Nel
cuore dellAfghanistan un battaglione danese capitanato dal comandante Claus M.
Pedersen (Pilou Asbæk) affronta le
milizie talebane in un sanguinoso scontro a fuoco. Il comandante, atteso in
patria dalla moglie Maria (Tuva Novotny)
e dai tre figli, prende la decisione, contestata da alcuni dei suoi
commilitoni, di bombardare larea di tiro. Scavando tra le macerie, i soldati
rinverranno undici corpi di donne e bambini afghani. Rientrato a casa, Pedersen
dovrà vedersela con il tribunale di guerra danese, che lo accuserà di omicidio
plurimo, chiedendone la condanna immediata.
A tre anni dal Gran Premio della Giuria per il
potente thriller A Hijacking, nonché dalla nomination allOscar come
co-sceneggiatore per Il sospetto di Thomas Vinterberg, Tobias Lindholm torna in Laguna con un film, diciamolo subito, che ha
incassato unaccoglienza tiepida. Le scene di battaglia iniziali, pur
ricalcando i canoni estetici del genere, in linea di massima funzionano: a unazione
credibile, serrata, nervosa, si alternano senza troppa retorica gli sforzi di
cooperazione tra il battaglione danese e i civili locali. Seppur appesantito da
una buona dose di facile sentimentalismo familiare (il bambino che chiede in
continuazione «quando torna papà?» e la mamma che risponde «presto, vedrai…»),
il film sembra ingranare: stabilisce una gerarchia dei personaggi, individua un
nucleo drammatico (luccisione di un soldato ventunenne getta i soldati nel
panico) e apre la strada a tutta una serie di possibili sviluppi (la paranoia
di diventare facile bersaglio del nemico, la coscienza della casualità della
morte, etc.). Nulla di eccessivamente originale, ma è pur sempre un inizio.
Una scena del film
È nella seconda parte, dopo il congedo forzato di Pedersen,
che le premesse di pura azione del war
movie iniziale evaporano, lasciando spazio a un verboso e asettico courtroom movie. Non si capisce bene se
lintenzione del regista sia quella di rendere ambiguo un personaggio apparentemente
altruista e a tutto tondo come quello del comandante, o sia piuttosto quella di
puntare il dito sul problema del reintegro dei soldati in patria mostrando come,
dopo aver rischiato la vita propria e altrui, molti di essi vengano messi alla
berlina per crimini di guerra imposti dalle circostanze.
La persistenza di un fastidioso sottofondo
sentimental-familiare intorno alla figura del protagonista fa propendere per la
seconda ipotesi. A War, in questo
senso, si presenta come il più classico dei film di guerra a carattere
nazionale: una sorta di American Sniper
sulle sponde del Mar Baltico. Va pur detto che nel contesto scandinavo lattenzione
verso tali tematiche è meno polarizzata da ideologie politiche che non nellEuropa
meridionale. Elogiare loperato delle truppe danesi in Afghanistan non è percepito
come un atto reazionario in sé; tutto dipende dal discorso che se ne intende
sviluppare. Al di là delle opinioni in merito, il film è un prodotto a uso e consumo
interno, un unicum nella pur ricca e
variegata produzione cinematografica nazionale degli ultimi tempi.
Una scena del film
Se lanalisi del testo cinematografico non offre spunti di interesse
(e daltronde è utile insistere sui difetti del film), può invece essere
proficua una riflessione sul ruolo di questa pellicola nel Festival. Come può
un prodotto simile aver superato la selezione, estremamente competitiva, della
sezione Orizzonti? La spiegazione va
forse cercata nella fiducia incondizionata nel brand. Il Dansk Film Institute, vera e propria macchina da guerra
(appunto) da almeno ventanni a questa parte, ha sempre dimostrato intuito e
coraggio nel selezionare i propri prodotti e, soprattutto, ha investito
capitali economici e intellettuali nella distribuzione dei propri film nei
festival e nelle sale di tutto il mondo. Oltre ai vecchi leoni Lars Von Trier, Thomas Vinterberg e Kristian
Levring, tuttora ruggenti, il DFI è stato capace di promuovere talenti come
Susanne Bier, Joshua Oppenheimer, Anders Thomas Jensen, Per Fly. Senza contare le
numerose coproduzioni internazionali: una realtà decisamente sorprendente per
una nazione come la Danimarca che conta meno abitanti della Campania.
Legittimamente i produttori hanno puntato tutto sul mercato
interno, con un prodotto convenzionale che facesse presa sullaudience danese,
senza rinunciare alla piattaforma di lancio dei grandi festival cinematografici
europei, dove nel corso degli anni il DFI si è costruito una certa reputazione
(ogni distributore, come è normale, sfrutta i canali che conosce e nei quali è
conosciuto). Nellimbarazzo di dover escludere dalla competizione lagunare un
film danese, la giuria della Biennale ha deciso di relegarlo alla sezione Orizzonti, depositando pile di eleganti flyers in sala stampa e contando su un
pubblico interessato, alla ricerca di un nuovo In a better world. Problema risolto: A War è un film di cui probabilmente non si parlerà se non allinterno
dei confini patrii. A ognuno il suo, e voltiamo pagina.
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