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Sangue del mio sangue

di Sara Mamone
  Sangue del mio sangue
Data di pubblicazione su web 14/09/2015  

Avremmo voluto che il film di Marco Bellocchio ci piacesse. Avremmo voluto che uno dei grandi del nostro cinema ci desse un’opera convincente e suggestiva come le sue ultime, come la bellissima “ri-creazione” della nascita del fascismo e delle sue patologie in Vincere. Abbiamo sperato che potesse affascinare pubblico e critica e avere finalmente a Venezia, dopo quello sempre un po’ malinconico alla carriera, il maggior premio con quella che aveva preannunciato come “una resa dei conti”. E forse una resa dei conti il film lo è, ma una resa dei conti assolutamente personale, nel senso di privata, sua, con i suoi fantasmi, le sue memorie, il paese della sua infanzia, i suoi parenti, in primis i suoi figli. Che ogni opera d’arte sia comunque autobiografia lo sappiamo da tempo e quindi non è certo l’eccesso autobiografico che disturba in un’opera che ha proprio nell’autobiografia quel poco di emozione che siamo riusciti a provare. Il film nasce alla fine di un lungo e proficuo cammino insieme didattico e memoriale. Tornato ormai da molti anni a Bobbio, paese della sua infanzia ormai depurato nella memoria da emozioni troppo violente, il regista vi ha impiantato un fertilissimo laboratorio estivo che piano piano gli ha fornito materia per una originale stagione creativa di cui ha fatto protagonisti i familiari più vicini e gli attori più familiari con i quali ha costruito un’originalissima forma di cinema “privato” culminata nelle uscite pubbliche del work in progress con le belle e compiute puntate di Sorelle e Sorelle Mai.

Una scena del film.
Una scena del film

Ora quell’amalgama di certezze e di rassicuranti presenze pare avergli dato l’ispirazione per affrontare la Storia, la grande Storia, benché a misura di Bobbio: e gli ha permesso di costruire un dittico tra passato seicentesco e presente attualissimo. Ma non è che il dittico funzioni, tant’è vero che, pur nella proclamata libertà creativa, il regista cerca poi una sorta di ricomposizione finale ritornando indietro, al tempo e al personaggio che ha costituito la nervatura del racconto maggiore: Federico. Il legame è forse da cercare, più che nelle vicende umane, nello spirito dei luoghi. Comunque la storia, c’è, eccome, e nasce per diretta ispirazione dalla manzoniana monaca di Monza di cui Benedetta, monaca murata nella prigione convento di Santa Chiara a Bobbio, è la versione domestica. Benedetta forse non è una strega ma Fabrizio, prete e fratello gemello di Federico, si è ucciso per amore di lei e non può essere sepolto in terra consacrata a meno che risultino chiari i legami della giovane suora con il demonio e quindi Fabrizio venga in certa misura riabilitato. La famiglia di Federico è potente e tutto il clero che gravita attorno a questa vicenda allestisce per lei un percorso che la condurrà, innocente, alla condanna e quindi a essere murata viva. Non prima però di aver acceso anche il cuore del gemello di cui perderemo le tracce e che ritroveremo soltanto, ormai vecchio cardinale, nell’epilogo quando, richiamato in paese dall’ultimo desiderio della murata viva che aveva vissuto decenni in santità, morirà ai piedi di quel muro, mentre Benedetta, ridiventata giovane e bellissima, uscirà da quel muro finalmente abbattuto.


Una scena del film.
Una scena del film

Le scene della cerimonia dell’immuratio e della simmetrica demolizione sono indimenticabili mentre anche stilisticamente la seconda parte ripete molti moduli consueti, come consuete sono le ossessioni per le società segrete (descritte con ben altro vigore ne L’ora di religione) e i fastidi per una società inerte e protetta in cui la coscienza sonnecchia lasciando al malaffare le redini di ogni cosa. L’ispiratore è questa volta il Gogol’ de Le anime morte ma il regista sembra andare a tentoni, si fa quasi prendere la mano dalla sua famiglia di attori che sembrano sopravanzare la fragile vena narrativa, divisi nei due blocchi ugualmente sgradevoli dei potenti che operano nell’ombra e degli stupidi che abitano la piazzetta e i bar del paese. Non manca certo lo stile, né alcune pagine visive memorabili quali la già ricordata scena dell’imprigionamento della monaca, o la cristallina prova d’innocenza nelle acque limpide del fiume, o i misteri del castello-prigione. Né mancano gli impeccabili consueti collaboratori, a cominciare dalla fotografia di Daniele Ciprì, da Roberto Herlitzka, Toni Bertorelli, Fausto Russo Alesi. Tra i più giovani vanno citati per ragioni opposte Alba Rohrwacher, presenza ormai quasi inevitabile ma sempre misurata e convincente, e Filippo Timi a nostro avviso completamente fuori registro. Lasciamo in fondo il protagonista assoluto, Pier Giorgio Bellocchio, del quale un film così domestico non avrebbe potuto fare a meno.



Sangue del mio sangue
cast cast & credits
 




La locandina del film.
La locandina del film




 
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