici.
Fortemente
debitore, per ammissione dello stesso autore, nei confronti del cinema di Antonioni, Zhang-Ke si conferma non
solo uno dei migliori interpreti delle contraddizioni della Cina contemporanea,
refrain che ormai accompagna
qualunque sua uscita cinematografica, ma anche e soprattutto un “maestro” nel delineare
e problematizzare i rapporti tra mutamenti sociali e vicende private. Al di là delle montagne è un film
caratterizzato dai numerosi rimandi interni, dalle connessioni talvolta sottili
in senso sia sincronico, tra personaggi e ambiente, sia diacronico, tra i tempi
del racconto. Oggetti, fenomeni naturali, rumori dambiente, brani musicali danno
corpo a una fitta rete di torrenti sotterranei che di tanto in tanto riemergono
per poi inabissarsi nuovamente, tracciando linee di continuità per poi, subito dopo,
cancellarle.
Una scena del film
È
nel senso di questa dialettica tra persistenza e metamorfosi che vengono
sperimentate efficaci e spesso inedite soluzioni di linguaggio. Un esempio è la
scena in cui Tao, cercando di legare col figlio Dollar, si ritrova costretta a videochiamare
suo padre, Zhang, intimandogli di non importunarlo in sua presenza. Il dialogo tra
madre e figlio può avere luogo solo dopo aver relegato il padre fuori dal
quadro: del tablet con il quale viene
effettuata la chiamata non viene mostrato che il retro, in una sorta di “fuori
campo in campo” che amplifica lassenza (del padre) attraverso la presenza (del
dispositivo). Oppure, si pensi al ritrovamento finale tra madre e figlio, che prenderà
le forme di una sovrapposizione di piste sonore, le cui fonti sono tra loro lontanissime
(il fruscio del mare australiano e una canzone pop ascoltata a Fenyang). Si
tratta di una fusione extradiegetica, non plausibile dal punto di vista
narrativo. O ancora, si pensi al formato in 4:3 della prima parte: un rimando
alle videocamere consumer degli anni
Novanta, in linea con la vocazione documentaristica del cinema di Zhang-Ke, che
assume al tempo stesso una valenza claustrofobica, regimentando limmagine per
farla dialogare più efficacemente con ciò che sta al di là di essa (si veda limprovviso
pugno di Lianzi a Zhang).
In
contrasto con la prima parte, il resto del film è in 16:9, valorizzando la
originaria funzione “panoramica” di questo formato. I paesaggi diventano
improvvisamente protagonisti e lallargamento del campo da artificio
linguistico si tinge di un forte valore simbolico, invitando lo spettatore a
stabilire le connessioni tra gli elementi in gioco. Si pensi, ad esempio, alla
polvere da sparo: quella festosa dei fuochi di artificio di capodanno, ma anche
quella dellesplosivo con cui Zhang progetta di far esplodere Lianzi, e infine
quella delle armi che lo stesso Zhang, ormai vecchio, inutilmente colleziona nella
sua lussuosa residenza in Australia. «In Cina non potevo comprare armi, ora
posso comprare armi ma non ho nessuno a cui sparare!», sbotta con il figlio, nonostante
questi sia incapace di capirlo.
Riprendendo
la celebre affermazione di Čechov,
per cui se in un romanzo compare una pistola prima o poi deve sparare, è
proprio nellanomalia drammaturgica delle armi da fuoco che non sparano che troviamo
una delle metafore più riuscite della Cina contemporanea. Se per i protagonisti
del penultimo film di Zhang-Ke, A Touch of
Sin (2012), lunico sbocco possibile del disagio sociale ed esistenziale è
una brutale e insensata carneficina, qui il discorso sembra evolversi,
prendendo una piega politica: la classe imprenditoriale cinese, in esilio, è
pervasa dallo stesso horror vacui e
dalla stessa depravazione morale degli assassini della precedente pellicola, ma
a differenza di costoro è condannata allimpotenza.
Una scena del film
Acquista
risalto, in questo senso, la figura della madre, interpretata da una bravissima
Zhao Tao, capace di alternare momenti di forte pathos (la morte del padre) ad altri di composta commozione
(lincontro con Lianzi malato). La sua parabola, da ragazza ingenua e spensierata
a donna abbandonata e frustrata, è complementare a quella dellormai ex marito,
e il dissolvimento della felicità del passato è veicolata, anche qui, attraverso
il linguaggio. «Non canto più, non trovo più belle parole», dirà a un certo
punto Tao a Lianzi, e daltronde è proprio la musica, spesso mentale, a creare
legami, laddove il suono dellambiente circostante tende a isolare, a schiacciare
lessere umano alla propria “funzionalità”.
Parabola
ancor più forte risulta quella del figlio Dollar, che nellultimo atto diventa protagonista
assoluto, figura apolide talmente sradicata dai genitori da ignorarne persino
lidioma. Per comunicare con lui, in quei rari momenti in cui risulta
indispensabile farlo, il padre ha bisogno di ricorrere a Google Translate o allintermediazione
dellinsegnante Mia. Lamplesso tra Dollar e questultima, di cui pudicamente ci
vengono mostrati solo il prima e il dopo, si riveste di un significato
fortemente edipico, un incesto senza scandalo che manifesta il desiderio, frustrato,
di una riconciliazione.
La
Cina per anni è stata una nazione incapace di tramandare la propria memoria, e
col suo cinema Zhang-Ke riesce a far suo il dramma di un intero popolo, quello
dellimpossibilità di un ritorno alle proprie radici. Si tratta di radici che –
e qui sta la profondità antropologica del film – non risiedono in un vago
folklore da cartolina, ma sono frutto a loro volta di contaminazioni pregresse:
la giovane Tao, nella prima parte del film, lavora in un negozio di
elettrodomestici, guida macchine tedesche, ascolta musica americana. Il ritorno
al passato sembra quasi perdere i suoi connotati storici per farsi disperata
ricerca della spensieratezza giovanile: chissà quanto, nella figura scapigliata
e ribelle di Dollar, Zhang-Ke riconosca sé stesso, e quanto, di converso, la
storia dei personaggi si intrecci col vissuto personale dellautore.
Al di là delle
montagne
vive di questa calcolata ambiguità, di questequilibrio tra autobiografia e
film corale, tra interiorizzazione dei cambiamenti sociali ed esteriorizzazione
dei drammi personali, in una perenne e angosciosa ricerca di qualcosa che non
cè.
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Al di là delle montagne
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La locandina del film
Il regista Jia Zhang-Ke
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