Lottimo esordio di Piero Messina, giovane regista siciliano assistente di Paolo Sorrentino, non si giova della
presentazione in concorso a un festival così prestigioso come quello di Venezia
dove un passaggio nella sezione Orizzonti sarebbe stato forse più a sua misura.
Perché si tratta di un film di forte personalità, però ancora vittima di
squilibri che una prossima maturità potrà senzaltro evitare. La storia è
ispirata da lontano a due novelle di Pirandello, I pensionati della memoria
(1914) e La camera in attesa (1916), confluite poi nel più noto dramma La vita che ti diedi concepito per Eleonora Duse e poi rappresentato nel
1923 da Alda Borelli. Del dramma
Piero Messina, semplificando la compiaciuta complessità “pirandelliana” prende
solo il nucleo ispiratore che vede due donne, la madre e la fidanzata misurarsi
con lassenza del figlio e amante. Tutto è trasposto ai nostri giorni anche se
resta un sapore di Sicilia ancestrale che alla fine farà inciampare il regista
nella trappola di una consunta antropologia (ed è questo forse il più grave
errore di giovinezza).
Una scena del film In
un clima sospeso che molto, troppo (ed è forse questo laltro,
comprensibilissimo errore di giovinezza) deve al maestro Sorrentino e alle sue
fredde geometrie visive, vive una donna ancora giovane, Anna, reduce da un
lutto improvviso. Che presto, data la fervida partecipazione di parenti e
vicini, si rivela come il più terribile: la morte del figlio. Anna sospende la
sua vita, rintanata nella sua stanza, finché arriva allimprovviso Jeanne, la
fidanzatina parigina del giovane Giuseppe che lha invitata a casa per farle
vedere i luoghi della sua infanzia e presentarle la madre. Anna, pietrificata
dal dolore, non reagisce alla presenza dellintrusa e quando decide di
avvicinarla le nasconde la morte del ragazzo. Poiché Jeanne non sospetta nulla
la madre può vivere ancora lillusione che il ragazzo sia ancora in vita
parlando con lei come se effettivamente dovesse tornare da un momento allaltro.
Tra le due nasce una curiosa solidarietà che permette ad Anna di portare avanti
linganno a lungo.
Una scena del film
Troppo a lungo. Il film pian piano si slabbra,
latmosfera un po surreale diventa francamente irragionevole e lo spettatore
man mano esce dal gioco. Alla fine non è più disposto a perdonare. E il ricordo
dinfanzia del regista, catturato da una delle tante processioni siciliane, non
riesce a dare senso ed emozione a un finale che forse vuole rendere insieme
omaggio alla Bergman e al Rossellini di Viaggio in Italia. La stoffa del regista comunque cè e cè tutto
il tempo per una compiuta maturazione anche perché la guida degli attori è
ferma e abile: non solo, naturalmente, per il ruolo di assoluta protagonista di
Juliette Binoche, degnissima
candidata al premio per la migliore attrice, ma anche nella guida della giovane
Lou de Laâge, impegnata in un ruolo
scivoloso ma sempre ricondotta nellalveo di una convincente ingenuità.
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