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Sguardi sulla Biennale Teatro 2015

di Carmelo Alberti
  Biennale Teatro 2015
Data di pubblicazione su web 31/08/2015  

Il 43° Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, che si è svolto dal 30 luglio al 9 agosto in vari spazi della città lagunare, ha offerto complessivamente un’apprezzabile panoramica sulla produzione teatrale della generazione dei registi e degli autori che in questi anni governano la scena europea. Non potendo disporre di risorse produttive, la rassegna teatrale, curata dal direttore artistico Àlex Rigola, ha ripiegato su riproposte e recuperi di rappresentazioni già affermate altrove; inevitabilmente, il giudizio sugli spettacoli risulta alterno, anche a causa di alcune inutili inserzioni nel programma e per la matrice frammentaria di alcune ricerche.

Inoltre, da sei anni la manifestazione è legata allo svolgimento dei “College”, un progetto formativo per artisti di varie discipline che si esercitano sotto la guida dei grandi maestri delle arti, della danza, del teatro, della musica e dello spettacolo. Attraverso una serie di laboratori-workshop s’intende realizzare un’occasione di perfezionamento tematizzato, in grado di offrire alle nuove generazioni un valido sostegno alla loro creatività. Il numero crescente di partecipanti, di fatto, finisce per popolare le varie attività previste, dagli incontri alle kermesse, mentre tocca solo ad alcuni gruppi esibirsi in una prova-saggio finale, sintesi del lavoro svolto nei laboratori.

 

Bestiario borghese in un interno. “Das Weisse vom Ei / Une île flottante” di Christoph Marthaler

L’apertura del Festival è spettata di diritto a Christoph Marthaler, il regista svizzero a cui è stato attribuito il Leone d’oro alla carriera 2015: si tratta di un riconoscimento appropriato per un creatore eccentrico e solitario, abituato a intervenire in maniera anticonvenzionale, attraversando con sicurezza un ampia gamma di linguaggi espressivi. Nei suoi spettacoli, contrassegnati da un umorismo paradossale e apparentemente démodé, la musica ha una funzione dirompente.



Das Weisse vom Ei / Une île flottante di Christoph Marthaler
© Simon Hallstrom

Lo spettacolo che ha presentato al teatro alle Tese dell’Arsenale è stato Das Weisse vom Ei / Une île flottante, tratto da La poudre aux yeux di Eugène Labiche; ben presto si avverte come la pochade sia adoperata alla stregua di un riferimento rétro, da smontare e rimontare a piacimento; invero il regista e i suoi collaboratori scelgono di elaborare un testo originale, costruito sulla sovrapposizione linguistica del tedesco e del francese, lingue parlate dalle due famiglie che sfilano in una sequenza di quadri all’interno di uno spazio polivalente, inventato dalla brava scenografa e costumista Anna Viebrock.

All’inizio gli attori compaiono davanti al sipario con un piglio tra l’interrogativo e il divertito, rivolgendo verso gli spettatori uno sguardo attonito, come se si fossero invertiti i ruoli. Subito dopo prevale la scena-ambiente, uno spazio in grado di respirare e d’interloquire con lo sviluppo drammaturgico: ogni singolo elemento, ogni oggetto dialoga con le figure presenti: spicca l’affollata quadreria d’epoca che ritrae gli stessi protagonisti, fino a sovrapporsi ad essi; ma incuriosisce la grande quantità di animali impagliati che girano per la scena e l’addensarsi di reperti-cimeli degli anni Cinquanta e Sessanta. Per sostenere un’azione che gioca sulla reiterazione dei gesti e delle parole Marthaler agisce abilmente sulla scansione del tempo mediante vari accorgimenti. Il suono di una campana lontana, oppure il battere dell’orologio, il richiamo-lamento dei due fidanzati accentuano le pause e i silenzi, che tendono a rimarcare l’ordinaria stanchezza di una quotidianità senza senso.

La dilatazione spazio-temporale finisce per consegnare agli spettatori un ritratto grottesco dei meccanismi scenici. Infatti, dopo aver ridotto in briciole la comicità alla Labiche, Marthaler si diverte a capovolgere la vena apocalittica del teatro dell’assurdo, spingendosi fino a comporre un mosaico di infantilismi che filtrano magicamente sia dagli atteggiamenti dei maturi genitori, sia da quelli degli ingenui giovani amorosi. In tal modo la regia tende a sottrarsi dallo schema delle situazioni comiche, utilizzando spesso gli slogan, poiché nella ricerca della verità è umano chiedere a ciascuno una qualunque risposta.

