Milano, 25 settembre 1967: quattro rapinatori professionisti
(Adriano Rovoletto, Donato Lopez, Pietro Cavallero e Sante
Notarnicola) assaltano il Banco di Napoli di largo Zandonai, venendo colti
in flagrante. Nella fuga dalla polizia, con conseguente sparatoria ad altezza
duomo, i morti sono quattro, una ventina i feriti: è lultima delle folli scorribande
di quello che resta della banda Cavallero, operante tra Milano e la periferia
piemontese, e che si è macchiata di venticinque rapine a cavallo tra il 1960 e
il 1967, talvolta con addentellati politici. Renato De Maria ripercorre le vicende della gang, convinto, come dichiara, che «lintreccio tra crimine e
trasformazione sociale» sia un filtro fondamentale per capire meglio la nostra
identità e «le trasformazioni sociali che hanno tumultuosamente cambiato il
volto della nostra nazione».
Presentato nella sezione Orizzonti,
Italian Gangsters è un buon esempio italiano
di mockumentary fatto degli elementi
costitutivi di un ipotetico documentario televisivo classico, con interviste agli
artefici interpolate a immagini di repertorio. I banditi, per lo più in primo
piano, a sfondo nero e con unilluminazione da set (quindi puramente cinematografici),
sono interpretati da attori professionisti: su tutti spiccano le performance di
Luca Micheletti, che bene interpreta
la redenzione post-carceraria di Luciano Lutring, e di Aldo Ottobrino, un Pietro Cavallero colto, pragmatico e militante
politico, il cui background allinterno
del P.C.I. serve al regista per sottolineare come lhumus nel quale germogliavano le associazioni criminali spesso corrispondeva
proprio allattivismo militante
degli anni 60, di cui rappresentava certo una deviazione, ma con il quale
condivideva ideali di liberazione e di auto-emancipazione («eravamo proletari e
comunisti», ha continuato a sottolineare Notarnicola a distanza di anni).
Una scena del film
La finzionalità delloperazione, oltreché dallo spiccato
accento locale degli intervistati, è sottolineata dallevidente slittamento
temporale in atto: attori di mezza età interpretano personaggi che sembrano non
averne alcuna, arrivando nel finale addirittura a fare il bilancio della
propria vita terrena come se cessassero di esistere proprio nel momento in cui
la macchina da presa ne testimonia e certifica la biografia. I banditi della
banda Cavallero diventano quindi immagini del passato, ectoplasmi (azzeccata,
in questo senso, la scelta di desaturare pesantemente limmagine): il medium cinematografico si ritrova
prepotentemente ad essere, tramite il proprio potere mitopoietico, una forza di
contrasto alla morte mediante lapparenza, creando quello che André Bazin definiva «un universo
ideale a immagine del reale e dotato di un destino temporale autonomo».
E proprio di questa mitopoiesi del bandito i membri della gang sembrano essere vittime, uomini il
cui mito era stato alimentato dai media a tal punto da coinvolgere loro stessi.
«Mi chiamavano il Dillinger bolognese», racconta il finto Ezio Barbieri, sesto
elemento della banda: «non so se fossi allaltezza, ma certo mi piaceva!». NellItalia
del boom economico, fortemente mediatizzata e dove linformazione – e
soprattutto la cronaca nera – aveva un carattere sempre più onnipervasivo, i
soprannomi dei banditi hanno il sopravvento sui nomi, i personaggi sulle
persone, e per documentare lesistenza delle stesse non resta che affidarsi
allimmagine falsa (mock, appunto).
Altrettanto, se non più, interessante è il
secondo piano di messinscena: ripercorrere i fatti realmente avvenuti non solo
attraverso immagini documentarie di repertorio (pescate negli archivi dellIstituto Luce e nelle Teche Rai), ma per larghissima parte
attraverso altre messinscene, frammenti di film italiani di genere (selezionati
allinterno della library di Raro
Video): questi vengono totalmente
de-contestualizzati e adattati alla nuova logica narrativa. E così, ad esempio,
il nido familiare di uno dei gangster diventa quello di Gian Maria Volonté in La
classe operaia va in paradiso di Elio
Petri (1971); le immagini del lavoro in fabbrica quelle di Mimì metallurgico di Lina Wertmuller; gli accerchiamenti
della polizia quelli di Milano calibro 9
di Fernando Di Leo (la cui trilogia,
daltronde, era apertamente ispirata alla figura di Luciano Lutring). In tutti
questi esempi, peraltro, il regista opera un ulteriore slittamento temporale (anche
se solo di un decennio), quasi a voler astrarre la narrazione dal contesto
socio-politico dellItalia di allora, per dargli i contorni di una parabola, di
un racconto morale.
Una scena del film Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo
Merito indiscusso del film è quello di riflettere e far
riflettere sulle infinite potenzialità espressive offerte dal found-footage, tecnica fortemente
stimolata, nel cinema come negli audiovisivi, sia dalla codificazione numerica
dellimmagine digitale che dalla diffusa riduzione dei budget a disposizione.
Detto altrimenti, il film ci suggerisce come, e in quale misura, il found-footage da semplice espediente
comunicativo sia capace di costituirsi come retorica, o meglio, di aprirsi a
molteplici retoriche in virtù della propria capacità di stabilire infinite
connessioni col tessuto narrativo che lautore, o il regista televisivo, cerca
di ricreare. In una scena del film, ad esempio, Paolo Casaroli racconta della
sua liberazione, nel 1964, dopo sedici anni di carcere, e di come forse stato
colpito in particolare dallo “sfarfallio” dei colori; a questa dichiarazione,
senza soluzione di continuità viene giustapposta unimmagine degli anni Sessanta
in bianco e nero, su cui il regista indugia a lungo, come a voler mettere
criticamente in risalto la credibilità del ricordo e delle immagini
documentarie, relativizzando e facendo interagire tra di loro i due “mondi”.
Se, quindi, sul piano formale, Italian Gangsters sviluppa riflessioni non
banali sul rapporto tra realtà e finzione (più che giustificata, in tal senso,
la sua partecipazione allinterno della sezione Orizzonti), lo storytelling
risulta segnato dai difetti di tutto il cinema di De Maria. Attratto dalla condotta
di vita di personaggi “estremi”, tanto da fare di questa fascinazione una vera
e propria scelta stilistica, il regista contemporaneamente la teme, la
condanna, la stigmatizza, cucendogli sopra un abito (cinematografico) che poi
disfa in fretta e furia, giudicandolo pericoloso. Non solo: in questo processo
di disfacimento, il contesto socio-politico, da cui pure nel film derivano
spunti importanti (tra tutti, la connessione tra militanza comunista e atti
criminali come evasione dallalienazione
della fabbrica), non viene minimamente sviluppato, quasi per paura delle accuse
di giustificazionismo (emblematico limprobabile Riccardo Scamarcio brigatista di La Prima Linea).
Purtroppo, a un lavoro consapevole e non banale sulle forme
cinematografiche (così anche nel precedente La
vita oscena) corrisponde una costruzione drammaturgica inadeguata,
soprattutto se consideriamo la complessità e la specificità della drammaturgia
documentaria, qualunque cosa sia quello che oggi continuiamo a chiamare “documentario”.
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