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Al Teatro dell’Opera in scena una Dama di picche dai toni espressionisti

di Riccardo Cenci
  la dama di picche
Data di pubblicazione su web 29/06/2015  

L’idea che governa La dama di picche presentata al Teatro dell’Opera di Roma è tutta in quel sipario mostrato all’inizio, sul quale un volto dal fascino vagamente boldiniano subisce una orrenda metamorfosi, assumendo i tratti distorti di un quadro espressionista. L’abisso dell’irrazionale, del quale Čajkovskij aveva subìto il fascino irresistibile, decidendo di mettere in musica il racconto di Puškin, si svela in tutta la sua cruda evidenza.

L’allestimento, pensato da Richard Jones e andato in scena a Bologna nel lontano 2002, ripreso per l’occasione da Benjamin Davis, rinuncia a tutti gli orpelli e ai fasti pietroburghesi per precipitare la vicenda in atmosfere fosche e dominate da una tinta scura. Le stanze appaiono squallide e corrose da un’inarrestabile umidità, così come intimamente disfatti sono gli animi dei protagonisti. Eppure il compositore russo aveva vergato la partitura, forse la più alta della sua produzione, nei solari paesaggi italiani, prima di essere ricondotto in patria dalla consueta melanconia generata dalla prolungata lontananza. Anche a così grande distanza di tempo lo spettacolo conserva una sua forte carica teatrale, un fascino onirico che inchioda lo spettatore alla poltrona.

Fin dalla sua prima apparizione in scena German mostra la propria alterità rispetto a quanto lo circonda, evidenziando tratti sulfurei che lo accomunano a certe immagini demoniache dipinte da Vrubel'. In quest’ottica Tomskij diviene un vero e proprio diavolo tentatore, una sorta di Mefistofele russo al quale German cede la propria anima. La vicenda ruota attorno all’idea dell’incontro fatale. Il protagonista è legato per vie misteriose all’anziana contessa, una volta talmente bella da essere definita la “Venere moscovita”. 



Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama

La nipote Liza è una sorta di doppio della stregonesca megera, la ragazza innocente sulla quale German può trasferire il proprio sentimento d’amore. Qui troviamo i maggiori scostamenti dalla narrazione puškiana. Liza non è un’anonima damigella, ma è la nipote della contessa. Al termine del percorso melodrammatico si uccide per la disperazione, mentre nel racconto finisce per sposare un giovane “in possesso di un discreto patrimonio”. German sembra innamorarsene veramente, salvo poi mostrare come la sua esistenza sia governata da desideri violenti e dal “disordine di un’immaginazione sfrenata”.

Il personaggio evolve in maniera repentina e ambigua dal ruolo del tradizionale amoroso a quello dell’uomo preda di forze più grandi di lui, vittima del demone del gioco inteso come metafora del destino. Jones trasforma in maniera fortemente espressiva i classici idilli che l’autore profonde nel secondo atto dell’opera. Mentre la musica di Čajkovskij, anacronisticamente modellata sul dettato mozartiano, sembra voler momentaneamente accantonare le romantiche inquietudini e i languori notturni, il regista ci ricorda che siamo al cospetto di un lavoro intriso di simboli demoniaci. Le marionette che inscenano l’intermezzo pastorale veicolano un senso di assoluto turbamento. Il sogno d’amore non trionfa, ma viene distrutto dall’arroganza del denaro, dalla violenza perpetrata ai danni della povera pastorella. L’idillio si trasforma in incubo, conferendo significato drammaturgico a quella che era una semplice digressione.

Ancora molto efficace la scena dell’incontro fra i due protagonisti. La contessa si prepara al sonno come se si preparasse alla morte. Il fatto di mostrarla solo di schiena, mentre è immersa nella vasca, intensifica la temperatura drammatica. German è al cospetto delle proprie ossessioni. Tutto potrebbe avvenire solo nella sua mente e infatti la contessa non canta né parla durante l’intera scena. Il filo invisibile che lega i loro destini diviene esplicito. La musica sembra disgregarsi come la coscienza stessa di German. La vecchia non rivela ancora il segreto delle tre carte, il tormento che domina l’animo del protagonista dall’istante in cui Tomskij l’ha palesato nel primo atto. Lo farà in sogno all’inizio del terzo.

Un momento straordinario nel quale il compositore, certo non immemore dei deliri pensati da Mussorgskij per Boris Godunov, usa in maniera particolarmente suggestiva il coro fuori scena. Qui German non appare seduto, come indicato nel libretto, ma nel suo letto preda degli incubi più atroci. La scena lo rappresenta come se venisse inquadrato dall’alto – altra mirabile invenzione – chiuso nella claustrofobica nudità della sua stanza. La vecchia gli appare sotto forma di ripugnante scheletro, per rivelargli le tre carte che dovrebbero consegnargli la ricchezza e che invece lo precipitano nella più tetra dannazione.

Come nel giocatore di Dostoevskij, German, che all’inizio appare come l’amante infelice, si maschera dietro la falsa necessità di vincere alle carte per riscattare l’amore di Liza, mentre in realtà è guidato dalla cieca volontà di misurarsi con il destino, a qualsiasi costo. Non a caso nella scena successiva appare definitivamente perso nel proprio delirio. Il regista ce lo mostra abbigliato come un alienato, con uno sciatto pigiama a righe, costruendo un collegamento con l’originale di Puškin nel quale German è destinato al manicomio. Di fronte all’orrenda realtà Liza non può far altro che porre termine alla propria vita. Richard Jones sostituisce, al suicidio romantico nelle acque gelide della Neva, un crudo soffocamento con un sacchetto di plastica, maggiormente in linea con la propria visione drammaturgica.



Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama

L’ultima scena ribadisce il carattere mefistofelico di Tomskij. Il quadro con il volto della contessa giovane è relegato nel fondo, squarciato come una tela di Burri. Lo spettro della megera appare ancora una volta a suggellare un destino già scritto. Una volta compreso l’inganno, dopo aver puntato tutto sull’ultima carta e aver intravisto il ghigno beffardo della dama di picche, German pone fine ai propri giorni, mentre Tomskij gli aleggia intorno come un oscuro messaggero di morte.

Complessivamente buona l’esecuzione musicale. Dopo un primo atto un poco in sordina, la lettura di James Colon cresce nel secondo e nel terzo. Il direttore statunitense poco concede ai languori romantici cari al compositore russo, proponendo invece una interpretazione asciutta e percorsa da un inestinguibile fremito tragico, in linea con l’impostazione dello spettacolo.

Buono nel complesso il cast. Makism Azenov mostra una voce solida e sicura, che gli permette affrontare il  massacrante ruolo di German senza cedimenti. Se qualcosa gli manca, è un maggiore approfondimento interpretativo. Tómas Tómasson (Tomskij) ha invece grande presenza scenica, ma l’intonazione è incerta e gli acuti sono sovente urlati. Oksana Dyka è una Liza dalla vocalità limpida, innocente e pura come si conviene. Elena Zaremba è una brava contessa, anche se non sempre così agghiacciante come il ruolo richiede. Ottimo, infine, Vitalij Bilyy nei panni del principe Eleckij, promesso sposo e sincero innamorato di una Liza destinata a ben più tragico destino, il quale trae il massimo dall’aria a sua disposizione, cantata con lirismo e trasporto.

Teatro non pieno, come era da aspettarsi in un sabato estivo. Peccato, perché La dama di picche era apparsa una sola volta nel lontano 1956, e lo spettacolo avrebbe meritato una maggiore attenzione. Il pubblico presente ha comunque dimostrato di apprezzare.




La dama di picche
Opera in tre atti


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