Tra le
misteriose pieghe dellesistenza umana sannida la vocazione a viaggiare, un
passaggio necessario per la conoscenza di se stessi mediante il confronto con
il mondo: si parte, senza poter prevedere cosa accadrà e senza più sapere cosa
ci si lascia alle spalle. Alla fine, mentre si diventa migranti e mentre cresce
il desiderio di tornare, lindividuo si ritrova profondamente cambiato. Nel viaggio
predomina lincertezza; è unazione che stravolge limmaginazione perché,
mentre si procede, si smarrisce il senso del tempo cronologico e si precipita
nel tempo assoluto, quello del mito. Allora, si aspira a trovare un approdo,
una meta, una patria, una casa dove sia possibile vivere la quotidianità. È
questo il destino di Odisseo che, come canta il poema di Omero, percorre i mari pensando al ritorno; pertanto, non
meraviglia se le vicende di un eroe tramutato in esule risultino consone ai
segnali della contemporaneità.
Un momento dello spettacolo © Franco Lannino / Studio Camera Lungo tale
traccia procede Odissea – Movimento n. 1,
studio liberamente tratto dal poema di Omero, lultima prova drammaturgica
di Emma Dante, rappresentata, dopo
lesordio nel luglio scorso a Palermo, nellambito del 68° ciclo di spettacoli
classici al Teatro Olimpico di Vicenza, festival del quale la Dante è direttrice
artistica. La regista continua a frequentare con particolare attenzione alcuni “movimenti”
significativi del tracciato omerico: laveva già fatto nella passata stagione,
sempre allOlimpico, scrivendo e recitando unintrigante riflessione sulla
teatralità, intitolata Io, Nessuno e
Polifemo – intervista impossibile. Stavolta, elabora unefficace immersione
nella tematica della lontananza con la collaborazione degli allievi della
Scuola dei Mestieri dello Spettacolo del Teatro Biondo di Palermo.
In scena vi sono,
infatti, ventidue giovani attori che agiscono allunisono sullo schema di un
racconto parodistico, governato dallingenuità del gioco e dallenergia del
loro temperamento. Danzano, cantano, si travestono, si spogliano e si
mascherano, definendo un giovanile ordito drammatico, in linea con linterminabile
tela che Penelope tesse e disfa giorno dopo giorno. Sta proprio lì in quel
tessuto nero e trasparente, un sudario generato dai telai che le fide ancelle
muovono senza sosta per contrastare il trascorrere dei giorni, il nucleo
centrale della messinscena. Gli interpreti costituiscono il coro di un
delirante e avvincente componimento satiresco. Mimano le orge dei Proci, esseri
«maleducati, vili, rozzi e volgari»
– come li descrive lautrice – che insozzano le stanze del palazzo, deridono
lingenuo Telemaco e assediano linflessibile Penelope. Somigliano agli attuali
ragazzi del branco che ruttano, spernacchiano, si masturbano, si sfidano,
rimarcando con il loro pasoliniano parlato in dialetto siciliano
linsensibilità di chi non sa sognare. Sogna, invece, Telemaco, sospinto dal
soffio benigno di Atena a navigare in cerca del padre; sogna la regina
solitaria, che non dimentica le carezze del consorte, i suoi abbracci, la sua
autorità; sogna la nutrice che vorrebbe fermare lo slancio di Telemaco verso
lavventura; sogna energicamente Odisseo, imprigionato dai filtri delloblio
preparati da Calipso, la dea che, a suo modo, sogna di assaporare leternità
delleros tra le braccia delleroe smarrito.
Un momento dello spettacolo © Franco Lannino / Studio Camera
La maestria di
Emma Dante emerge dalla capacità di governare una rappresentazione che esalta
lenergia fisica dei suoi sorprendenti allievi: i loro corpi in movimento tracciano
una danza che percorre incessantemente la scena vuota fino a renderla abitata.
Il canto, che si basa su nenie ideate e musicate dagli stessi esecutori, a
cominciare da quelle di Bruno Di Chiara,
autore di due trascinanti canzoni, Rapimi
la porta e TerrAmare, si
trasforma in ritualità: diventa irruente, quando la coralità allude al violento
battere alla porta di una donna che non intende arrendersi. Altrettanto esemplare
è la scena in cui savvolge e si srotola il lunghissimo velo-sudario che sembra
seppellire la protesta di Penelope. Il coro simula il vasto orizzonte, e basta
lacqua di una bacinella in cui i protagonisti immergono, di volta in volta, il
volto e le mani, per alludere alle insidie del mare.
Allimprovviso,
le voci modulano una filastrocca che segnala la fine delladolescenza e
lingresso nelletà delle responsabilità. E, poi, gli attori si agitano al
ritmo del rap, ondeggiano al suono di
musiche new age (Close Cover di Wim Mertens), recuperando reminescenze dei maestri del teatro-danza;
volano sulle onde del mare, tuffandosi spensierati, mentre le strisce di tela
che simulano le onde si mutano in pagine bianche sulle quali scrivere le
lettere che Penelope invia a colui che non ritorna. Nel breve arco dello
spettacolo ciascun protagonista modifica la propria fisionomia, persino gli dei
dellOlimpo che simulano i comportamenti degli uomini. Infine, linsieme di
corpi seminudi resta allineato in un ordito di braccia proteso verso linfinito,
in un «movimento»
che riconduce gli esseri verso le proprie origini.
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