In
una città della Wheatbelt, regione dellAustralia occidentale, Grace (Odessa Young), inquieta adolescente ribelle,
decide di rubare i soldi ai genitori e scappare di casa, percorrendo in
compagnia della sua amica Sappho (Kenya Pearson) la strada verso
est. I genitori Dan (Richard
Roxburgh)
e Denise (Radha
Mitchell),
una volta appresa la notizia della scomparsa della figlia, si lanciano al suo inseguimento,
in compagnia di Norris (Terry Norris),
detective in pensione che offrirà ai due coniugi sostegno pratico e psicologico,
al punto da diventare il confidente dei problemi sentimentali e familiari di
Dan.
Sue Brooks (Japanese Story), classe 53, struttura
il film a episodi, seguendo i cinque punti di vista in gioco (la figlia, la
madre, il padre, linvestigatore e un misterioso camionista). Questa
suddivisione, tuttavia, viene adottata non per approfondire la narrazione di
partenza, ossia il cieco e sventurato viaggio della giovane Grace, ma per
nidificarla in articolate e altrettanto importanti sottotrame (il tradimento di
Denise, le ristrettezze economiche di Dan, i problemi familiari di Norris,
etc.). Non capiremo mai cosa ha spinto realmente le due ragazze alla fuga, perché
il film non se ne interessa, ma sposta il centro della narrazione altrove,
dislocandolo senza sosta fino al tragico finale.
Una scena del film
È
una poetica della digressione, quella della regista australiana, di una
dialettica degli eventi che non trova alcuna logica che non sia quella della
propria autoevidenza, del proprio essere in atto. Tornando su una sceneggiatura
scritta cinque anni prima e lasciata nel cassetto, Brooks sembra essersi
trovata davanti un lavoro a lei estraneo, una se stessa che non riconosce più
(o non conosce ancora), ma a cui decide di lasciare campo libero. Lautrice
cavalca il film come un cavallo non imbrigliato, e lascia che segua il suo
corso per vedere dove arriva, se arriva a qualcosa, e come ci arriva. È un
cinema vagabondo, guidato dal caso, in cui “cercando Grace” si trova altro: il
padre di famiglia segretamente innamorato della propria collega di lavoro,
lanziano detective che non viene invitato alla festa di compleanno dalla
sorella lesbica in quanto maschio («però lei viene alle mie!»), etc.
È
proprio nella figura del detective Norris (genialmente interpretato da un marmoreo
Terry Norris) che si condensa tutta loperazione del film: la sua figura serve a deviare continuamente
dal discorso iniziale, per perdersi in un groviglio di subordinate, di drammi
fuori scala (su tutto, il rapporto con la sorella, che gli contesta il numero
di mutande messe in borsa per il viaggio, ma anche la crisi epilettica,
improvvisa, di cui non abbiamo gli elementi per trovare una reale causa). Recitazione
per sottrazione, grande risalto ai tempi morti, ai silenzi, alle fissità dei
volti: Brooks sa dosare gli elementi comici e drammatici, come due mazzi di
carte di differenti colori che si mescolano, ma che partecipano allo stesso
gioco. Perché di un gioco si tratta, per quanto serio o faceto possa apparire. Una
sorta di solitario di cui la regista stessa non sa prevedere il finale: «guardo
il film e mi chiedo cosa diavolo è! Continua tuttora a spiazzarmi e a
intrigarmi. Non tutti gli elementi quadrano…».
Looking for
Grace,
in altre parole, è un film splendidamente errante, una storia che sfugge a se
stessa, per andare a toccare territori casuali dalla commedia alla tragedia. È
la regista stessa a confermare questa interpretazione: «un giorno durante le
riprese mi sono resa conto che questo film aveva una vita e unenergia proprie.
Era come un adolescente. Aveva appena spiccato il volo». È proprio nel
contrasto tra il climax comico del
film e quel finale drammatico, annichilente, improvviso e apparentemente
immotivato, che Brooks esprime la sua visione ontologica del mondo, quella di
un hurly-burly silenzioso in cui si
ha memoria dellamletica assenza di giustizia («non è giusto» è lunica
reazione che sembrano avere i protagonisti di fronte allimprovvisa perdita). Ma
questo non porta al nichilismo, né vanifica il potere delle azioni umane, bensì
va accettato in quanto parte dellesistenza umana.
Una scena del film
Libridazione
dei registri espressivi corrisponde a quel doppio movimento di trasfigurazione
comica e drammatica operato dalla casualità dellincedere cinematografico. Due binari
che sempre più, nel corso dellopera, si sovrappongono, come in unimmagine
stereoscopica, in una sintesi elaborata e cosciente. Apparentemente privo di
grandi ambizioni, il film si fa portatore di una visione ontologica profonda e
allegramente tragica, ed è in questo senso che il gioco di parole del titolo (“grace”
/ “Grace”) pone la pellicola sul doppio piano della tragicommedia familiare e
della ricerca personale della felicità. Un
piccolo grande film, che molto probabilmente non vincerà niente in questa
edizione della Biennale, ma che proprio nellingessato contesto festivaliero rappresenta
una boccata daria fresca: una piacevole chiacchierata sulla vita e sulla morte
con lautrice, in una tranquilla e silenziosa abitazione australiana, davanti a
una tazza di caffellatte. O, meglio ancora, in una macchina che percorre la selvaggia
Wheatbelt, le cui inquadrature in camera
car aprono e chiudono lopera, potenti immagini-tempo capaci di mostrare anche
lirreversibilità e la spietata ma stupefacente naturalità (la wilderness) che regolano tutte le gesta umane.
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