A questo punto si comprende meglio l’importanza che la musicalità riversa sulla scrittura del progetto scenico; emerge con chiarezza la capacità di costruire una controllata struttura di base, sulla quale s’innesta una disinvolta intromissione di canzoni, filastrocche, cantilene, sospiri amorosi, rumori in scena e fuori scena. Trionfa, alfine, la metafora graffiante di un bestiario borghese in un interno plurale, eterno e immutabile a tal punto da resistere al disfacimento della casa, allo smontaggio sistematico del suo contenuto e all’azzeramento di ogni nostalgia. Bravissimi risultano gli interpreti, a cui si deve un ammirevole rigore espressivo, un sicuro controllo gestuale, una raffinata esecuzione sonoro-linguistica.

 

La tragicità del reale. “Die Ehe der Maria Braun” di Thomas Ostermeier

Il secondo passaggio della Biennale ha segnato una trionfale accoglienza al teatro Goldoni per l’atteso allestimento Die Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun), una riscrittura del film (1979) di Rainer Werner Fassbinder, curata e diretta da Thomas Ostermeier. L’implacabile sguardo critico del regista, direttore artistico della Schaubühne di Berlino, indaga in modo asettico, ma senza esitazioni, le condizioni della Germania post-nazista e le difficoltà della ricomposizione sociale e nazionale. Le vicende di Maria Braun offrono una chiave esemplare per una verifica delle contraddizioni generazionali. Rispetto al film Ostermeier preferisce costruire un flusso narrativo senza soluzione di continuità, tanto che è già in atto mentre gli spettatori entrano in sala. Da subito si avverte quanto sia fondamentale la collaborazione dei cinque protagonisti: Ursina Lardi, che sostiene con sicurezza il personaggio di Maria, e quattro uomini, Thomas Bading, Robert Beyer, Moritz Gottwald e Sebastian Schwarz, ai quali sono affidati i numerosi ruoli della vicenda, sostenuti spesso en travesti.



Die Ehe der Maria Braun di Thomas Ostermeier
© Arno Declair

L’andamento descrittivo consolida la linearità di una trama sentimentale, messa in crisi dalle incongruenze del mondo circostante. Il matrimonio fra Maria e Hermann è interrotto frettolosamente dalla partenza per la guerra; mentre il marito, soldato nazista, è considerato disperso, la donna finisce per mettere a frutto la sua avvenenza, dapprima tra i militari americani, poi al fianco di un vecchio industriale. L’ambiguità si fa stridente dopo il ritorno e la scarcerazione dello sposo; mentre riaffiorano i segni della reciproca affettività, si acuiscono le difficoltà di decidere coerentemente sul futuro. La morte del ricco amante, che offre un lascito consistente alla coppia, sembra aprire uno spiraglio per una soluzione positiva, ma quelle vite sono oramai travolte da una fiammata esplosiva, un inevitabile lampo distruttivo. Non sono solo le loro vite a disgregarsi, visto che sullo sfondo il regista fa scorrere le immagini delle tensioni che percorrono la nuova Germania.

Se si escludono pochi riferimenti alla dinamica straniata del film di Fassbinder, la proposta di Thomas Ostermeier porta il segno indelebile della sua creatività, che sa come evidenziare una molteplicità di piani rappresentativi fino al controllo della tragicità del reale; inoltre, la tessitura registica riesce a inglobare nella rappresentazione la presenza del pubblico, a cui consegna un insieme di dubbi e di quesiti sull’incongruente intreccio tra la vita e la storia.

 

Lo specchio naturale. “Hamlet” di Oskaras Koršunovas

Un’interessante soluzione, una fra le infinite varianti metaforiche che permette la messinscena dell’Amleto di Shakespeare, è stata presentata da Oskaras Koršunovas al teatro Goldoni; si ricorda che lo spettacolo è nato nel 2008, e si era già visto a Roma nel 2009 e a Pontedera nel 2011. Anche stavolta, entrando, lo spettatore trova gli attori seduti di spalle dinanzi agli specchi del trucco, illuminati da una luce intensa e livida, che li lascia fluttuare nell’oscurità retrostante del palcoscenico. L’azione procede dall’interrogativo iniziale: «chi sei?»; è la domanda indirizzata allo spettro, che diventa la chiave di un insieme di piani scenici che riguardano la metamorfosi dei teatranti, l’essenza dell’interpretazione (verità o invenzione?) e, di riflesso, l’ambiguità della condizione umana. Lo specchio della natura, definita dal regista lituano mediante un intreccio degli elementi primari, riflette la tragicità dei conflitti inaspettati che sconvolgono l’ordine apparente. La messinscena valorizza, soprattutto, la singolare fisicità degli esecutori, impegnati per più di tre ore a organizzare uno spazio della memoria infinito, nel quale l’immagine del re buono si oppone all’indegno usurpatore che insieme al congiunto ha ucciso la virtù.



