Nel
suo studio il regista cerca faticosamente di mettersi in contatto via Skype con
il capitano di un non ben identificato cargo che trasporta nei suoi containers preziose opere darte rubate.
Linterruzione sistematica della comunicazione permette linserimento di altri
piani narrativi tra cui quello di una storia dellarte europea attraverso
lapparentemente didascalico viaggio attraverso i misteri del Louvre con due
guide deccezione: unesaltata Marianna che intona la Marseillaise e scandisce
ad ogni passo lideale di liberté, egalité, fraternité e un partecipe ma più
ironico Napoleone che si compiace delle sue gesta anche di rapina. Ma il cuore
del film è ancora più interno ed è la reinvenzione, in una sorta di immaginario
docufilm, del rapporto singolare e salvifico che si instaurò durante la seconda
guerra mondiale nella Francia divisa in due (il governo collaborazionista del
maresciallo Petain al sud, e il Nord occupato dai tedeschi) tra loccupante
conte Franz Wolff-Metternich e il
mite e malinconico direttore del Louvre Jacques
Jaujard.
Una scena del film Attraverso
una ricchissima documentazione darchivio e una sobria reinvenzione il regista mostra come i due
personaggi (quanto deve il primo alla
memoria del colonnello von Rauffenstein di Von
Stroheim e il secondo al malinconico capitano de Boïeldieu di Pierre Fresnay de La grande illusion di Jean
Renoir?) riescano a evitare la dispersione dello straordinario patrimonio
nel quale evidentemente riconoscono entrambi il segno distintivo di una comune
civiltà. Che va fino a Mosca e San Pietroburgo, anche se, secondo il regista,
la paura primaria del bolscevismo ha a lungo negato questa appartenenza anche
alla sacra Russia. A restringere la coralità e trasformarla quasi solo in
dialogo contribuisce con la sua precisazione riduttiva il titolo, Francofonia, che assegna alla Francia un
primato forse dovuto anche alla partnership produttiva col museo del
Louvre. Una scena del film Non è infatti un gran
titolo, questo dellultimo film di Sokurov,
che invece è un gran film, a saperlo vedere, naturalmente, e a volerlo vedere
al di là di un rimescolio di tecniche non sempre intriganti e chiare, e anche al
di là di qualche epidermico fastidio per la presenza del regista a prima vista
non così necessaria. E invece necessarissima perché il film è un atto damore
individuale, un atto damore soggettivo nel quale lautore grida la sua
incondizionata adesione al mondo dellarte e del bello, quel mondo che
individua come la radice, la patria comune dellEuropa. E a questEuropa
cresciuta artisticamente nel corso di almeno cinque secoli e politicamente
dallIlluminismo e dalla Rivoluzione francese affida il compito di difendere,
attraverso larte, i suoi ideali di democrazia e rispetto. E proprio a questa
trasmissione dei capolavori di cui il museo (e il Louvre lo è antonomasticamente)
è conservatore sacerdotale e massima espressione, affida tutto il senso della
conoscenza viva di un passato altrimenti non percepibile. La riflessione
sullarte del ritratto come dono alla capacità di sguardo dei posteri («Come
potrei vedere se non vedessi gli occhi di chi ha abitato il passato?») è forse
la chiave di lettura di questa elegia che il titolo sposta troppo sulla Francia
ma che è ben di più: un omaggio alla bellezza e al miracolo della sua
conservazione. Almeno fino ad oggi.
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