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Ubu re a Sollicciano: una risata ci salverà

di Eloisa Pierucci
  Ubu re
Data di pubblicazione su web 16/01/2016  

La compagnia del carcere di Sollicciano porta in scena il più celebre testo di Alfred Jarry con una verve e una comicità, grottesca e liberatoria al tempo stesso, che ben si addicono a quest’opera pre-surrealista. Scene e costumi, giocati sulle tonalità del grigio con qualche sprazzo di rosso (l’abito di Madre Ubu, il telo su cui si proiettano le ombre dei soldati durante l’efficace scena della battaglia), sembrano quasi un’estensione del malandato teatro della struttura carceraria. Analogamente la vicenda di Padre Ubu, nell’adattamento della regista Elisa Taddei, dialoga con le storie dei detenuti-attori: dopo un incipit musicale e metateatrale, viene inscenato un giocoso cabaret, dove ognuno trova il modo di raccontare sé stesso (nella propria lingua o dialetto). Ulteriori riferimenti alla condizione dei protagonisti sono disseminati nel testo: l’ambito regno di Polonia diventa una cella singola con menu speciale e vasca idromassaggio, la pratica del decervellaggio è paragonata a una settimana di isolamento, e così via.

La regia si segnala non tanto per il lavoro sul singolo attore (comprensibilmente, trattandosi di una numerosa compagnia composta quasi esclusivamente da non professionisti, dove tuttavia emergono talenti e capacità individuali), quanto per la cura dell’insieme, che dà prova di grande affiatamento. Si sviluppano così numerose idee e soluzioni d’impatto: a cominciare dal personaggio di Padre Ubu, interpretato di volta in volta da un attore diverso e, in alcuni momenti particolarmente riusciti, da una sorta di “coro” (cui si contrappone l’unica presenza femminile della compagine, Ilaria Danti, ironica e suadente nei panni della Madre Ubu).

Un momento dello spettacolo © Alessandra Cinquemani
Un momento dello spettacolo
© Alessandra Cinquemani

Da segnalare, poi, la catartica scena dell’attentato alla famiglia reale (composta da pupazzi di latta, chiaro riferimento a I Polacchi, prima versione del testo, di cui furono protagoniste delle marionette): gli spettatori delle prime file vengono coinvolti dalla compagnia in un vero e proprio tiro al bersaglio attraverso il lancio di palline rosse contro i cinque fantocci, contrassegnati dal caratteristico simbolo a chiocciola. Un elemento, quest’ultimo, riconducibile all’iconografia tipica del personaggio di Ubu che, applicato anche ai costumi, si configura quasi come “marchio di fabbrica” dello spettacolo. Suggestive, infine, la già citata scena della battaglia e l’evocativa conclusione: un viaggio per mare verso porti sicuri (non più la Francia o Elsinore, ma i luoghi nativi degli attori), tra il suono delle onde e le note della canzone di apertura, cantata questa volta non più come un’energica marcia, ma come una malinconica e nostalgica nenia.      

Nonostante siano le scene d’insieme a colpire maggiormente, non mancano momenti solistici, volti a valorizzare le abilità di ciascun interprete, come la marcetta che apre e chiude lo spettacolo, suonata dal vivo, la scoppiettante esibizione di rap o i brevi monologhi rivolti agli astanti. Ed è proprio nel costante dialogo con gli spettatori che risiede la forza di questa performance: gli attori recitano spesso in platea, interpellano il pubblico, lo coinvolgono in alcune scene, condividono con chi guarda la gioiosa libertà di giocare con gli sfrenati neologismi di Jarry, con i suoi apparenti non-sense, con la possibilità di raccontare la morte, la sete di potere, la guerra attraverso una risata irriverente, sguaiata, dissacrante. Per un’ora il netto confine che separa il “fuori” dal “dentro”, la società civile dalla comunità dei detenuti (e di chi lavora nel carcere) sembra diventare più incerto e labile: se da un lato il testo invita a confrontarsi, seppure con distaccata ironia, con le nostre più oscure pulsioni, dall’altro lo spettacolo porta a specchiarsi nelle storie e nelle vite di persone che siamo abituati a classificare come “diverse”, ma che possono rivelarsi più vicine e affini di quanto crediamo.

Un momento dello spettacolo © Alessandra Cinquemani
Un momento dello spettacolo
© Alessandra Cinquemani

Questo Ubu re (che rientra nel progetto Carcere a Sollicciano, condotto da Krill Teatro a partire dal 2004) si configura dunque come un’operazione intelligente e riuscita, resa ancora più pregevole dalla collaborazione con il Liceo Artistico di Porta Romana, i cui studenti hanno realizzato gli stilizzati pupazzi di latta. Interessante esempio, questo, di sinergia tra due istituzioni – quella carceraria e quella scolastica – solitamente lontane tra loro.

Preme notare, infine, come l’opportunità di partecipare a un laboratorio teatrale rientri in quei diritti dei detenuti garantiti dalla Costituzione, ma troppo spesso disattesi. In una realtà difficile come quella della Casa Circondariale di Sollicciano il teatro rappresenta, una volta di più, fonte di arricchimento culturale, mezzo di “rieducazione” e, forse, una possibile ancora di salvezza.

                                                         
Ubu re
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