Presentato
al Torino Film Festival lo scorso 22 novembre e uscito nelle sale
cinematografiche quattro giorni più tardi, lultimo film di Gianni Zanasi, classe 1965, rivela una
maggiore ambizione del precedente Non pensarci (2007), che pure gli aveva garantito un considerevole successo di pubblico (al
punto da spingere la casa produttrice a ricavarne una serie televisiva). Pur
adattando un soggetto più complesso, il regista emiliano non perde il suo gusto
per la leggerezza, in una commedia sociale che punta a divertire facendo
riflettere. Evitando i clichés del
genere, Zanasi tuttavia confeziona un prodotto dalla narrazione spesso
zoppicante e confusa, ma che trova il suo baricentro nella descrizione di un
personaggio, quello di Enrico (Valerio Mastandrea),
stratificato ed emblematico di quella
rinegoziazione tra pubblico e privato con la quale, a fronte dellattuale crisi,
tanti italiani devono fare i conti.
Il
mestiere del protagonista è più unico che raro: andare dai manager incapaci per
conquistare la loro fiducia e convincerli a rassegnare le dimissioni. Profondamente
convinto della necessità del proprio impegno, Enrico inizia a vacillare dopo la
morte del presidente di unazienda di Trento, con la quale è chiamato a
trattare, coinvolto in un mortale incidente dauto con la moglie. A capo
dellazienda subentrano i figli, giovani idealisti, che contro il parere del CdA
tentano di impedire gli esuberi del personale e limminente delocalizzazione dello
stabilimento in Romania, conquistandosi le simpatie di Enrico e vanificando la
sua missione segreta. Allo stesso tempo, il protagonista deve vedersela con Achrinoam
(Hadas Yaron), giovane israeliana dalle
abitudini bizzarre che il fratello minore (Daniele
De Angelis), fingendo una fuga verso il Chiapas a fianco di guerriglieri
zapatisti, abbandona a casa sua. Dai continui battibecchi tra i due scaturisce,
inevitabilmente, unattrazione che faticherà a dichiararsi.
Una scena del film Mastandrea,
istrionico più che mai, si ritrova alle prese con un personaggio al contempo pragmatico
e stralunato, fedele e doppiogiochista. Sfuggente, poliedrico, non lascia
trasparire la sua reale identità né agli occhi dello spettatore né a quelli dei
suoi colleghi («non capiamo come fai, ma sappiamo che sei molto bravo…») e
neppure ai suoi. A metà tra la seduzione imbranata di Alberto Sordi e laneddotica surrealista di Enrico Montesano, il tutto condito con una buona dose di passività, lattore romano interpreta un eroe contemporaneo, una figura
controcorrente destinata alla sconfitta. Un ruolo non tanto diverso da quello
che lo stesso Mastandrea ha interpretato in Viva
la libertà di Roberto Andò
(2013). Ma se in questultima pellicola la sua intensità performativa era tenuta
sotto il livello di guardia per favorire il virtuoso gioco trasformista di Toni Servillo, nel film di Zanasi lattore
è il mattatore, con lingrato compito di colmare le vistose lacune della
narrazione.
La
fiducia data dal regista a Mastandrea (pari, se vogliamo, a quella che riceve
il suo personaggio dai propri collaboratori) è ampiamente ripagata. Daltronde
le caratteristiche di Enrico sembrano ispirate proprio dalla carriera del suo
interprete: come non pensare al frustrato sindacalista della CGIL di Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008), il cui sincero
desiderio di cambiamento si scontrava con lindifferenza e la derisione da
parte del cosiddetto “paese reale”. La felicità
sembra riprendere la stessa dicotomia.
Una scena del film
Sognatore
e disilluso, Enrico reagisce agli ostacoli con una rabbia che, non riuscendo
mai a concretizzarsi in invettiva, non può che trasformarsi in un disperato e
cieco sarcasmo, spesso involontario, sistematicamente ignorato dai suoi
interlocutori. Il sarcasmo si spoglia di ogni compiacimento, come unarma da
taglio che non colpisce mai il bersaglio, generando effetti comici ma dal sapore
amaro.
La
crisi economica è un tema che cinematograficamente “funziona”: nel cinema
italiano ha ormai dato vita a un filone di genere, e si potrebbe persino
insinuare che dietro linsistenza su questi temi vi sia una scelta di
marketing. Eppure di fronte alla criticità delle questioni affrontate (la
necessità di bilancio vs il diritto
al lavoro, la delocalizzazione nellEst Europa vs il senso di colpa nei confronti di chi perde il proprio impiego)
non possiamo non riconoscere che una visione politica vi sia, nella pellicola,
e che il racconto appassionato della complessità in quanto tale rappresenti, di
per sé, una precisa scelta di campo. Tuttavia il problema maggiore del film è
che spesso questa poetica della complessità si traduce, narrativamente, in
confusione: il legame tra le due vicende raccontate è pretestuoso (Achrinoam
diventa assistente di Enrico tramite un debole espediente narrativo) e linterpretazione
(sorprendente) della venticinquenne israeliana Hadas Yaron, imperscrutabile e
forse ancor più imprevedibile del protagonista, non riesce a controbilanciare
una struttura complessivamente fragile.
In
più punti il film si perde in lunghe parentesi musicali: visioni poetiche,
talvolta oniriche, che stonano con il tono leggero e umoristico del film. Benché
la colonna sonora di Niccolò Contessa,
fondatore della band romana I Cani, sia efficace nella costruzione della sfera
emotiva del personaggio, il ricorso alla musica sembra avere per Zanasi una
funzione non di sospensione del racconto, bensì di completamento. Nel finale la
tensione drammatica si risolve in un videoclip, frammento narrativo autonomo e decontestualizzabile
sulle note di Just A Habit dei Low Roar, che chiude una commedia forse
troppo condizionata dallo scontro tra due personalità mal conciliate (quelle del
regista e dellattore) e che avremmo voluto più omogenea.
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