Hamlet di Oskaras Koršunovas
© Dmitrijus Matvejevas

La formidabile preparazione tecnica degli attori dell’OKT/Vilnius City Theatre, in grado di svelare emozioni anche attraverso la fissità del volto e dello sguardo, si traduce in un confronto triangolare, che lascia emergere il conflitto con se stessi, con gli altri personaggi e con il mondo, una lotta che è soffocata dai riflessi nefasti che la manipolazione della memoria getta sul presente. È inevitabile che tale disordine sconvolga prima di tutto la dinamica generazionale, fino a trasfigurare la vita alla stregua di una cruda e volubile recita; ma affiora con violenza nei rapporti uomo/donna, maschile/femminile. Spicca, tra gli altri, l’instancabile presenza di Darius Meskauskas, nei panni di un Hamletas tormentato dalla ricerca di una soluzione esistenziale e strategica, a un tempo, che sia grado di condurre a termine l’inevitabile vendetta. La stanza del trucco si trasforma in uno spazio plurale che non perde mai la sua matrice di luogo delle trasformazioni.

Mentre echeggiano le musiche di Antanas Jasenka e sibilano le stridenti sonorità inventate da Ignas Juzokas, i personaggi emergono negli interstizi dei camerini/specchio, saltano da una scena all’altra mentre in aria volteggiano oggetti, simili a sovrabbondanti tracce di una simbologia sepolta dalla polvere del tempo. Le tracce di rosso sul volto, sul corpo, nei fazzoletti di carta lanciati sulla scena, perforano il netto contrasto fra luce e buio, mentre la lingua lituana accentua i riferimenti a un contesto arcaico aspro e travolgente. Con alle spalle un’intensa frequentazione shakespeariana, l’Hamletas di Koršunovas sviluppa un viaggio esemplare che insiste prima di tutto sulle condizioni della nostra contemporaneità.

 

L’arma letale delle false verità. “Hate Radio” di Milo Rau

Al teatro Piccolo Arsenale, trasformato in uno studio radiofonico, con gli spettatori/ascoltatori, muniti di cuffie e seduti sia in platea, sia sul fondo del palcoscenico, è andato in scena Hate Radio, testo e regia Milo Rau; si tratta un’aspra e tagliente rappresentazione che ripercorre i massacri avvenuti in Ruanda, nel 1994, in conseguenza dello scontro fra le etnie Hutu e Tutsi. In primo piano si ascoltano le testimonianze di quattro sopravvissuti alle stragi, le cui immagini sono proiettate sulle pareti esterne dello studio radiofonico. Poi s’illumina la redazione di RTLM, la Radio-Télévision Libre des Mille Collines ruandese, quella che in modo sistematico aveva il compito di propagandare, senza sosta, la necessità del genocidio dei Tutsi.



Hate Radio di Milo Rau
© Daniel Seiffert

La singolare efficacia dell’impianto scenico, che trasmette una crescente sensazione claustrofobica, e l’ammirevole intensità dell’interpretazione, con gli attori che si comportano come artefici travolti dalla loro stessa follia, rivelano le potenzialità che il teatro documentario sa mettere in campo sul versante della riflessione sugli orrori della contemporaneità. Il regista svizzero Rau, che ha studiato sociologia con Cvetan Todorov e Pierre Bourdieu, ha costituito nel 2007 l’International Institute of Political Murder; attraverso attente ricerche s’intendono recuperare scenicamente reperti su accadimenti recenti, quali l’esecuzione dei Ceausescu, oppure il memoriale di Anders Breivik, l’autore della carneficina sull’isola di Utoya.

Hate Radio fa emergere quel sottile stadio di assuefazione che la valanga di discorsi deliranti dei tre conduttori, una donna e due uomini, riversano sugli ascoltatori attraverso un canale di comunicazione interattivo: giungono le telefonate degli utenti, utilizzate per rafforzare la caccia al nemico, per giustificare gli assassini di massa, per esaltare la tutela delle propria identità. Non ci vuole molto a associare l’incubo descritto asetticamente da Milo Rau al martellante lavaggio del cervello con cui i mass media manipolano episodi della cronaca, rivestendoli di motivazioni irrazionali: la protezione della razza e della civiltà, il respingimento del diverso che insidia il proprio spazio vitale, l’orgoglio di una presunta superiorità. La falsificazione della verità si traduce in un’arma letale che prosciuga il cervello e lascia il campo all’irrazionalità.

