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L'importante è crederci

di Paolo Patrizi
  Benvenuto Cellini
Data di pubblicazione su web 30/03/2016  

Amate Berlioz? Ne siete solo occasionalmente attratti? Non lo sopportate proprio? In tutti e tre i casi dovreste apprezzare il Benvenuto Cellini con la regia di Terry Gilliam, che, dopo Londra e Amsterdam, è approdato all’Opera di Roma in qualità di terzo teatro coproduttore del fantasmagorico spettacolo.

Si sa com’era Berlioz: spiccato senso del sarcasmo, ma poca inclinazione all’autoironia; sempre pronto a dileggiare pochezza dei colleghi e ottusità del pubblico, ma mai disposto a prendersi men che sul serio; e – proprio come Cellini – eterno ribelle isolato dall’establishment, eppure smanioso di gloria e riconoscimenti. Insomma una tipologia che nella Francia di oggi viene chiamata bobo, acidulo acronimo per definire il bohémien bourgeois, ma che attecchiva bene in quella a cavallo tra Restaurazione e Secondo Impero, dove Berlioz si trovò a operare: fertile terreno per artisti visionari e “maledetti” (basti pensare a una penna come Gérard de Nerval, compagno d’avventura berlioziana nel libretto della Damnation de Faust), ma pure indefessi orticultori del proprio mito. In questa prospettiva, la regia di Gilliam è senza meno esemplare.

I cineasti di genio, nelle loro occasionali incursioni nel teatro d’opera, si dividono in due categorie: o restano troppo vincolati alle proprie matrici per rendere giustizia alle ragioni della musica (un esempio per tutti, Woody Allen), oppure rinunciano alla loro caratteristica unghiata per un malinteso senso di discrezione (è il caso di Werner Herzog, e non solo). Gilliam, a tutt’oggi, ha scelto di confrontarsi – prima La damnation de Faust, ora il Cellini – solo con Berlioz, a testimonianza di una reale consonanza con questo musicista: il gusto dell’eclettismo esasperato, dello scompaginamento drammaturgico per necessità caratteriale prima che per progetto estetico, della personalità sdoppiata di molti personaggi accomuna il compositore della Sinfonia Fantastica al regista di Brazil.


©Priska Ketterer
Un momento dello spettacolo
©Yasuko Kageyama

Proprio la natura di “operista antiteatrale” caratterizzante Berlioz (che davanti al compito di adattare in musica Shakespeare e Goethe preferì alzare le mani, facendo di Romeo e Giulietta un lavoro sinfonico-vocale e del Faust un’opera da concerto) deve aver intrigato l’uomo di cinema Gilliam: il quale per la Damnation riuscì a trovare una chiave di lettura “forte” (il mito faustiano come metafora dell’intellettuale tedesco in tempi di nazismo) che teatralizzava oltre ogni aspettativa quella non-opera; mentre nel Cellini – partitura esplicitamente operistica e, anzi, incanalata nel linguaggio del Grand-opéra – asseconda con empatia il compositore, nei conati di grandeur come negli affondi politically incorrect.

Ne sortiscono un protagonista bello e dannato, sporco e cattivo; varie gags fallocratiche sulla sua statua di Perseo; un Clemente VII in chiave Sissy Pope, unghie laccate e frangia alla giapponesina; un’ambientazione ottocentesca anziché rinascimentale – i bei costumi di Katrina Lindsay suggeriscono un diciannovesimo secolo vagamente da cartone animato – che non esclude tuffi in età più vicine (l’osteria come un bar psichedelico, la bottega artigiana in odore di Greenwich Village…); una Roma evocata da scenografie – le firmano Aaron Marsden e lo stesso Gilliam – che sono un omaggio a Piranesi, ma senza specifiche connotazioni topografiche. E a dominare su tutto il Carnevale romano, per Berlioz grande protagonista nel finale del secondo atto, ma, per Gilliam, mattatore dall’inizio alla fine: gli spettatori vengono accolti in sala da due mascheroni ai lati del sipario, mentre nel corso dell’ouverture entra in platea una processione di funamboli e trampolieri, che porta il pubblico in medias res e lo stordisce in un gran colpo di teatro.

©Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo
©Yasuko Kageyama

Se Gilliam esalta l’inventiva tracimante di Berlioz, Roberto Abbado tenta d’irrigimentarla in una cornice d’ordine. La sua lettura musicale non si lascia trascinare dall’estro indisciplinato della partitura: tutto appare calibrato, privilegiando la dimensione lirica su quella elettrizzante e anteponendo il patetismo di maniera (incline cioè a una cortese malinconia ben rodata nel teatro musicale francese di quegli anni) a quel grottesco in fondo altrettanto manierato, ma con il quale, almeno, Berlioz apriva la strada a una cifra che è soltanto sua. L’eleganza di una simile concertazione non compensa però la carenza di mordente; e pure il rapporto con i solisti non sembra ottimale, perché le arie appaiono curate più nelle introduzioni che nell’accompagnamento.

Il palcoscenico, peraltro, poteva contare su un protagonista fuoriclasse. Nel canto di John Osborn ritroviamo tutte le caratteristiche di Benvenuto Cellini: l’immenso talento naturale innestato su un’estrema perizia tecnica, che caratterizzano il Cellini orafo e scultore, sono anche i dati più salienti della linea vocale del tenore americano; mentre la sicurezza insolente del Cellini uomo è speculare all’irrisoria facilità con cui Osborn veleggia sulle più alte quote del pentagramma. Se poi – come nel suo caso – la prodigiosa estensione è accompagnata da mezzevoci carezzevoli e contrastate sfumature, anche il côté più spiccatamente tenorile del personaggio viene onorato a dovere. E siamo alla quadratura del cerchio.

Gli altri interpreti riescono a competere con lui solo sul fronte femminile: Mariangela Sicilia ha di Teresa la freschezza sbarazzina, la lucentezza adolescenziale e il necessario dominio virtuosistico, mentre Varduhi Abrahamyan trasforma l’apprendista Ascanio – esornativo personaggio en travesti – in un autentico coprotagonista e alter ego del proprio maestro. Per il resto, Nicola Ulivieri sfrutta con una certa sagacia la sua voce precocemente usurata; Alessandro Luongo, nella parte del rivale rancoroso e pedante (vi guarderà forse Wagner per il Beckmesser dei Meistersinger), è più che altro una sapida presenza scenica; Marco Spotti appare divertito nel dar vita a un pontefice transgender, ma l’emissione resta inguaribilmente secca e angolosa. Anche il coro, d’altronde, recita molto bene: ed è l’ennesima zampata del brand Terry Gilliam.




Benvenuto Cellini



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