È un buon film di cui non abbiamo ben capito il
senso, questo Marguerite di Xavier Giannoli, regista francese di
solida cultura letteraria, confermata qui da una sceneggiatura ben congegnata (condivisa con Marcia Romano) e da dialoghi eleganti e nitidi. Pluripresente alle
edizioni del festival di Cannes è certamente regista di qualità e ottimo
direttore degli attori. Che qui sembrano uscire tutti da una comune, affiatata
compagnia teatrale. Ed è infatti il teatro il protagonista assoluto di questa vicenda, il teatro nella
sua forma “estrema” dellarte lirica per la quale la protagonista vibra in
tutto il suo essere. Tranne forse nelle corde vocali; poiché la ricchissima
baronessa Dumont, che negli anni 20 riunisce il bel mondo parigino alle sue
serate benefiche di musica, è terribilmente stonata, non acchiappa una nota ma
trova intorno a sé costante approvazione da una società di ipocriti parassiti
dalto bordo. Lei vive la sua passione in maniera totale, spendendo cifre
vertiginose in costumi dopera, facendosi fotografare nelle canoniche ed
improbabili vesti delle eroine verdiane e wagneriane e raggiungendo i vertici
di una dedizione senza logica.
Una scena del film
Ma
è la logica la forza vitale o è la passione, sia pure irragionevole, a dare
senso alla nostra vita? In una articolata pièce
bien faite, dove tutti recitano al meglio, a cominciare dalla delicata,
commovente e smarrita Catherine Fort,
si snoda la trama del passaggio da unillusione domestica (tutto sommato
gestibile da un marito fedifrago e da un maggiordomo protettivo) a unambizione
pubblica (chiaramente ingestibile e destinata a un tragico epilogo). Tutti
continuano a recitar bene al loro posto: oltre al marito e al maggiordomo, il
giovane giornalista cinico e mondano che con un suo interessato articolo
laudativo ha scatenato le ambizioni esibitorie di Marguerite, il giovane soprano
promessa di una lirica moderna e rinnovata, lamante del marito, linevitabile
tenore italiano grasso e spompato a cui lei si affida per la preparazione del
pubblico recital.
Una scena del film Tutto
scorre come di dovere, oliato e divertente, anche un po commosso ma pian piano
si desidera una via duscita. Ed è la via duscita a non convincere, in questo
bel castello di carte in cui le convenzioni di una società paiono quanto meno
imbrigliate dalloriginalità della protagonista. Ma se alla fine tutto si
conclude in una specie di clinica psichiatrica che di fatto sanziona il
comportamento della donna come follia, che senso ha il
cammino fin qui percorso? La
protagonista è una povera spostata e tutti i bei discorsi filosofici sulla
necessità vitale dellillusione vanno a farsi friggere. Ed è un peccato.
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