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Nella Capri degli anni Cinquanta si cantano le debolezze umane

di Layla Dari
  Così fan tutte
Data di pubblicazione su web 04/11/2015  

Siamo alla prima. Il teatro è gremito. La platea arriva fino ai bordi di una piscina. Sul fondo della vasca è nascosta l’orchestra. In scena un’atmosfera balneare, elegante e glamour, anni Cinquanta. L’ambientazione partenopea è stata mantenuta ma trasportata sulla bellissima terrazza di una villa nobiliare: potremmo trovarci a Capri, a Ravello o a Positano. Dalle scalette della piscina, in successione, salgono i personaggi con indosso i loro costumi da pin-up e accappatoi bianchi, scandendo con esercizi ginnici i dialoghi cantati.

Comincia così il dramma giocoso delle simmetrie in cui le coppie originali composte da Fiordiligi e Guglielmo e da Dorabella e Ferrando sono perfettamente speculari con le voci soprano-baritono e mezzosoprano-tenore che in uno scambio di coppie si rimescolano dando vita al canone armonico soprano-tenore e mezzoprano-baritono. Don Alfonso e Despina, eccellentemente interpretati da Omar Montanari e Giulia Semenzato, come maliziosi e disincantati registi in sintonia con le geometrie musicali tirano le fila della vicenda incitando i protagonisti a tentare nuove unioni in nome di regole sociali meno rigorose.

Esemplari le interpretazioni dei protagonisti, a partire da Carmela Remigio, Fiordiligi sul palcoscenico, la quale già dall’aria Come scoglio immoto resta lascia intravvedere un carattere deciso e una virtù ben più salda rispetto all’animo giocoso della sorella, impersonata da Anna Goryachova. Altrettanto intense le prove dei giovani ufficiali Juan Francisco Gatell (Ferrando) e Simone Alberighi (Guglielmo) i quali, a partire dall’aria Soave sia il vento, compiono un vero e proprio viaggio dentro loro stessi, liberandosi di tutte le costrizioni formali e dando il via a una sorta di introspezione che coinvolgerà – e trasformerà – anche le altre due protagoniste.

Un momento dello spettacolo. ©Pietro Paolini
Un momento dello spettacolo
© Pietro Paolini

Gli uomini scommettono sulla fedeltà delle loro amate e, complici Don Alfonso e Despina, espongono le loro idee sulla devozione, esortando le future spose a «divertirsi un poco, e non morire di malinconia». Il risultato è uno scambio delle coppie con tanto di finto matrimonio e colorato banchetto. Un volta scoperto l’inganno gli accoppiamenti tornano a essere quelli iniziali, ma alla fine dei due atti nessuno dei quattro personaggi avrà un’idea chiara del proprio futuro, non evidenziandosi una risposta definitiva al drammatico quesito che è stato loro posto: è vero che così fan tutte? O sarebbe meglio dire così fan tutti? La maestria di Lorenzo da Ponte sta nel nascondere al pubblico chi inganna e chi viene ingannato; solo la musica, in questa edizione diretta da Roland Böer, suggerisce squarci di verità, assecondando attraverso la vena mozartiana lo stato d’animo dei personaggi, soprattutto di quelli femminili. Tuttavia è proprio l’ambiguità del libretto a rendere l’opera di una sorprendente attualità, una vera e propria indagine su sé stessi capace di far riflettere sul mistero dei sentimenti.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Pietro Paolini

Lorenzo Mariani torna nella città in cui è professionalmente nato e firma l’allestimento del gioiello settecentesco di Mozart trasportandolo – come evidenziato all’inizio della recensione – al nostro secolo, con bicchieri di Martini e sigarette in scena: un ritratto della società chic allestito quale naturale prosieguo della trilogia buffa. Se infatti il Don Giovanni era stato da lui ambientato negli anni Venti del Novecento, Così fan tutte è stato spostato nel secondo dopoguerra, in attesa delle Nozze di Figaro che verranno trasposte al giorno d’oggi. La modernità di questo allestimento è quasi interamente agganciata all’aspetto comico della vicenda, infarcita di gaffes d’ogni tipo, come la trovata, originale ed estremamente buffa, di trasformare i nobili corteggiatori albanesi in dondolanti maragià indiani, resa per altro magnificamente dai costumi di Silvia Aymonino. Altrettanto divertenti le coloratissime scene del banchetto finale, proposto alla maniera di una Bollywood caotica e kitsch, supportato dal coro che irrompe in platea al suono della marcia militare  prendendo parte alla festa.

La nuova produzione dell’Opera di Firenze è stata accolta complessivamente bene, anche se il regista ha ricevuto qualche contestazione dal pubblico alla fine del primo atto; probabilmente perché il suo lavoro si colloca nel filone delle regie contemporanee in cui talvolta risulta difficile collegare ciò che viene cantato con quanto si inscena sul palco. Ma alla fine l’allestimento rispetta il libretto di Da Ponte che si prende gioco dei costumi e dei moralismi dell’epoca, mettendo in evidenza le debolezze della carne e il doloroso apprendistato delle ragioni umane attraverso una buona dose di cinismo e un pessimismo niente affatto celato.




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