Lidea
che governa La dama di picche presentata al Teatro dellOpera di Roma è tutta in
quel sipario mostrato allinizio, sul quale un volto dal fascino vagamente
boldiniano subisce una orrenda metamorfosi, assumendo i tratti distorti di un
quadro espressionista. Labisso dellirrazionale, del quale Čajkovskij aveva subìto il fascino
irresistibile, decidendo di mettere in musica il racconto di Puškin, si svela in tutta la sua cruda
evidenza.
Lallestimento,
pensato da Richard Jones e andato in
scena a Bologna nel lontano 2002, ripreso per loccasione da Benjamin Davis, rinuncia a tutti gli
orpelli e ai fasti pietroburghesi per precipitare la vicenda in atmosfere
fosche e dominate da una tinta scura. Le stanze appaiono squallide e corrose da
uninarrestabile umidità, così come intimamente disfatti sono gli animi dei
protagonisti. Eppure il compositore russo aveva vergato la partitura, forse la
più alta della sua produzione, nei solari paesaggi italiani, prima di essere
ricondotto in patria dalla consueta melanconia generata dalla prolungata lontananza.
Anche a così grande distanza di tempo lo spettacolo conserva una sua forte
carica teatrale, un fascino onirico che inchioda lo spettatore alla poltrona.
Fin
dalla sua prima apparizione in scena German mostra la propria alterità rispetto
a quanto lo circonda, evidenziando tratti sulfurei che lo accomunano a certe
immagini demoniache dipinte da Vrubel'.
In questottica Tomskij diviene un vero e proprio diavolo tentatore, una sorta
di Mefistofele russo al quale German cede la propria anima. La vicenda ruota
attorno allidea dellincontro fatale. Il protagonista è legato per vie
misteriose allanziana contessa, una volta talmente bella da essere definita la
“Venere moscovita”.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
La
nipote Liza è una sorta di doppio della stregonesca megera, la ragazza
innocente sulla quale German può trasferire il proprio sentimento damore. Qui
troviamo i maggiori scostamenti dalla narrazione puškiana. Liza non è
unanonima damigella, ma è la nipote della contessa. Al termine del percorso
melodrammatico si uccide per la disperazione, mentre nel racconto finisce per
sposare un giovane “in possesso di un discreto patrimonio”. German sembra
innamorarsene veramente, salvo poi mostrare come la sua esistenza sia governata
da desideri violenti e dal “disordine di unimmaginazione sfrenata”.
Il
personaggio evolve in maniera repentina e ambigua dal ruolo del tradizionale
amoroso a quello delluomo preda di forze più grandi di lui, vittima del demone
del gioco inteso come metafora del destino. Jones trasforma in maniera
fortemente espressiva i classici idilli che lautore profonde nel secondo atto
dellopera. Mentre la musica di Čajkovskij, anacronisticamente modellata sul
dettato mozartiano, sembra voler momentaneamente accantonare le romantiche
inquietudini e i languori notturni, il regista ci ricorda che siamo al cospetto
di un lavoro intriso di simboli demoniaci. Le marionette che inscenano
lintermezzo pastorale veicolano un senso di assoluto turbamento. Il sogno
damore non trionfa, ma viene distrutto dallarroganza del denaro, dalla
violenza perpetrata ai danni della povera pastorella. Lidillio si trasforma in
incubo, conferendo significato drammaturgico a quella che era una semplice
digressione.
Ancora
molto efficace la scena dellincontro fra i due protagonisti. La contessa si
prepara al sonno come se si preparasse alla morte. Il fatto di mostrarla solo
di schiena, mentre è immersa nella vasca, intensifica la temperatura
drammatica. German è al cospetto delle proprie ossessioni. Tutto potrebbe
avvenire solo nella sua mente e infatti la contessa non canta né parla durante
lintera scena. Il filo invisibile che lega i loro destini diviene esplicito. La
musica sembra disgregarsi come la coscienza stessa di German. La vecchia non
rivela ancora il segreto delle tre carte, il tormento che domina lanimo del
protagonista dallistante in cui Tomskij lha palesato nel primo atto. Lo farà
in sogno allinizio del terzo.
Un
momento straordinario nel quale il compositore, certo non immemore dei deliri
pensati da Mussorgskij per Boris Godunov, usa in maniera
particolarmente suggestiva il coro fuori scena. Qui German non appare seduto,
come indicato nel libretto, ma nel suo letto preda degli incubi più atroci. La
scena lo rappresenta come se venisse inquadrato dallalto – altra mirabile
invenzione – chiuso nella claustrofobica nudità della sua stanza. La vecchia
gli appare sotto forma di ripugnante scheletro, per rivelargli le tre carte che
dovrebbero consegnargli la ricchezza e che invece lo precipitano nella più
tetra dannazione.
Come
nel giocatore di Dostoevskij, German,
che allinizio appare come lamante infelice, si maschera dietro la falsa
necessità di vincere alle carte per riscattare lamore di Liza, mentre in
realtà è guidato dalla cieca volontà di misurarsi con il destino, a qualsiasi
costo. Non a caso nella scena successiva appare definitivamente perso nel
proprio delirio. Il regista ce lo mostra abbigliato come un alienato, con uno
sciatto pigiama a righe, costruendo un collegamento con loriginale di Puškin
nel quale German è destinato al manicomio. Di fronte allorrenda realtà Liza
non può far altro che porre termine alla propria vita. Richard Jones
sostituisce, al suicidio romantico nelle acque gelide della Neva, un crudo
soffocamento con un sacchetto di plastica, maggiormente in linea con la propria
visione drammaturgica.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
Lultima
scena ribadisce il carattere mefistofelico di Tomskij. Il quadro con il volto
della contessa giovane è relegato nel fondo, squarciato come una tela di Burri. Lo spettro della megera appare
ancora una volta a suggellare un destino già scritto. Una volta compreso
linganno, dopo aver puntato tutto sullultima carta e aver intravisto il
ghigno beffardo della dama di picche, German pone fine ai propri giorni, mentre
Tomskij gli aleggia intorno come un oscuro messaggero di morte.
Complessivamente
buona lesecuzione musicale. Dopo un primo atto un poco in sordina, la lettura
di James Colon cresce nel secondo e
nel terzo. Il direttore statunitense poco concede ai languori romantici cari al
compositore russo, proponendo invece una interpretazione asciutta e percorsa da
un inestinguibile fremito tragico, in linea con limpostazione dello spettacolo.
Buono
nel complesso il cast. Makism Azenov mostra una voce solida e sicura, che gli permette affrontare il massacrante ruolo di German senza cedimenti.
Se qualcosa gli manca, è un maggiore approfondimento interpretativo. Tómas Tómasson (Tomskij) ha invece
grande presenza scenica, ma lintonazione è incerta e gli acuti sono sovente
urlati. Oksana Dyka è una Liza dalla
vocalità limpida, innocente e pura come si conviene. Elena Zaremba è una brava contessa, anche se non sempre così
agghiacciante come il ruolo richiede. Ottimo, infine, Vitalij Bilyy nei panni del principe Eleckij, promesso sposo e
sincero innamorato di una Liza destinata a ben più tragico destino, il quale trae
il massimo dallaria a sua disposizione, cantata con lirismo e trasporto.
Teatro
non pieno, come era da aspettarsi in un sabato estivo. Peccato, perché La dama di picche era apparsa una sola
volta nel lontano 1956, e lo spettacolo avrebbe meritato una maggiore
attenzione. Il pubblico presente ha comunque dimostrato di apprezzare.
|
|