La compagnia del carcere di
Sollicciano porta in scena il più celebre testo di Alfred Jarry con una verve
e una comicità, grottesca e liberatoria al tempo stesso, che ben si addicono a
questopera pre-surrealista. Scene e costumi, giocati sulle tonalità del grigio
con qualche sprazzo di rosso (labito di Madre Ubu, il telo su cui si
proiettano le ombre dei soldati durante lefficace scena della battaglia),
sembrano quasi unestensione del malandato teatro della struttura carceraria. Analogamente
la vicenda di Padre Ubu, nelladattamento della regista Elisa Taddei,
dialoga con le storie dei detenuti-attori: dopo un incipit musicale e
metateatrale, viene inscenato un giocoso cabaret, dove ognuno trova il
modo di raccontare sé stesso (nella propria lingua o dialetto). Ulteriori
riferimenti alla condizione dei protagonisti sono disseminati nel testo:
lambito regno di Polonia diventa una cella singola con menu speciale e
vasca idromassaggio, la pratica del decervellaggio è paragonata a una settimana
di isolamento, e così via.
La regia si segnala non tanto per
il lavoro sul singolo attore (comprensibilmente, trattandosi di una numerosa
compagnia composta quasi esclusivamente da non professionisti, dove tuttavia
emergono talenti e capacità individuali), quanto per la cura dellinsieme, che
dà prova di grande affiatamento. Si sviluppano così numerose idee e soluzioni
dimpatto: a cominciare dal personaggio di Padre Ubu, interpretato di volta in
volta da un attore diverso e, in alcuni momenti particolarmente riusciti, da
una sorta di “coro” (cui si contrappone lunica presenza femminile della
compagine, Ilaria Danti, ironica e suadente nei panni della Madre Ubu).
Un momento dello spettacolo
© Alessandra Cinquemani
Da segnalare, poi, la catartica
scena dellattentato alla famiglia reale (composta da pupazzi di latta, chiaro
riferimento a I Polacchi, prima versione del testo, di cui furono
protagoniste delle marionette): gli spettatori delle prime file vengono
coinvolti dalla compagnia in un vero e proprio tiro al bersaglio attraverso il
lancio di palline rosse contro i cinque fantocci, contrassegnati dal
caratteristico simbolo a chiocciola. Un elemento, questultimo, riconducibile
alliconografia tipica del personaggio di Ubu che, applicato anche ai costumi,
si configura quasi come “marchio di fabbrica” dello spettacolo. Suggestive,
infine, la già citata scena della battaglia e levocativa conclusione: un
viaggio per mare verso porti sicuri (non più la Francia o Elsinore, ma i luoghi
nativi degli attori), tra il suono delle onde e le note della canzone di
apertura, cantata questa volta non più come unenergica marcia, ma come una
malinconica e nostalgica nenia.
Nonostante siano le scene dinsieme
a colpire maggiormente, non mancano momenti solistici, volti a valorizzare le
abilità di ciascun interprete, come la marcetta che apre e chiude lo
spettacolo, suonata dal vivo, la scoppiettante esibizione di rap o i
brevi monologhi rivolti agli astanti. Ed è proprio nel costante dialogo con gli
spettatori che risiede la forza di questa performance: gli attori
recitano spesso in platea, interpellano il pubblico, lo coinvolgono in alcune
scene, condividono con chi guarda la gioiosa libertà di giocare con gli
sfrenati neologismi di Jarry, con i suoi apparenti non-sense, con la
possibilità di raccontare la morte, la sete di potere, la guerra attraverso una
risata irriverente, sguaiata, dissacrante. Per unora il netto confine che
separa il “fuori” dal “dentro”, la società civile dalla comunità dei detenuti
(e di chi lavora nel carcere) sembra diventare più incerto e labile: se da un
lato il testo invita a confrontarsi, seppure con distaccata ironia, con le
nostre più oscure pulsioni, dallaltro lo spettacolo porta a specchiarsi nelle
storie e nelle vite di persone che siamo abituati a classificare come
“diverse”, ma che possono rivelarsi più vicine e affini di quanto crediamo.
Un momento dello spettacolo
© Alessandra Cinquemani
Questo Ubu re (che rientra
nel progetto Carcere a Sollicciano, condotto da Krill Teatro a partire
dal 2004) si configura dunque come unoperazione intelligente e riuscita, resa
ancora più pregevole dalla collaborazione con il Liceo Artistico di Porta
Romana, i cui studenti hanno realizzato gli stilizzati pupazzi di latta.
Interessante esempio, questo, di sinergia tra due istituzioni – quella
carceraria e quella scolastica – solitamente lontane tra loro.
Preme notare, infine, come lopportunità
di partecipare a un laboratorio teatrale rientri in quei diritti dei detenuti
garantiti dalla Costituzione, ma troppo spesso disattesi. In una realtà
difficile come quella della Casa Circondariale di Sollicciano il teatro
rappresenta, una volta di più, fonte di arricchimento culturale, mezzo di
“rieducazione” e, forse, una possibile ancora di salvezza.
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