Se Pelléas et Mélisande, con la sua intelaiatura musicale tenue e
allusiva, e Salome, con la violenza
delle sue sonorità e la dissonanza delle sue armonie, rivoluzionarono il
concetto di drammaturgia fonica nel teatro dopera dinizio Novecento, Franz Schreker, in Der ferne Klang (1912), seppe fare di più: trasformò il suono nel
vero protagonista del plot. Si potrà
discutere se si tratti di un libretto – a firma dello stesso compositore, come
sempre in Schreker – orgogliosamente superomistico o retrivamente maschilista (Tatjana Gürbaca, in questa sua regia a
Mannheim, farà uninequivocabile scelta di campo), ma limmarcescibile
modernità del lavoro, per altri aspetti frutto un po datato del proprio tempo,
sta appunto in ciò: motore dellazione è il “suono lontano” di cui parla il
titolo, non i personaggi, burattini manovrati dai fili della Musica,
dellEstetica e (se proprio si vuol trovare un addentellato più melodrammatico)
del Destino. E il fatto che tale suono – una fantasmatica ondata di arpe – sia
percepibile dagli spettatori fin dallinizio, ma rimanga inascoltato dal
protagonista-musicista della storia, che riesce a coglierlo solo in punto di
morte, rende tutto più angoscioso. Anche più fallimentare, certo.
Il tema, squisitamente
novecentesco, della possibilità del musicista di vivere solo dentro la
creazione musicale si affianca qui al soggetto romantico (wagneriano, a
cominciare dal Tannhäuser) dellartista
incompreso alla ricerca di se stesso e, al contempo, a quello decadente – Schreker
vi tornerà con Die Gezeichneten (cfr. qui) –
del tentativo di fare della propria esistenza unopera darte. Tematiche ampiamente
decantate, che Schreker seppe però amalgamare grazie a un talento visionario e un
lirismo esuberante: con i personaggi, è vero, scatta poca empatia (Fritz sembra
un compositore più velleitario che tormentato, il degrado dellabbandonata
Grete verso la via del postribolo non lascia commossi più di tanto), e la
morale che salta più agli occhi è quella – piuttosto spicciola – per cui solo
alla fine della vita scorgiamo le bellezze che lesistenza ci ha donato. Ma lunicum di unopera dove la Musica è
soggetto, non tramite, permane in tutto il suo fascino.
Un momento dello spettacolo © Hans Jörg Michel
Considerando il successo enorme
che arrise a vari titoli di Schreker, e alloblio da cui successivamente furono
travolti (prima per lostilità nazista, poi per le troppo diverse
sollecitazioni estetiche emerse con la musica postbellica), cosa serve oggi per
una Schreker renaissance? Fondamentalmente
tre cose: direttori che trasmettano linesausta ricchezza timbrica di queste
partiture come valore drammatico, non belluria formale; cantanti robusti, data
la muraglia di suono su cui devono galleggiare, ma in grado di alternare il
declamato a una cantabilità melodica non immemore dellopera italiana; registi capaci
di restituire un clima, più che prenderlo troppo sul serio. In questa nuova
produzione al Nationaltheater di Mannheim si sono avuti cantanti consapevoli
sul piano stilistico-interpretativo, sostenuti da una lettura musicale di Alois Seidlmeier priva di compiacimenti preziosistici e attenta a non
scantonare nelleccesso coloristico, anche laddove (si pensi alla scena del
bordello veneziano, con le sue serenate e barcarole) è lo stesso Schreker a un
dipresso dal cadervi. La regia della Gürbaca, connotata da un forte impianto
concettuale, tende invece a virare sul piano ideologico quanto il compositore
racchiude in termini di esaltazione estetizzante e libertà fantastica.
Tutto viene riletto dalla parte
di Grete, sorta di donna-bambina in fuga, oppressa da una famiglia meschina (la
madre è più maschilista del padre) e un fidanzato egocentricamente preso dai
suoi conati musicali. La drammaturgia sembra qui agglutinarsi attorno a uno
spaccato anni Settanta: il matrimonio inteso come prostituzione legalizzata
(con il Mefistofele della situazione, il sinistro avvocaticchio Vigelius,
mutato in prete), il bordello quale potenziale riscatto, la vecchietta ruffiana
trasformata in donna di mezza età ambigua e libertaria, la solidarietà
femminile possibile proprio grazie alle prostitute. Un po limitativo, per
unopera così oniricamente fuori dal tempo: a scapitarne è proprio la poetica
del “suono lontano”, lasciato in seconda linea rispetto al fallimento della love story;
mentre concludere lopera con il suicidio del compositore, anziché con la sua
morte per consunzione intellettuale, vanifica il senso della battuta finale dellagonizzante
protagonista: «Sì, lultimo atto è da rifare». Resta fermo, però, che il lavoro
registico segue la sua strada con coerenza, mentre limpaginazione visiva abbina
con un certo costrutto elementi scenici irreali al naturalismo dei filmati che
contrappuntano lultimo atto.
Un momento dell'opera © Hans Jörg Michel.
A corroborare la superiorità
femminile imposta dalla lettura della Gürbaca provvede, poi, lo stesso
palcoscenico: Michael Baba, nei panni di Fritz, si conferma
generoso e volenteroso tenore “spinto”, ma in disordine nellemissione e con
qualche problema di appiombo ritmico, laddove la giovane Astrid Weber plasma una
Grete completa per tutto larco del personaggio, dalladolescente alla donna
disfatta, negli incantamenti lirici del primo atto come nel canto più teso e
ossessivo del prosieguo. In una parte sulfurea e irrisolta come quella di
Vigelius, equivoco burattinaio della storia, Bartosz Urbanowicz
simpone comunque per intelligenza artistica, mentre Marie-Belle Sandis fa del ruolo-simbolo della ruffiana un
personaggio completo e frastagliato.
Per il resto, unopera come Der ferne
Klang, che prevede in scena una
ventina di solisti, in Italia sarebbe proibitiva per ragioni di costi, laddove
un teatro con compagnia stabile – come quello di Mannheim – aggira facilmente
lostacolo, tanto più che la dispersività del libretto consente di affidare più
ruoli allo stesso interprete. E con buon esito: il canto penetrante e
trasparente di Juhan Trolla rende giustizia tanto
alloperettistico Cavaliere della scena del bordello quanto al losco bettoliere
dellultimo atto; Sebastian Pilgrim è un basso sostanzioso ed
espressivo, sia che incarni il laido oste destinato alla mano di Grete sia che
affronti spaesamenti e turbamenti del buon Rudolf; Steven Scheschareg è
ottimo baritono dicitore nei panni di guitto come in quelli di Conte; Sung Ha transita con scioltezza dal vecchio padre della protagonista al vagheggino
affezionato cliente di lupanari. A fuoco il trio delle prostitute, tutte
rigorosamente sadomaso e con una spolverata saffica molto postfemminista, che
conta sulle buone voci di Tamara
Banjesevic, Estelle Kruger e Ludovica Bello: un
mezzosoprano italiano che a Mannheim ha trovato il suo posto al sole, e dove
spesso interpreta ruoli più impegnativi della cocotte Milli.
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