Le Baccanti è il più enigmatico dei testi
di Euripide, né The Bassarids fa nulla
per stemperarne la natura sibillina. Lestremo capolavoro euripideo ha ripetutamente
sollecitato il teatro musicale del Novecento: ma se Ghedini, nel 1948, tentò
di dissipare larcano con unatmosfera favolosa tanto poetica quanto
semplificante, e Szymanowski
(ventidue anni prima, con Re Ruggero) aggirò il problema abiurando
alla dimensione del mito per trasferire la vicenda in una più concreta Sicilia
medievale, Henze e i suoi
librettisti – quando Le Bassaridi videro la luce, nel 1966 –
apparvero ancor più ambigui della loro fonte letteraria.
La dicotomia istinto-ragione, che oppone Dioniso e i suoi
invasati seguaci alla rigida temperanza di Penteo, non sfocia, con Euripide, in
alcuna presa di posizione: un relativismo etico di estrema modernità (e
altrettanto sostanziale civiltà), complicato però dal fatto che entrambi i poli
del contendere sono, a ben vedere, indifendibili. Giacché, da un lato, la
ferocia con cui Dioniso attua la sua vendetta mostra una sete di rivalsa che fa
scadere il dio verso le più meschine pulsioni umane; mentre lostilità di
Penteo verso la dissolutezza del culto bacchico sfocia in un moralismo
compulsivo, e in una castità maniacale, ancor più irrazionali della sfrenatezza
dionisiaca. Il testo che Wystan Auden (ancora una volta in
collaborazione con Chester Kallman) scrisse
per Henze, poi, accentua la sensazione di aver a che fare con figure
antipatiche: e sebbene Auden, a parole, sostenne che lunico vero personaggio
negativo è Dioniso, sta di fatto che né il libretto né la musica sembrano
giustificare questa lettura unilaterale.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama Lambiguità drammaturgica si traduce in una partitura
centrifuga, dove il solo vero collante – più formale che sostanziale – è la
struttura “da sinfonia” (quattro movimenti, con al centro un intermezzo):
unimplicita ammissione di scarso retroterra operistico (da parte di un
compositore come Henze, che allopera come genere narrativo credeva fortemente)
per un lavoro da dipanarsi, semmai, in termini sinfonico-vocali. Quanto al
dualismo istinto-ragione, la musica – con efficace schematismo – lo evoca
trascolorando da cromatismi a diatonismi, cantabilità acuta e insinuante (quasi
serpentina) per Dioniso e robusto, spigoloso declamato centralizzante quando è
in scena Penteo. E vien quasi da pensare che per Henze, con il suo pensiero
musicale così autonomo rispetto alle avanguardie del Novecento, tale opposizione
rispecchiasse unaltra antitesi: quella fra lantica tradizione tardoromantica (vissuta
come radice ineludibile, non nostalgia passatista) e lestetica del nuovo
propugnata dai seguaci di Darmstadt.
Resta da vedere chi, in questo caso, sarebbe Dioniso e chi
Penteo. Lebbrezza bacchica è di coloro che, come Henze, non si peritano di
riproporre – senza intenti mimetici, ma come capovolti e rimessi in discussione
– gli slanci e i ripiegamenti veterostraussiani? La rigidità di Penteo rientra
nella nouvelle vague dei Nono, dei Maderna e degli altri darmstadtiani,
preoccupati di costruire una musica in programmatica opposizione con ogni
retaggio ottocentesco? O non sarà, invece, il contrario? Sono ipotesi su cui
lavorare, ma pure queste domande non offrono risposta. E lo spettacolo che ha
inaugurato la stagione dellOpera di Roma si adegua alla reticenza dellautore,
impaginando The Bassarids con intenti più di ottima confezione che realmente ermeneutici.
Stefan Soltesz appronta una lettura musicale
molto cauta e pulita, forse anche troppo: un certo formalismo è dietro
langolo, trionfalismi sonori e illividimenti timbrici vengono omogeneizzati in
un pedale di relativa uniformità. La stessa scelta (presumibilmente in accordo
con la regia di Mario Martone, e comunque ammessa dallo
stesso Henze) di eliminare lintermezzo al centro dellopera – un momento di
teatro del teatro, che fa virare la tragedia euripidea in siparietto da dramma
satiresco – non è felice: mancando questo brusco scarto stilistico, che
oltretutto pone le premesse per la catastrofe finale, la concertazione di
Soltesz appare ancor più indifferenziata.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama I cantanti si fanno onore soprattutto sul fronte femminile: Veronica Simeoni è unAgave perfetta
nellisteria più esaltata come nei ripiegamenti lirici, Sara Fulgoni imprime i debiti affondi contraltili a un personaggio
di nutrice che sconfina nella Madre Terra, Sarah
Hershkowitz è una bella presenza ma
non solo. Mentre tra gli interpreti maschili il Cadmo di Mark Doss – ben timbrato
e assai autorevole, però mai granitico oltremisura – sopravanza i due
protagonisti: Russell Braun non sempre ha lo spessore vocale
richiesto da Penteo, e il registro acuto di Ladislav Elgr presenta
gravi problematicità alle prese con la scrittura di Dioniso. Il Tiresia di Erin Caves e il Capitano di Andrew
Schroeder lasciano intuire due buoni
interpreti: ma questi ruoli restano troppo limitati, se si elimina
lintermezzo.
Come negli intenti di Henze e Auden, la messinscena di
Martone e dei suoi collaboratori (Sergio
Tramonti firma le scene, Ursula Patzak i costumi, Raffaella Giordano le coreografie) fa
convivere unambientazione euripidea con abiti e oggetti talvolta di foggia
moderna, ma la regia resta di segno classico: la dimensione del mito prevale
sullattualità politica, la correttezza figurativa pare più urgente di una
presa di posizione che lopera magari non ha, ma alla quale non per questo un
regista dovrebbe abiurare. Insomma, in sintonia con Soltesz, anche Martone
punta su rigore omogeneo e severità stilistica. Se qualcosa ne scapita, è la
dimensione delleros: sono più tristi che attraenti quei nudi femminili così
perfetti da risultare plastificati, e pure la vena omosessuale – nel libretto
tanto sotterranea quanto palpabile – appare a sua volta disinnescata. Gli affondi psicanalitici, inevitabili quando si ha a che fare con il
mito, sono a loro volta risolti con elegante ovvietà, a cominciare dallebbrezza
dionisiaca vista come spinta propulsiva dal basso verso lalto, con le baccanti
che affiorano da sotto il palcoscenico e il loro mondo orgiastico interrato restituito
attraverso uno specchio utilizzato come fondale. Insomma una regia “impegnata”,
ma fondamentalmente calligrafica. E nel teatro dopera di oggi, forse, non cè bisogno
di uno Zeffirelli di sinistra.
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