Il 43° Festival
Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, che si è svolto dal 30
luglio al 9 agosto in vari spazi della città lagunare, ha offerto complessivamente
unapprezzabile panoramica sulla produzione teatrale della generazione dei
registi e degli autori che in questi anni governano la scena europea. Non
potendo disporre di risorse produttive, la rassegna teatrale, curata dal
direttore artistico Àlex Rigola, ha
ripiegato su riproposte e recuperi di rappresentazioni già affermate altrove; inevitabilmente,
il giudizio sugli spettacoli risulta alterno, anche a causa di alcune inutili
inserzioni nel programma e per la matrice frammentaria di alcune ricerche.
Inoltre, da sei
anni la manifestazione è legata allo svolgimento dei “College”, un progetto
formativo per artisti di varie discipline che si esercitano sotto la guida dei
grandi maestri delle arti, della danza, del teatro, della musica e dello
spettacolo. Attraverso una serie di laboratori-workshop sintende realizzare
unoccasione di perfezionamento tematizzato, in grado di offrire alle nuove
generazioni un valido sostegno alla loro creatività. Il numero crescente di
partecipanti, di fatto, finisce per popolare le varie attività previste, dagli
incontri alle kermesse, mentre tocca solo ad alcuni gruppi esibirsi in una
prova-saggio finale, sintesi del lavoro svolto nei laboratori.
Bestiario
borghese in un interno. “Das Weisse vom Ei / Une île flottante” di Christoph
Marthaler
Lapertura del
Festival è spettata di diritto a Christoph
Marthaler, il regista svizzero a cui è stato attribuito il Leone doro alla
carriera 2015: si tratta di un riconoscimento appropriato per un creatore
eccentrico e solitario, abituato a intervenire in maniera anticonvenzionale,
attraversando con sicurezza un ampia gamma di linguaggi espressivi. Nei suoi
spettacoli, contrassegnati da un umorismo paradossale e apparentemente démodé, la musica ha una funzione
dirompente.
Das Weisse vom Ei / Une île flottante di Christoph Marthaler © Simon Hallstrom
Lo spettacolo
che ha presentato al teatro alle Tese dellArsenale è stato Das Weisse vom Ei / Une île flottante,
tratto da La poudre aux yeux di Eugène Labiche; ben presto si avverte come
la pochade sia adoperata alla stregua
di un riferimento rétro, da smontare e rimontare a piacimento; invero il
regista e i suoi collaboratori scelgono di elaborare un testo originale,
costruito sulla sovrapposizione linguistica del tedesco e del francese, lingue
parlate dalle due famiglie che sfilano in una sequenza di quadri allinterno di
uno spazio polivalente, inventato dalla brava scenografa e costumista Anna Viebrock.
Allinizio gli attori
compaiono davanti al sipario con un piglio tra linterrogativo e il divertito, rivolgendo
verso gli spettatori uno sguardo attonito, come se si fossero invertiti i ruoli.
Subito dopo prevale la scena-ambiente, uno spazio in grado di respirare e dinterloquire
con lo sviluppo drammaturgico: ogni singolo elemento, ogni oggetto dialoga con
le figure presenti: spicca laffollata quadreria depoca che ritrae gli stessi
protagonisti, fino a sovrapporsi ad essi; ma incuriosisce la grande quantità di
animali impagliati che girano per la scena e laddensarsi di reperti-cimeli
degli anni Cinquanta e Sessanta. Per sostenere unazione che gioca sulla
reiterazione dei gesti e delle parole Marthaler agisce abilmente sulla
scansione del tempo mediante vari accorgimenti. Il suono di una campana
lontana, oppure il battere dellorologio, il richiamo-lamento dei due fidanzati
accentuano le pause e i silenzi, che tendono a rimarcare lordinaria stanchezza
di una quotidianità senza senso.
La dilatazione
spazio-temporale finisce per consegnare agli spettatori un ritratto grottesco
dei meccanismi scenici. Infatti, dopo aver ridotto in briciole la comicità alla
Labiche, Marthaler si diverte a capovolgere
la vena apocalittica del teatro dellassurdo, spingendosi fino a comporre un
mosaico di infantilismi che filtrano magicamente sia dagli atteggiamenti dei
maturi genitori, sia da quelli degli ingenui giovani amorosi. In tal modo la
regia tende a sottrarsi dallo schema delle situazioni comiche, utilizzando spesso
gli slogan, poiché nella ricerca della verità è umano chiedere a ciascuno una qualunque
risposta.
