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Il suono così lontano, il suono così vicino

di Paolo Patrizi
  der ferne Klang
Data di pubblicazione su web 01/09/2015  

Se Pelléas et Mélisande, con la sua intelaiatura musicale tenue e allusiva, e Salome, con la violenza delle sue sonorità e la dissonanza delle sue armonie, rivoluzionarono il concetto di drammaturgia fonica nel teatro d’opera d’inizio Novecento, Franz Schreker, in Der ferne Klang (1912), seppe fare di più: trasformò il suono nel vero protagonista del plot. Si potrà discutere se si tratti di un libretto – a firma dello stesso compositore, come sempre in Schreker – orgogliosamente superomistico o retrivamente maschilista (Tatjana Gürbaca, in questa sua regia a Mannheim, farà un’inequivocabile scelta di campo), ma l’immarcescibile modernità del lavoro, per altri aspetti frutto un po’ datato del proprio tempo, sta appunto in ciò: motore dell’azione è il “suono lontano” di cui parla il titolo, non i personaggi, burattini manovrati dai fili della Musica, dell’Estetica e (se proprio si vuol trovare un addentellato più melodrammatico) del Destino. E il fatto che tale suono – una fantasmatica ondata di arpe – sia percepibile dagli spettatori fin dall’inizio, ma rimanga inascoltato dal protagonista-musicista della storia, che riesce a coglierlo solo in punto di morte, rende tutto più angoscioso. Anche più fallimentare, certo.

Il tema, squisitamente novecentesco, della possibilità del musicista di vivere solo dentro la creazione musicale si affianca qui al soggetto romantico (wagneriano, a cominciare dal Tannhäuser) dell’artista incompreso alla ricerca di se stesso e, al contempo, a quello decadente – Schreker vi tornerà con Die Gezeichneten (cfr. qui) – del tentativo di fare della propria esistenza un’opera d’arte. Tematiche ampiamente decantate, che Schreker seppe però amalgamare grazie a un talento visionario e un lirismo esuberante: con i personaggi, è vero, scatta poca empatia (Fritz sembra un compositore più velleitario che tormentato, il degrado dell’abbandonata Grete verso la via del postribolo non lascia commossi più di tanto), e la morale che salta più agli occhi è quella – piuttosto spicciola – per cui solo alla fine della vita scorgiamo le bellezze che l’esistenza ci ha donato. Ma l’unicum di un’opera dove la Musica è soggetto, non tramite, permane in tutto il suo fascino.

Un momento dell'opera. Foto di Hans Jörg Michel.
Un momento dello spettacolo
© Hans Jörg Michel

Considerando il successo enorme che arrise a vari titoli di Schreker, e all’oblio da cui successivamente furono travolti (prima per l’ostilità nazista, poi per le troppo diverse sollecitazioni estetiche emerse con la musica postbellica), cosa serve oggi per una Schreker renaissance? Fondamentalmente tre cose: direttori che trasmettano l’inesausta ricchezza timbrica di queste partiture come valore drammatico, non belluria formale; cantanti robusti, data la muraglia di suono su cui devono galleggiare, ma in grado di alternare il declamato a una cantabilità melodica non immemore dell’opera italiana; registi capaci di restituire un clima, più che prenderlo troppo sul serio. In questa nuova produzione al Nationaltheater di Mannheim si sono avuti cantanti consapevoli sul piano stilistico-interpretativo, sostenuti da una lettura musicale di Alois Seidlmeier priva di compiacimenti preziosistici e attenta a non scantonare nell’eccesso coloristico, anche laddove (si pensi alla scena del bordello veneziano, con le sue serenate e barcarole) è lo stesso Schreker a un dipresso dal cadervi. La regia della Gürbaca, connotata da un forte impianto concettuale, tende invece a virare sul piano ideologico quanto il compositore racchiude in termini di esaltazione estetizzante e libertà fantastica.

Tutto viene riletto dalla parte di Grete, sorta di donna-bambina in fuga, oppressa da una famiglia meschina (la madre è più maschilista del padre) e un fidanzato egocentricamente preso dai suoi conati musicali. La drammaturgia sembra qui agglutinarsi attorno a uno spaccato anni Settanta: il matrimonio inteso come prostituzione legalizzata (con il Mefistofele della situazione, il sinistro avvocaticchio Vigelius, mutato in prete), il bordello quale potenziale riscatto, la vecchietta ruffiana trasformata in donna di mezza età ambigua e libertaria, la solidarietà femminile possibile proprio grazie alle prostitute. Un po’ limitativo, per un’opera così oniricamente fuori dal tempo: a scapitarne è proprio la poetica del “suono lontano”, lasciato in seconda linea rispetto al fallimento della love story; mentre concludere l’opera con il suicidio del compositore, anziché con la sua morte per consunzione intellettuale, vanifica il senso della battuta finale dell’agonizzante protagonista: «Sì, l’ultimo atto è da rifare». Resta fermo, però, che il lavoro registico segue la sua strada con coerenza, mentre l’impaginazione visiva abbina con un certo costrutto elementi scenici irreali al naturalismo dei filmati che contrappuntano l’ultimo atto.

Un momento dell'opera. Foto di Hans Jörg Michel.
Un momento dell'opera
© Hans Jörg Michel.

A corroborare la superiorità femminile imposta dalla lettura della Gürbaca provvede, poi, lo stesso palcoscenico: Michael Baba, nei panni di Fritz, si conferma generoso e volenteroso tenore “spinto”, ma in disordine nell’emissione e con qualche problema di appiombo ritmico, laddove la giovane Astrid Weber plasma una Grete completa per tutto l’arco del personaggio, dall’adolescente alla donna disfatta, negli incantamenti lirici del primo atto come nel canto più teso e ossessivo del prosieguo. In una parte sulfurea e irrisolta come quella di Vigelius, equivoco burattinaio della storia, Bartosz Urbanowicz s’impone comunque per intelligenza artistica, mentre Marie-Belle Sandis fa del ruolo-simbolo della ruffiana un personaggio completo e frastagliato.

Per il resto, un’opera come Der ferne Klang, che prevede in scena una ventina di solisti, in Italia sarebbe proibitiva per ragioni di costi, laddove un teatro con compagnia stabile – come quello di Mannheim – aggira facilmente l’ostacolo, tanto più che la dispersività del libretto consente di affidare più ruoli allo stesso interprete. E con buon esito: il canto penetrante e trasparente di Juhan Trolla rende giustizia tanto all’operettistico Cavaliere della scena del bordello quanto al losco bettoliere dell’ultimo atto; Sebastian Pilgrim è un basso sostanzioso ed espressivo, sia che incarni il laido oste destinato alla mano di Grete sia che affronti spaesamenti e turbamenti del buon Rudolf; Steven Scheschareg è ottimo baritono dicitore nei panni di guitto come in quelli di Conte; Sung Ha transita con scioltezza dal vecchio padre della protagonista al vagheggino affezionato cliente di lupanari. A fuoco il trio delle prostitute, tutte rigorosamente sadomaso e con una spolverata saffica molto postfemminista, che conta sulle buone voci di Tamara Banjesevic, Estelle Kruger e Ludovica Bello: un mezzosoprano italiano che a Mannheim ha trovato il suo posto al sole, e dove spesso interpreta ruoli più impegnativi della cocotte Milli.



Der ferne Klang



cast cast & credits
 
trama trama







© Hans Jörg Michel
© Hans Jörg Michel




 
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