 

Quella solitudine che produce angoscia. “Notre peur de n’être” di Fabrice Murgia

Fabrice Murgia, l’artista premiato la scorsa edizione della Biennale Teatro con il Leone d’argento per l’innovazione scenica, ha saputo dimostrare con la scrittura drammaturgica e la realizzazione di Notre peur de n’être le sue buone abilità nell’utilizzare una pluralità di strumenti espressivi, a partire dall’intreccio fra presenze fisiche e immagini proiettate. Lo spettacolo, già apprezzato al Festival di Avignone 2014, si concentra sulla malattia che induce alcuni individui a isolarsi dal mondo: si tratta della sindrome giapponese, detta hikikomori, che sostituisce al contatto esterno una ininterrotta connessione attraverso le reti e i supporti tecnologici. Tali individui sono soggetti che perdono la nozione del tempo per vivere in una sfera virtuale, irreale e immaginaria.



Notre peur de n’être di Fabrice Murgia
© Jean Louis Fernandez

Definendo un’atmosfera trasognata, attraverso l’utilizzo di uno schermo-velario sul quale si possono vedere le immagini riprese da uno dei protagonisti, insieme a frammenti di filmati, Murgia elabora uno sconfinamento in un mondo onirico, oscillante fra l’incubo e l’autoanalisi. Oltre la ribalta, il cui riquadro talvolta s’illumina, diventando un portaritratti elettronico, si muovono spezzati di scene, si aprono e chiudono porte, armadi, sedie e scale, mentre si libera la voce delle narratrici in abito scuro. Gli attori della sua compagnia Cie Artara declamano con bravura monologhi su situazioni apparentemente marginali, che però incrociano le storie degli altri prigionieri della solitudine. Emergono deliri consolatori che non acquietano, né lusingano; si va dai ricordi di un figlio prigioniero della delusione materna alle confessioni di una giovane che registra il suo triste diario, all’eccitazione di un vedovo che si consola riascoltando la voce elettronica della donna che dispensa gli avvisi sul suo smartphone.

Il regista s’impegna a dare un senso tecnologico a una visionarietà priva di speranze; tende, perciò, a sconfinare oltre le pareti del teatro, fino alla riva del bacino dell’Arsenale, oltre il quale s’illumina il tramonto rosso arancio di un tramonto veneziano.

 

Visioni d’insieme. “El Caballero de Olmedo” di Lluís Pasqual. “The Blind Poet” di Jan Lauwers

Alla Biennale Teatro 2015 si sono visti ancora altri spettacoli, che sono state altrettante occasioni di riflessione sull’incerto universo della scena contemporanea. 



El Caballero de Olmedo di Lluís Pasqual
© Ros Ribas

Un promettente lavoro scenico preparatorio ha offerto, al teatro alle Tese, Lluís Pasqual con l’adattamento e la regia di El Caballero de Olmedo di Félix Lope De Vega. Il cavaliere protagonista è un personaggio nobile e onesto, soprattutto nel professare il suo intenso amore per la bella Doña Inés, suscitando la gelosia e la vendetta di un spasimante senza scrupoli, che lo ucciderà in un’imboscata notturna. L’energia dei giovani interpreti accentua la preziosa tessitura di un dramma avvincente, che la regia sviluppa abilmente sullo schema delle varianti del flamenco. L’intreccio di recitazione, canto e musica contribuisce a rendere piacevole la messinscena, molto applaudita dal pubblico.



The Blind Poet di Jan Lauwers
© Maarten Vanden Abeele

L’esecuzione di The Blind Poet, testo, regia e scene di Jan Lauwers è parsa frammentaria, un disegno ancora in fieri, seppure l’idea di base e la resa degli artisti siano risultate apprezzabili. Purtroppo Lauwers tende a interferire direttamente sull’esecuzione, non solo con le sue incursioni interpretative, ma anche con le sue scelte direttive. Si tratta di un intreccio di episodi soggettivi, per lo più autobiografici, di ciascun attore che interseca i destini individuali oltre la dimensione spazio temporale e i cicli generazionali. Emergono, pertanto, le vicende familiari di Grace Ellen Barkey, Jules Beckman, Anna Sophie Bonnema, Hans Petter Melø Dahl, Benoît Gob, Maarten Seghers, Mohamed Toukabri; quest’ultimo si ispira ai versi di un poeta arcaico cieco della Siria (Abu al ‘ala al Ma’arri, 973-1053), versi che danno il titolo a uno spettacolo sulla reciproca comprensione sotto le ali della libertà.




Biennale Teatro 2015
Das Weisse vom Ei / Une île flottante
cast cast & credits
 
Die Ehe der Maria Braun
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Hamletas
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Hate Radio
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Notre peur de n’être
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El Caballero de Olmedo
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The Blind Poet
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