A questo punto
si comprende meglio limportanza che la musicalità riversa sulla scrittura del
progetto scenico; emerge con chiarezza la capacità di costruire una controllata
struttura di base, sulla quale sinnesta una disinvolta intromissione di
canzoni, filastrocche, cantilene, sospiri amorosi, rumori in scena e fuori
scena. Trionfa, alfine, la metafora graffiante di un bestiario borghese in un
interno plurale, eterno e immutabile a tal punto da resistere al disfacimento
della casa, allo smontaggio sistematico del suo contenuto e allazzeramento di
ogni nostalgia. Bravissimi risultano gli interpreti, a cui si deve un
ammirevole rigore espressivo, un sicuro controllo gestuale, una raffinata
esecuzione sonoro-linguistica.
La tragicità del reale. “Die Ehe der Maria Braun” di
Thomas Ostermeier
Il secondo
passaggio della Biennale ha segnato una trionfale accoglienza al teatro Goldoni
per latteso allestimento Die Ehe der
Maria Braun (Il matrimonio
di Maria Braun), una riscrittura del film (1979) di Rainer Werner Fassbinder, curata e
diretta da Thomas Ostermeier.
Limplacabile sguardo critico del regista, direttore artistico della Schaubühne
di Berlino, indaga in modo asettico, ma senza esitazioni, le condizioni della
Germania post-nazista e le difficoltà della ricomposizione sociale e nazionale.
Le vicende di Maria Braun offrono una chiave esemplare per una verifica delle
contraddizioni generazionali. Rispetto al film Ostermeier preferisce costruire
un flusso narrativo senza soluzione di continuità, tanto che è già in atto
mentre gli spettatori entrano in sala. Da subito si avverte quanto sia
fondamentale la collaborazione dei cinque protagonisti: Ursina Lardi, che sostiene con sicurezza il personaggio di Maria, e
quattro uomini, Thomas Bading, Robert Beyer, Moritz Gottwald e Sebastian
Schwarz, ai quali sono affidati i numerosi ruoli della vicenda, sostenuti
spesso en travesti.
Die Ehe der Maria Braun di Thomas Ostermeier © Arno Declair
Landamento descrittivo
consolida la linearità di una trama sentimentale, messa in crisi dalle
incongruenze del mondo circostante. Il matrimonio fra Maria e Hermann è interrotto frettolosamente
dalla partenza per la guerra; mentre il marito, soldato nazista, è considerato
disperso, la donna finisce per mettere a frutto la sua avvenenza, dapprima tra
i militari americani, poi al fianco di un vecchio industriale. Lambiguità si
fa stridente dopo il ritorno e la scarcerazione dello sposo; mentre riaffiorano
i segni della reciproca affettività, si acuiscono le difficoltà di decidere
coerentemente sul futuro. La morte del ricco amante, che offre un lascito
consistente alla coppia, sembra aprire uno spiraglio per una soluzione
positiva, ma quelle vite sono oramai travolte da una fiammata esplosiva, un inevitabile
lampo distruttivo. Non sono solo le loro vite a disgregarsi, visto che sullo
sfondo il regista fa scorrere le immagini delle tensioni che percorrono la
nuova Germania.
Se si escludono
pochi riferimenti alla dinamica straniata del film di Fassbinder, la proposta
di Thomas Ostermeier porta il segno indelebile della sua creatività, che sa
come evidenziare una molteplicità di piani rappresentativi fino al controllo
della tragicità del reale; inoltre, la tessitura registica riesce a inglobare
nella rappresentazione la presenza del pubblico, a cui consegna un insieme di
dubbi e di quesiti sullincongruente intreccio tra la vita e la storia.
Lo specchio
naturale. “Hamlet” di
Oskaras Koršunovas
Uninteressante
soluzione, una fra le infinite varianti metaforiche che permette la messinscena
dellAmleto di Shakespeare, è stata presentata da Oskaras Koršunovas al teatro Goldoni; si
ricorda che lo spettacolo è nato nel 2008, e si era già visto a Roma nel 2009 e
a Pontedera nel 2011. Anche stavolta, entrando, lo spettatore trova gli attori
seduti di spalle dinanzi agli specchi del trucco, illuminati da una luce
intensa e livida, che li lascia fluttuare nelloscurità retrostante del
palcoscenico. Lazione procede dallinterrogativo iniziale: «chi sei?»; è la
domanda indirizzata allo spettro, che diventa la chiave di un insieme di piani
scenici che riguardano la metamorfosi dei teatranti, lessenza
dellinterpretazione (verità o invenzione?) e, di riflesso, lambiguità della
condizione umana. Lo specchio della natura, definita dal regista lituano mediante
un intreccio degli elementi primari, riflette la tragicità dei conflitti inaspettati
che sconvolgono lordine apparente. La messinscena valorizza, soprattutto, la
singolare fisicità degli esecutori, impegnati per più di tre ore a organizzare uno
spazio della memoria infinito, nel quale limmagine del re buono si oppone allindegno
usurpatore che insieme al congiunto ha ucciso la virtù.
