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Una leggera complessità

di Raffaele Pavoni
  La felicità è un sistema complesso
Data di pubblicazione su web 30/11/2015  

Presentato al Torino Film Festival lo scorso 22 novembre e uscito nelle sale cinematografiche quattro giorni più tardi, l’ultimo film di Gianni Zanasi, classe 1965, rivela una maggiore ambizione del precedente Non pensarci (2007), che pure gli aveva garantito un considerevole successo di pubblico (al punto da spingere la casa produttrice a ricavarne una serie televisiva). Pur adattando un soggetto più complesso, il regista emiliano non perde il suo gusto per la leggerezza, in una commedia sociale che punta a divertire facendo riflettere. Evitando i clichés del genere, Zanasi tuttavia confeziona un prodotto dalla narrazione spesso zoppicante e confusa, ma che trova il suo baricentro nella descrizione di un personaggio, quello di Enrico (Valerio Mastandrea), stratificato ed emblematico di quella rinegoziazione tra pubblico e privato con la quale, a fronte dell’attuale crisi, tanti italiani devono fare i conti.

Il mestiere del protagonista è più unico che raro: andare dai manager incapaci per conquistare la loro fiducia e convincerli a rassegnare le dimissioni. Profondamente convinto della necessità del proprio impegno, Enrico inizia a vacillare dopo la morte del presidente di un’azienda di Trento, con la quale è chiamato a trattare, coinvolto in un mortale incidente d’auto con la moglie. A capo dell’azienda subentrano i figli, giovani idealisti, che contro il parere del CdA tentano di impedire gli esuberi del personale e l’imminente delocalizzazione dello stabilimento in Romania, conquistandosi le simpatie di Enrico e vanificando la sua missione segreta. Allo stesso tempo, il protagonista deve vedersela con Achrinoam (Hadas Yaron), giovane israeliana dalle abitudini bizzarre che il fratello minore (Daniele De Angelis), fingendo una fuga verso il Chiapas a fianco di guerriglieri zapatisti, abbandona a casa sua. Dai continui battibecchi tra i due scaturisce, inevitabilmente, un’attrazione che faticherà a dichiararsi.

Una scena del film
Una scena del film

Mastandrea, istrionico più che mai, si ritrova alle prese con un personaggio al contempo pragmatico e stralunato, fedele e doppiogiochista. Sfuggente, poliedrico, non lascia trasparire la sua reale identità né agli occhi dello spettatore né a quelli dei suoi colleghi («non capiamo come fai, ma sappiamo che sei molto bravo…») e neppure ai suoi. A metà tra la seduzione imbranata di Alberto Sordi e l’aneddotica surrealista di Enrico Montesano, il tutto condito con una buona dose di passività, l’attore romano interpreta un eroe contemporaneo, una figura controcorrente destinata alla sconfitta. Un ruolo non tanto diverso da quello che lo stesso Mastandrea ha interpretato in Viva la libertà di Roberto Andò (2013). Ma se in quest’ultima pellicola la sua intensità performativa era tenuta sotto il livello di guardia per favorire il virtuoso gioco trasformista di Toni Servillo, nel film di Zanasi l’attore è il mattatore, con l’ingrato compito di colmare le vistose lacune della narrazione.


La fiducia data dal regista a Mastandrea (pari, se vogliamo, a quella che riceve il suo personaggio dai propri collaboratori) è ampiamente ripagata. D’altronde le caratteristiche di Enrico sembrano ispirate proprio dalla carriera del suo interprete: come non pensare al frustrato sindacalista della CGIL di Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008), il cui sincero desiderio di cambiamento si scontrava con l’indifferenza e la derisione da parte del cosiddetto “paese reale”. La felicità sembra riprendere la stessa dicotomia.


Una scena del film
Una scena del film

Sognatore e disilluso, Enrico reagisce agli ostacoli con una rabbia che, non riuscendo mai a concretizzarsi in invettiva, non può che trasformarsi in un disperato e cieco sarcasmo, spesso involontario, sistematicamente ignorato dai suoi interlocutori. Il sarcasmo si spoglia di ogni compiacimento, come un’arma da taglio che non colpisce mai il bersaglio, generando effetti comici ma dal sapore amaro.

La crisi economica è un tema che cinematograficamente “funziona”: nel cinema italiano ha ormai dato vita a un filone di genere, e si potrebbe persino insinuare che dietro l’insistenza su questi temi vi sia una scelta di marketing. Eppure di fronte alla criticità delle questioni affrontate (la necessità di bilancio vs il diritto al lavoro, la delocalizzazione nell’Est Europa vs il senso di colpa nei confronti di chi perde il proprio impiego) non possiamo non riconoscere che una visione politica vi sia, nella pellicola, e che il racconto appassionato della complessità in quanto tale rappresenti, di per sé, una precisa scelta di campo. Tuttavia il problema maggiore del film è che spesso questa poetica della complessità si traduce, narrativamente, in confusione: il legame tra le due vicende raccontate è pretestuoso (Achrinoam diventa assistente di Enrico tramite un debole espediente narrativo) e l’interpretazione (sorprendente) della venticinquenne israeliana Hadas Yaron, imperscrutabile e forse ancor più imprevedibile del protagonista, non riesce a controbilanciare una struttura complessivamente fragile.

In più punti il film si perde in lunghe parentesi musicali: visioni poetiche, talvolta oniriche, che stonano con il tono leggero e umoristico del film. Benché la colonna sonora di Niccolò Contessa, fondatore della band romana I Cani, sia efficace nella costruzione della sfera emotiva del personaggio, il ricorso alla musica sembra avere per Zanasi una funzione non di sospensione del racconto, bensì di completamento. Nel finale la tensione drammatica si risolve in un videoclip, frammento narrativo autonomo e decontestualizzabile sulle note di Just A Habit dei Low Roar, che chiude una commedia forse troppo condizionata dallo scontro tra due personalità mal conciliate (quelle del regista e dell’attore) e che avremmo voluto più omogenea.



La felicità è un sistema complesso
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La locandina del film
La locandina del film


Il regista Gianni Zanasi
Il regista Gianni Zanasi


 
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