Amate Berlioz? Ne siete solo occasionalmente attratti? Non lo sopportate
proprio? In tutti e tre i casi dovreste apprezzare il Benvenuto Cellini con la regia di Terry Gilliam, che, dopo Londra e Amsterdam, è approdato allOpera
di Roma in qualità di terzo teatro coproduttore del fantasmagorico spettacolo.
Si sa comera Berlioz: spiccato
senso del sarcasmo, ma poca inclinazione allautoironia; sempre pronto a
dileggiare pochezza dei colleghi e ottusità del pubblico, ma mai disposto a
prendersi men che sul serio; e – proprio come Cellini – eterno ribelle isolato
dallestablishment, eppure smanioso
di gloria e riconoscimenti. Insomma una tipologia che nella Francia di oggi viene
chiamata bobo, acidulo acronimo per
definire il bohémien bourgeois, ma che attecchiva bene in
quella a cavallo tra Restaurazione e Secondo Impero, dove Berlioz si trovò a
operare: fertile terreno per artisti visionari e “maledetti” (basti pensare a
una penna come Gérard de Nerval, compagno
davventura berlioziana nel libretto della Damnation
de Faust), ma pure indefessi orticultori del proprio mito. In questa
prospettiva, la regia di Gilliam è senza meno esemplare.
I cineasti di genio, nelle loro
occasionali incursioni nel teatro dopera, si dividono in due categorie: o
restano troppo vincolati alle proprie matrici per rendere giustizia alle
ragioni della musica (un esempio per tutti, Woody Allen), oppure rinunciano alla loro caratteristica unghiata per
un malinteso senso di discrezione (è il caso di Werner Herzog, e non
solo). Gilliam, a tuttoggi, ha scelto di confrontarsi – prima La damnation
de Faust, ora il Cellini – solo
con Berlioz, a testimonianza di una reale consonanza con questo musicista: il
gusto delleclettismo esasperato, dello scompaginamento drammaturgico per
necessità caratteriale prima che per progetto estetico, della personalità sdoppiata
di molti personaggi accomuna il compositore della Sinfonia Fantastica al
regista di Brazil.
Un momento dello spettacolo
©Yasuko Kageyama
Proprio la natura di “operista
antiteatrale” caratterizzante Berlioz (che davanti al compito di adattare in
musica Shakespeare e Goethe preferì alzare le mani, facendo
di Romeo e Giulietta un lavoro
sinfonico-vocale e del Faust unopera
da concerto) deve aver intrigato luomo di cinema Gilliam: il quale per la Damnation riuscì a trovare una chiave di
lettura “forte” (il mito faustiano come metafora dellintellettuale tedesco in
tempi di nazismo) che teatralizzava oltre ogni aspettativa quella non-opera;
mentre nel Cellini – partitura
esplicitamente operistica e, anzi, incanalata nel linguaggio del Grand-opéra – asseconda con empatia il compositore,
nei conati di grandeur come negli affondi
politically incorrect.
Ne sortiscono un protagonista
bello e dannato, sporco e cattivo; varie gags
fallocratiche sulla sua statua di Perseo; un Clemente VII in chiave Sissy Pope, unghie laccate e frangia
alla giapponesina; unambientazione ottocentesca anziché rinascimentale – i bei
costumi di Katrina Lindsay suggeriscono un diciannovesimo
secolo vagamente da cartone animato – che non esclude tuffi in età più vicine (losteria
come un bar psichedelico, la bottega artigiana in odore di Greenwich Village…);
una Roma evocata da scenografie – le firmano Aaron Marsden e lo stesso Gilliam – che sono un omaggio a Piranesi, ma senza specifiche
connotazioni topografiche. E a dominare su tutto il Carnevale romano, per
Berlioz grande protagonista nel finale del secondo atto, ma, per Gilliam, mattatore
dallinizio alla fine: gli spettatori vengono accolti in sala da due mascheroni
ai lati del sipario, mentre nel corso dellouverture
entra in platea una processione di funamboli e trampolieri, che porta il
pubblico in medias res e lo stordisce
in un gran colpo di teatro.
Un momento dello spettacolo ©Yasuko Kageyama
Se Gilliam esalta linventiva
tracimante di Berlioz, Roberto Abbado
tenta dirrigimentarla in una cornice dordine. La sua lettura musicale non si
lascia trascinare dallestro indisciplinato della partitura: tutto appare calibrato,
privilegiando la dimensione lirica su quella elettrizzante e anteponendo il
patetismo di maniera (incline cioè a una cortese malinconia ben rodata nel
teatro musicale francese di quegli anni) a quel grottesco in fondo altrettanto
manierato, ma con il quale, almeno, Berlioz apriva la strada a una cifra che è soltanto
sua. Leleganza di una simile concertazione non compensa però la carenza di
mordente; e pure il rapporto con i solisti non sembra ottimale, perché le arie
appaiono curate più nelle introduzioni che nellaccompagnamento.
Il palcoscenico, peraltro, poteva
contare su un protagonista fuoriclasse. Nel canto di John Osborn ritroviamo tutte le caratteristiche di Benvenuto
Cellini: limmenso talento naturale innestato su unestrema perizia tecnica, che
caratterizzano il Cellini orafo e scultore, sono anche i dati più salienti
della linea vocale del tenore americano; mentre la sicurezza insolente del
Cellini uomo è speculare allirrisoria facilità con cui Osborn veleggia sulle
più alte quote del pentagramma. Se poi – come nel suo caso – la prodigiosa
estensione è accompagnata da mezzevoci carezzevoli e contrastate sfumature,
anche il côté più spiccatamente
tenorile del personaggio viene onorato a dovere. E siamo alla quadratura del
cerchio.
Gli altri interpreti riescono a
competere con lui solo sul fronte femminile: Mariangela Sicilia ha di
Teresa la freschezza sbarazzina, la lucentezza adolescenziale e il necessario
dominio virtuosistico, mentre Varduhi Abrahamyan trasforma lapprendista Ascanio – esornativo
personaggio en travesti – in un autentico coprotagonista e alter ego del proprio
maestro. Per il resto, Nicola Ulivieri
sfrutta con una certa sagacia la sua voce precocemente usurata; Alessandro Luongo, nella parte del rivale rancoroso e pedante (vi guarderà
forse Wagner per il Beckmesser dei Meistersinger), è più che altro una
sapida presenza scenica; Marco Spotti appare
divertito nel dar vita a un pontefice transgender,
ma lemissione resta inguaribilmente secca e angolosa. Anche il coro,
daltronde, recita molto bene: ed è lennesima zampata del brand Terry Gilliam.
|
|