Hamlet di Oskaras Koršunovas © Dmitrijus
Matvejevas
La formidabile preparazione tecnica degli attori dellOKT/Vilnius City
Theatre, in grado di svelare emozioni anche attraverso la fissità del volto e
dello sguardo, si traduce in un confronto triangolare, che lascia
emergere il conflitto con se stessi, con gli altri personaggi e con il mondo,
una lotta che è soffocata dai riflessi nefasti che la manipolazione della memoria
getta sul presente. È inevitabile che tale disordine sconvolga prima di tutto la
dinamica generazionale, fino a trasfigurare la vita alla stregua di una cruda e
volubile recita; ma affiora con violenza nei rapporti uomo/donna,
maschile/femminile. Spicca, tra gli altri, linstancabile presenza di Darius Meskauskas, nei panni di un Hamletas tormentato dalla ricerca di una
soluzione esistenziale e strategica, a un tempo, che sia grado di condurre a
termine linevitabile vendetta. La stanza del trucco si trasforma in
uno spazio plurale che non perde mai la sua matrice di luogo delle
trasformazioni.
Mentre echeggiano le musiche di Antanas Jasenka e sibilano le
stridenti sonorità inventate da Ignas Juzokas, i
personaggi emergono negli interstizi dei camerini/specchio, saltano da una
scena allaltra mentre in aria volteggiano oggetti, simili a sovrabbondanti tracce
di una simbologia sepolta dalla polvere del tempo. Le tracce di rosso sul
volto, sul corpo, nei fazzoletti di carta lanciati sulla scena, perforano il netto
contrasto fra luce e buio, mentre la lingua lituana accentua i riferimenti a un
contesto arcaico aspro e travolgente. Con alle spalle unintensa frequentazione
shakespeariana, lHamletas
di Koršunovas sviluppa un viaggio esemplare che insiste prima di tutto sulle
condizioni della nostra contemporaneità.
Larma letale
delle false verità. “Hate Radio” di Milo
Rau
Al teatro Piccolo Arsenale, trasformato in uno studio
radiofonico, con gli spettatori/ascoltatori, muniti di cuffie e seduti sia in
platea, sia sul fondo del palcoscenico, è andato in scena Hate Radio, testo e regia Milo Rau; si tratta unaspra e
tagliente rappresentazione che ripercorre i massacri avvenuti in Ruanda, nel
1994, in conseguenza dello scontro fra le etnie Hutu e Tutsi. In primo piano si
ascoltano le testimonianze di quattro sopravvissuti alle stragi, le cui
immagini sono proiettate sulle pareti esterne dello studio radiofonico. Poi
sillumina la redazione di RTLM, la Radio-Télévision Libre des Mille
Collines ruandese, quella che in modo sistematico aveva il compito di
propagandare, senza sosta, la necessità del genocidio dei Tutsi.
Hate Radio di Milo Rau © Daniel Seiffert
La singolare
efficacia dellimpianto scenico, che trasmette una crescente sensazione
claustrofobica, e lammirevole intensità dellinterpretazione, con gli attori
che si comportano come artefici travolti dalla loro stessa follia, rivelano le
potenzialità che il teatro documentario sa mettere in campo sul versante della
riflessione sugli orrori della contemporaneità. Il regista svizzero Rau, che ha
studiato sociologia con Cvetan Todorov
e Pierre Bourdieu, ha costituito nel
2007 lInternational Institute of Political Murder; attraverso attente ricerche
sintendono recuperare scenicamente reperti su accadimenti recenti, quali
lesecuzione dei Ceausescu, oppure il memoriale di Anders Breivik, lautore della carneficina sullisola di Utoya.
Hate Radio fa emergere quel
sottile stadio di assuefazione che la valanga di discorsi deliranti dei tre
conduttori, una donna e due uomini, riversano sugli ascoltatori attraverso un
canale di comunicazione interattivo: giungono le telefonate degli utenti, utilizzate
per rafforzare la caccia al nemico, per giustificare gli assassini di massa, per
esaltare la tutela delle propria identità. Non ci vuole molto a associare
lincubo descritto asetticamente da Milo Rau al martellante lavaggio del
cervello con cui i mass media manipolano episodi della cronaca, rivestendoli di
motivazioni irrazionali: la protezione della razza e della civiltà, il
respingimento del diverso che insidia il proprio spazio vitale, lorgoglio di
una presunta superiorità. La falsificazione della verità si traduce in unarma
letale che prosciuga il cervello e lascia il campo allirrazionalità.
