Lassegnazione
di un riconoscimento importante come la Palma dOro porta sempre con sé uno
strascico di polemiche, stroncature, retropensieri. Il dibattito seguito alla
premiazione, al 62° Festival di Cannes, di Dheepan
del francese Jacques Audiard ha però
nettamente diviso pubblico e critica, soprattutto in madrepatria. A un
entusiasta Jean-Dominique Nuttens,
che su «Positif» ha salutato il film come un capitolo di “grande cinema
spettacolare”, ha fatto da contraltare la stroncatura netta di Stéphane Delorme dei «Cahiers du Cinéma»
(eco di vecchie querelles?), che
senza mezzi termini ha definito il film una “presa in giro”. Certo, la scelta
della giuria ha il sapore di un doveroso omaggio alla carriera: per due volte,
nel 2009 e nel 2012, il regista si era visto sottrarre lambito premio da Michael Haneke. Eppure Dheepan, pur inserendosi coerentemente
nella filmografia audardiana, sembra fare uno scatto in avanti, ritrattando e
rimettendo in discussione alcuni temi dei suoi precedenti lavori.
Dheepan
(Jesuthasan Antonythasan) è un ex militante
delle Tigri Tamil, gruppo indipendentista dello Sri Lanka del nord, emigrato a
Parigi dopo aver perso nel conflitto tutti i suoi cari. Accompagnato da una
finta famiglia, la moglie Yalini (Kalieaswari
Srinivasan) e la figlia Illayaal (Claudine
Vinasithamby), entra inizialmente nel racket
dei venditori ambulanti, poi trova lavoro come giardiniere-tuttofare in una
grigia banlieue. I continui sforzi di
integrazione con la turbolenta e disagiata comunità locale si dissolveranno quando,
a seguito di una sparatoria tra gang rivali, il protagonista deciderà di
delimitare e difendere militarmente il proprio palazzo, lasciando riemergere un
passato impossibile da reprimere.
Una scena del film
Modellata
sul topos collaudato del reduce di
guerra alle prese con il proprio rimosso, la figura di Dheepan, interpretata da
un attore non professionista (un combattente Tigri Tamil emigrato in Francia
per diventare scrittore), porta agli estremi le caratteristiche del
personaggio, in una schizofrenica contrapposizione tra la figura di tenace e
rispettato guerrigliero e quella di pacifico e remissivo tuttofare, sottopagato
e vessato dai bulli locali. Il netto stacco di montaggio dellincipit, in cui sulle note del Cum Dederit di Vivaldi si passa senza
soluzione di continuità dai paesaggi cingalesi alle strade parigine dove il
protagonista vende cianfrusaglie, assume un senso quasi programmatico, come di
una cesura radicale, di un personaggio da ricomporre. È questa lacerazione
interna al protagonista a costituire il motore di tutta la narrazione, che a
ben vedere non è altro che un continuo tentativo di compromesso tra due personaggi
che indossano la stessa maschera, mediazione che non può avere luogo se non attraverso
il ricorso alla violenza.
La
memoria della guerra – e qui sta una delle intuizioni più brillanti del film –
non solo si traduce essa stessa in guerra, ma porta con sé anche i residui del
Dheepan militante, soprattutto per quanto riguarda i legami con la famiglia,
che egli cerca ostinatamente di ritessere in quella fittizia. Ogni vertice del
triangolo madre-padre-figlia ha perso gli altri due e lesasperazione della
finzione identitaria (sembrare una famiglia reale, parlare francese,
socializzare con i propri coetanei) si risolve, nella seconda parte del film,
nellesatto opposto. Come e ancor più che in Tutti i battiti del mio cuore (2005), la pistola ha qui una
funzione quasi suppletiva rispetto alla parola, una extrema ratio a cui i personaggi ricorrono non perché costretti
dalle circostanze, ma in quanto drammaticamente incapaci di dialogare. Esemplare,
in questo senso, il rapporto di amicizia che Yalini crede di aver intessuto con
il galeotto Brahim (Vincent Rottiers),
i cui toni inizialmente distensivi e amichevoli divengono repentinamente, dopo
lo scoppio del conflitto, minacciosi e ricattatori. Significativo anche lo
sfogo del protagonista, che dopo un pranzo con i vicini chiede alla sua finta
moglie: «Ma a te fanno ridere? Io capisco le loro parole, capisco tutto, ma non
capisco perché ridono…».
Una scena del film
Lesito
più radicale della poetica di Audiard sta tutto in questi personaggi
ingabbiati, imprigionati, sia che si tratti di una vera e propria galera – come
ne Il Profeta (2009) – sia che si
tratti di una periferia abbandonata a sé stessa (in tutto il film non si vede
nemmeno una volante della polizia). La banlieue
che lautore mette in mostra, ironicamente chiamata Le Pré (letteralmente “Il
prato”), è popolata di figure tragiche, uomini che gridano vendetta pur sapendo
benissimo che nessuna vendetta potrà mai avere luogo. Non sappiamo da cosa abbia
origine la sparatoria che convincerà Dheepan ad armarsi; ciò che più conta è
che essa arriva allimprovviso, inaspettata, tellurica, eppure largamente
attesa e prevedibile. Gli abitanti di Le Pré sono mine vaganti, concentrati di
azione inespressa, ordigni pronti a deflagrare in qualsiasi momento; sono il
risultato di passati insondabili, di questioni irrisolte, che trovano nella
sopraffazione e nel possesso lunico modus
vivendi possibile. Lo stesso concetto di amore, che ne Un sapore di ruggine e ossa (2012) era semplice desiderio di se stesso, qui si involve ulteriormente, diventa puro partito preso: Dheepan fa di
tutto per difendere una famiglia non sua, per amare una moglie non sua, in una
possessività che più che allamore è simile, anche qui, alla difesa di un
territorio, al contempo geografico e affettivo.
Pur
tenendosi alla larga da qualsiasi velleità documentaristica, Audiard interpreta
con sicurezza e cognizione di causa il disagio e le dinamiche sociali di certe
zone di Parigi. La sua banlieue si
smarca dallo stereotipo cucitole addosso dal cinema francese (quello de Lodio di Mathieu Kassovitz, per intenderci) per farsi luogo tanto astratto e
asettico negli esterni quanto caotico e asfittico negli interni. La
claustrofobia dei primi piani, dei dettagli, dei grandangoli, non è altro che
una trasposizione poetica della difficoltà di Dheepan di “abitare” la sua nuova
identità. Lesterno reale dellappartamento diventa così esterno mentale, e la
delimitazione e la difesa di un territorio assumono, in questo senso, un forte
connotato prossemico.
Guardando
al cinema di Sam Peckinpah, in Dheepan la violenza non solo si autogenera,
ma trova in sé contemporaneamente la causa e la conseguenza della propria
esistenza. Il coinvolgimento più profondo (e la tesi più audace) del cinema di
Audiard sta tutto qui: indagare il rapporto individuo-società in termini di
violenza. È la violenza che offre al personaggio le occasioni e gli strumenti
per ritagliarsi un proprio spazio nel mondo. La costrizione sociale diventa
costrizione interiore, violenta e cieca barbarie che il protagonista affronta
volontariamente e coscientemente.
Prendendo
in prestito stilemi e tecniche di racconto di certo cinema engagé, Audiard ne stravolge i presupposti e costruisce un potente action movie che non abdica allistanza
politica ma la rafforza. I personaggi di Dheepan
non sono né vittime né carnefici: sono prima di tutto uomini soli,
frustrati, sofferenti, ognuno con il proprio passato e le proprie colpe da
estirpare, ognuno con la propria battaglia personale da combattere.
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