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Italian Gangsters

di Raffaele Pavoni
  Italian Gangsters
Data di pubblicazione su web 03/09/2015  

Milano, 25 settembre 1967: quattro rapinatori professionisti (Adriano Rovoletto, Donato Lopez, Pietro Cavallero e Sante Notarnicola) assaltano il Banco di Napoli di largo Zandonai, venendo colti in flagrante. Nella fuga dalla polizia, con conseguente sparatoria ad altezza d’uomo, i morti sono quattro, una ventina i feriti: è l’ultima delle folli scorribande di quello che resta della banda Cavallero, operante tra Milano e la periferia piemontese, e che si è macchiata di venticinque rapine a cavallo tra il 1960 e il 1967, talvolta con addentellati politici. Renato De Maria ripercorre le vicende della gang, convinto, come dichiara, che «l’intreccio tra crimine e trasformazione sociale» sia un filtro fondamentale per capire meglio la nostra identità e «le trasformazioni sociali che hanno tumultuosamente cambiato il volto della nostra nazione».

Presentato nella sezione Orizzonti, Italian Gangsters è un buon esempio italiano di mockumentary fatto degli elementi costitutivi di un ipotetico documentario televisivo classico, con interviste agli artefici interpolate a immagini di repertorio. I banditi, per lo più in primo piano, a sfondo nero e con un’illuminazione da set (quindi puramente cinematografici), sono interpretati da attori professionisti: su tutti spiccano le performance di Luca Micheletti, che bene interpreta la redenzione post-carceraria di Luciano Lutring, e di Aldo Ottobrino, un Pietro Cavallero colto, pragmatico e militante politico, il cui background all’interno del P.C.I. serve al regista per sottolineare come l’humus nel quale germogliavano le associazioni criminali spesso corrispondeva proprio all’attivismo militante degli anni ’60, di cui rappresentava certo una deviazione, ma con il quale condivideva ideali di liberazione e di auto-emancipazione («eravamo proletari e comunisti», ha continuato a sottolineare Notarnicola a distanza di anni).

 

Una scena del film
Una scena del film

La finzionalità dell’operazione, oltreché dallo spiccato accento locale degli intervistati, è sottolineata dall’evidente slittamento temporale in atto: attori di mezza età interpretano personaggi che sembrano non averne alcuna, arrivando nel finale addirittura a fare il bilancio della propria vita terrena come se cessassero di esistere proprio nel momento in cui la macchina da presa ne testimonia e certifica la biografia. I banditi della banda Cavallero diventano quindi immagini del passato, ectoplasmi (azzeccata, in questo senso, la scelta di desaturare pesantemente l’immagine): il medium cinematografico si ritrova prepotentemente ad essere, tramite il proprio potere mitopoietico, una forza di contrasto alla morte mediante l’apparenza, creando quello che André Bazin definiva «un universo ideale a immagine del reale e dotato di un destino temporale autonomo».

E proprio di questa mitopoiesi del bandito i membri della gang sembrano essere vittime, uomini il cui mito era stato alimentato dai media a tal punto da coinvolgere loro stessi. «Mi chiamavano il Dillinger bolognese», racconta il finto Ezio Barbieri, sesto elemento della banda: «non so se fossi all’altezza, ma certo mi piaceva!». Nell’Italia del boom economico, fortemente mediatizzata e dove l’informazione – e soprattutto la cronaca nera – aveva un carattere sempre più onnipervasivo, i soprannomi dei banditi hanno il sopravvento sui nomi, i personaggi sulle persone, e per documentare l’esistenza delle stesse non resta che affidarsi all’immagine falsa (mock, appunto).

Altrettanto, se non più, interessante è il secondo piano di messinscena: ripercorrere i fatti realmente avvenuti non solo attraverso immagini documentarie di repertorio (pescate negli archivi dell’Istituto Luce e nelle Teche Rai), ma per larghissima parte attraverso altre messinscene, frammenti di film italiani di genere (selezionati all’interno della library di Raro Video): questi  vengono totalmente de-contestualizzati e adattati alla nuova logica narrativa. E così, ad esempio, il nido familiare di uno dei gangster diventa quello di Gian Maria Volonté in La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971); le immagini del lavoro in fabbrica quelle di Mimì metallurgico di Lina Wertmuller; gli accerchiamenti della polizia quelli di Milano calibro 9 di Fernando Di Leo (la cui trilogia, d’altronde, era apertamente ispirata alla figura di Luciano Lutring). In tutti questi esempi, peraltro, il regista opera un ulteriore slittamento temporale (anche se solo di un decennio), quasi a voler astrarre la narrazione dal contesto socio-politico dell’Italia di allora, per dargli i contorni di una parabola, di un racconto morale.


Una scena del film
Una scena del film Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo

Merito indiscusso del film è quello di riflettere e far riflettere sulle infinite potenzialità espressive offerte dal found-footage, tecnica fortemente stimolata, nel cinema come negli audiovisivi, sia dalla codificazione numerica dell’immagine digitale che dalla diffusa riduzione dei budget a disposizione. Detto altrimenti, il film ci suggerisce come, e in quale misura, il found-footage da semplice espediente comunicativo sia capace di costituirsi come retorica, o meglio, di aprirsi a molteplici retoriche in virtù della propria capacità di stabilire infinite connessioni col tessuto narrativo che l’autore, o il regista televisivo, cerca di ricreare. In una scena del film, ad esempio, Paolo Casaroli racconta della sua liberazione, nel 1964, dopo sedici anni di carcere, e di come forse stato colpito in particolare dallo “sfarfallio” dei colori; a questa dichiarazione, senza soluzione di continuità viene giustapposta un’immagine degli anni Sessanta in bianco e nero, su cui il regista indugia a lungo, come a voler mettere criticamente in risalto la credibilità del ricordo e delle immagini documentarie, relativizzando e facendo interagire tra di loro i due “mondi”.

Se, quindi, sul piano formale, Italian Gangsters sviluppa riflessioni non banali sul rapporto tra realtà e finzione (più che giustificata, in tal senso, la sua partecipazione all’interno della sezione Orizzonti), lo storytelling risulta segnato dai difetti di tutto il cinema di De Maria. Attratto dalla condotta di vita di personaggi “estremi”, tanto da fare di questa fascinazione una vera e propria scelta stilistica, il regista contemporaneamente la teme, la condanna, la stigmatizza, cucendogli sopra un abito (cinematografico) che poi disfa in fretta e furia, giudicandolo pericoloso. Non solo: in questo processo di disfacimento, il contesto socio-politico, da cui pure nel film derivano spunti importanti (tra tutti, la connessione tra militanza comunista e atti criminali come evasione dall’alienazione della fabbrica), non viene minimamente sviluppato, quasi per paura delle accuse di giustificazionismo (emblematico l’improbabile Riccardo Scamarcio brigatista di La Prima Linea).

Purtroppo, a un lavoro consapevole e non banale sulle forme cinematografiche (così anche nel precedente La vita oscena) corrisponde una costruzione drammaturgica inadeguata, soprattutto se consideriamo la complessità e la specificità della drammaturgia documentaria, qualunque cosa sia quello che oggi continuiamo a chiamare “documentario”.




Italian Gangsters
cast cast & credits
 

La locandina del film.
La locandina del film.



 
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