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Looking for Grace

di Raffaele Pavoni
  Looking for Grace
Data di pubblicazione su web 03/09/2015  

In una città della Wheatbelt, regione dell’Australia occidentale, Grace (Odessa Young), inquieta adolescente ribelle, decide di rubare i soldi ai genitori e scappare di casa, percorrendo in compagnia della sua amica Sappho (Kenya Pearson) la strada verso est. I genitori Dan (Richard Roxburgh) e Denise (Radha Mitchell), una volta appresa la notizia della scomparsa della figlia, si lanciano al suo inseguimento, in compagnia di Norris (Terry Norris), detective in pensione che offrirà ai due coniugi sostegno pratico e psicologico, al punto da diventare il confidente dei problemi sentimentali e familiari di Dan.

Sue Brooks (Japanese Story), classe ’53, struttura il film a episodi, seguendo i cinque punti di vista in gioco (la figlia, la madre, il padre, l’investigatore e un misterioso camionista). Questa suddivisione, tuttavia, viene adottata non per approfondire la narrazione di partenza, ossia il cieco e sventurato viaggio della giovane Grace, ma per nidificarla in articolate e altrettanto importanti sottotrame (il tradimento di Denise, le ristrettezze economiche di Dan, i problemi familiari di Norris, etc.). Non capiremo mai cosa ha spinto realmente le due ragazze alla fuga, perché il film non se ne interessa, ma sposta il centro della narrazione altrove, dislocandolo senza sosta fino al tragico finale. 


Una scena del film.
Una scena del film

È una poetica della digressione, quella della regista australiana, di una dialettica degli eventi che non trova alcuna logica che non sia quella della propria autoevidenza, del proprio essere in atto. Tornando su una sceneggiatura scritta cinque anni prima e lasciata nel cassetto, Brooks sembra essersi trovata davanti un lavoro a lei estraneo, una se stessa che non riconosce più (o non conosce ancora), ma a cui decide di lasciare campo libero. L’autrice cavalca il film come un cavallo non imbrigliato, e lascia che segua il suo corso per vedere dove arriva, se arriva a qualcosa, e come ci arriva. È un cinema vagabondo, guidato dal caso, in cui “cercando Grace” si trova altro: il padre di famiglia segretamente innamorato della propria collega di lavoro, l’anziano detective che non viene invitato alla festa di compleanno dalla sorella lesbica in quanto maschio («però lei viene alle mie!»), etc.

È proprio nella figura del detective Norris (genialmente interpretato da un marmoreo Terry Norris) che si condensa tutta l’operazione del film: la sua figura serve a deviare continuamente dal discorso iniziale, per perdersi in un groviglio di subordinate, di drammi fuori scala (su tutto, il rapporto con la sorella, che gli contesta il numero di mutande messe in borsa per il viaggio, ma anche la crisi epilettica, improvvisa, di cui non abbiamo gli elementi per trovare una reale causa). Recitazione per sottrazione, grande risalto ai tempi morti, ai silenzi, alle fissità dei volti: Brooks sa dosare gli elementi comici e drammatici, come due mazzi di carte di differenti colori che si mescolano, ma che partecipano allo stesso gioco. Perché di un gioco si tratta, per quanto serio o faceto possa apparire. Una sorta di solitario di cui la regista stessa non sa prevedere il finale: «guardo il film e mi chiedo cosa diavolo è! Continua tuttora a spiazzarmi e a intrigarmi. Non tutti gli elementi quadrano…».

Looking for Grace, in altre parole, è un film splendidamente errante, una storia che sfugge a se stessa, per andare a toccare territori casuali dalla commedia alla tragedia. È la regista stessa a confermare questa interpretazione: «un giorno durante le riprese mi sono resa conto che questo film aveva una vita e un’energia proprie. Era come un adolescente. Aveva appena spiccato il volo». È proprio nel contrasto tra il climax comico del film e quel finale drammatico, annichilente, improvviso e apparentemente immotivato, che Brooks esprime la sua visione ontologica del mondo, quella di un hurly-burly silenzioso in cui si ha memoria dell’amletica assenza di giustizia («non è giusto» è l’unica reazione che sembrano avere i protagonisti di fronte all’improvvisa perdita). Ma questo non porta al nichilismo, né vanifica il potere delle azioni umane, bensì va accettato in quanto parte dell’esistenza umana.


Una scena del film.
Una scena del film

L’ibridazione dei registri espressivi corrisponde a quel doppio movimento di trasfigurazione comica e drammatica operato dalla casualità dell’incedere cinematografico. Due binari che sempre più, nel corso dell’opera, si sovrappongono, come in un’immagine stereoscopica, in una sintesi elaborata e cosciente. Apparentemente privo di grandi ambizioni, il film si fa portatore di una visione ontologica profonda e allegramente tragica, ed è in questo senso che il gioco di parole del titolo (“grace” / “Grace”) pone la pellicola sul doppio piano della tragicommedia familiare e della ricerca personale della felicità. 

Un piccolo grande film, che molto probabilmente non vincerà niente in questa edizione della Biennale, ma che proprio nell’ingessato contesto festivaliero rappresenta una boccata d’aria fresca: una piacevole chiacchierata sulla vita e sulla morte con l’autrice, in una tranquilla e silenziosa abitazione australiana, davanti a una tazza di caffellatte. O, meglio ancora, in una macchina che percorre la selvaggia Wheatbelt, le cui inquadrature in camera car aprono e chiudono l’opera, potenti immagini-tempo capaci di mostrare anche l’irreversibilità e la spietata ma stupefacente naturalità (la wilderness) che regolano tutte le gesta umane.




Looking for Grace
cast cast & credits
 


La locandina del film
 
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