Quella solitudine che
produce angoscia. “Notre peur de nêtre”
di Fabrice Murgia
Fabrice
Murgia,
lartista premiato la scorsa edizione della Biennale Teatro con il Leone
dargento per linnovazione scenica, ha saputo dimostrare con la scrittura
drammaturgica e la realizzazione di Notre peur de nêtre le sue buone
abilità nellutilizzare una pluralità di strumenti espressivi, a partire
dallintreccio fra presenze fisiche e immagini proiettate. Lo spettacolo, già
apprezzato al Festival di Avignone 2014, si concentra sulla malattia che induce
alcuni individui a isolarsi dal mondo: si tratta della sindrome giapponese,
detta hikikomori, che sostituisce al contatto esterno una ininterrotta
connessione attraverso le reti e i supporti tecnologici. Tali individui sono
soggetti che perdono la nozione del tempo per vivere in una sfera virtuale,
irreale e immaginaria.
Notre peur de nêtre di Fabrice Murgia © Jean Louis Fernandez
Definendo
unatmosfera trasognata, attraverso lutilizzo di uno schermo-velario sul quale
si possono vedere le immagini riprese da uno dei protagonisti, insieme a
frammenti di filmati, Murgia elabora uno sconfinamento in un mondo onirico,
oscillante fra lincubo e lautoanalisi. Oltre la ribalta, il cui riquadro
talvolta sillumina, diventando un portaritratti elettronico, si muovono
spezzati di scene, si aprono e chiudono porte, armadi, sedie e scale, mentre si
libera la voce delle narratrici in abito scuro. Gli attori della sua compagnia
Cie Artara declamano con bravura monologhi su situazioni apparentemente
marginali, che però incrociano le storie degli altri prigionieri della solitudine.
Emergono deliri consolatori che non acquietano, né lusingano; si va dai ricordi
di un figlio prigioniero della delusione materna alle confessioni di una
giovane che registra il suo triste diario, alleccitazione di un vedovo che si
consola riascoltando la voce elettronica della donna che dispensa gli avvisi
sul suo smartphone.
Il regista
simpegna a dare un senso tecnologico a una visionarietà priva di speranze;
tende, perciò, a sconfinare oltre le pareti del teatro, fino alla riva del
bacino dellArsenale, oltre il quale sillumina il tramonto rosso arancio di un
tramonto veneziano.
Visioni dinsieme. “El Caballero de Olmedo” di Lluís Pasqual. “The Blind Poet”
di Jan Lauwers
Alla Biennale
Teatro 2015 si sono visti ancora altri spettacoli, che sono state altrettante
occasioni di riflessione sullincerto universo della scena contemporanea.
El Caballero de Olmedo di Lluís Pasqual © Ros Ribas
Un promettente
lavoro scenico preparatorio ha offerto, al teatro alle Tese, Lluís
Pasqual
con ladattamento e la regia di El
Caballero de Olmedo di Félix Lope De Vega. Il cavaliere
protagonista è un personaggio nobile e onesto, soprattutto nel professare il
suo intenso amore per la bella Doña Inés, suscitando la gelosia e la vendetta
di un spasimante senza scrupoli, che lo ucciderà in unimboscata notturna.
Lenergia dei giovani interpreti accentua la preziosa tessitura di un dramma
avvincente, che la regia sviluppa abilmente sullo schema delle varianti del
flamenco. Lintreccio di recitazione, canto e musica contribuisce a rendere
piacevole la messinscena, molto applaudita dal pubblico.
The Blind Poet di Jan Lauwers © Maarten Vanden Abeele
Lesecuzione di The Blind Poet, testo, regia e scene di Jan
Lauwers è parsa frammentaria, un disegno ancora in fieri, seppure lidea di
base e la resa degli artisti siano risultate apprezzabili. Purtroppo Lauwers
tende a interferire direttamente sullesecuzione, non solo con le sue
incursioni interpretative, ma anche con le sue scelte direttive. Si tratta di
un intreccio di episodi soggettivi, per lo più autobiografici, di ciascun
attore che interseca i destini individuali oltre la dimensione spazio temporale
e i cicli generazionali. Emergono, pertanto, le vicende familiari di Grace Ellen Barkey, Jules Beckman, Anna Sophie Bonnema, Hans
Petter Melø Dahl, Benoît Gob, Maarten Seghers, Mohamed Toukabri; questultimo si ispira ai versi di un poeta
arcaico cieco della Siria (Abu al ‘ala
al Maarri, 973-1053), versi che danno il titolo a uno spettacolo sulla
reciproca comprensione sotto le ali della libertà.
|
|