Lanno che stiamo vivendo coincide con il
centocinquantenario dalla nascita di Carl
Nielsen. Non sapete chi sia? Grave,
tutto sommato, ma non preoccupante: già mezzo secolo fa, in occasione del
centenario, i musicologi riunitisi per fondare una società di studi a lui
dedicata dovettero alzare bandiera bianca, rendendosi conto che, allinfuori
della Scandinavia, i suoi lavori erano troppo poco conosciuti per impostare una
progettualità dal respiro realmente internazionale.
Sta di fatto che Nielsen può essere considerato, a
buon diritto, come il maggior compositore danese di tutti i tempi. Figlio di
una civiltà musicale che, almeno a Vienna, si accapigliava tra wagneristi e brahmsiani,
trovò appunto in Wagner e Brahms i fari di riferimento. Le sue
due uniche opere lo qualificheranno come autore “straussiano”, sia per i
soggetti (da un lato la commedia sofisticata Maskarade, dallaltro il dramma biblico Saul e David: detto altrimenti, di qua Il Cavaliere della rosa, di là Salomé) sia
per unorchestra protagonistica persino nei primi piani canori; tuttavia, lintimo
equilibrio tra parola e suono è a tutti gli effetti wagneriano. Viceversa, il
Nielsen sinfonico, poco meno negletto di quello operistico, mostra invece una
lucidità espositiva e una percezione delle proporzioni di inequivocabile
ascendenza brahmsiana.
Un momento dello spettacolo © Signe Roderik Il centocinquantenario è stato celebrato
nel nuovo Teatro dellOpera di Copenhagen (che a sua volta nel 2015 festeggia
il decennale della sua costruzione), proponendo nella stessa stagione Maskarade e Saul e David. Per questultimo, in particolare, è stato deciso di
fare le cose in grande, ricorrendo al più illustre direttore dorchestra danese
– Michael Schønwandt – e a un
regista di fama europea come David Pountney, in confidenza con il teatro
di Nielsen dai tempi di una celebre messinscena di Maskarade al Festival di Bregenz. Se a ciò si aggiunge, nella parte
di Saul, un baritono come Johan Reuter, membro della compagnia stabile
del teatro, ma al centro anche di importanti produzioni internazionali, diventa
chiaro come il terreno sia maturo per una semina feconda: lo spettacolo –
applauditissimo dallintera stampa scandinava – avrebbe dovuto sollecitare lattenzione
anche dei critici di meno nordiche contrade europee.
Nata allalba del vecchio secolo (1902), più oratoriale
che operistica quanto a massiccia solidità dellimpianto, e con una ricchezza della
strumentazione che sembra sfociare in tanti tableaux sinfonico-vocali, Saul e David lascia
comunque vibrare un preciso appeal teatrale. Lattrazione-repulsione tra il tormentato e iracondo re di Israele e
il pastore serenamente eroico che abbatterà Golia non è solo lo scontro di due temperamenti
opposti: piuttosto, travalicando il dato biblico, è lurto tra due generazioni,
la collisione tra una vecchiaia a cui il potere ha sottratto lucidità e una
giovinezza incontaminata, ma consapevole del suo predominio. Tuttavia, il
passaggio delle consegne, con il pastorello mutato in capopopolo, verosimilmente
trasfonderà in David tutte le ansie e i rancori di Saul. La dicotomia tra opera e oratorio, daltronde, investe
molti altri titoli di soggetto biblico: tramontata lurgenza patriottica, oggi si
torna a vedere in Nabucco più unopera
“sacra” che un melodramma risorgimentale. Sullaltro versante, Samson et Dalila, ritenuto la
quintessenza del più sensuale decadentismo francese, fu concepito a Weimar come
un severo dramma in lingua tedesca desunto dal Vecchio Testamento. Se, nel caso
di Nielsen, lausterità del soggetto si stempera in uno psicologismo di grande
spessore drammaturgico, il merito, però, è anche del libretto: giornalista, commediografo
e regista, Einar Christiansen è nome ignorato dai
dizionari dello spettacolo pubblicati in Italia, e questa sarebbe unaltra lacuna
da colmare.
Più che nei momenti solistici (pur talvolta
memorabili, come nel caso del metafisico e bestemmiante soliloquio di Saul), la
maestria del Nielsen drammaturgo musicale sinnalza soprattutto nelle parti
corali e negli interludi di raccordo tra un atto e laltro. Schønwandt, dal
podio, ne è consapevole: emerge la grandiosità della partitura (larticolatissimo
quintetto fugato del terzo atto si pone in tutta la sua forza drammatica), ma senza
bisogno di affondi magniloquenti; al contrario, il dettato musicale scorre con una
flessibilità e una continuità esemplari. Merito, pure, dellorchestra del teatro
danese, felicemente consonante con questa musica e capace di restituirla con un
nitore traslucido che, tuttavia, nulla sottrae allimmediata cupezza della
vicenda.
Pountney, invece, mira a una rilettura in chiave
politica: fin troppo ovvia, forse, ma non gratuita, e comunque corroborata da
un gran mestiere registico. Nielsen, daltronde, nacque allindomani della
guerra tedesco-danese, che sancì per la Danimarca la perdita dei territori
dello Schleswig-Holstein: la matrice nazionalistica che permea sottopelle la
vicenda – i filistei invasori intesi quale possibile riverbero degli occupanti
prussiani – viene evidenziata dal regista, che sposta la vicenda nellodierno
Medio Oriente, con tutti i conflitti che lo flagellano (David appare come un
palestinese). La regia si astiene da posizioni ideologiche (Pountney non sposa
la causa delluno o dellaltro personaggio, trapela pietas per tutti e simpatia per nessuno), ma non rinuncia ad
affondi moralistici. I vari interludi, infatti, vengono trasformati in sarcastiche
pantomime, dove ballerini in costumi di varie nazionalità volgono in risibile siparietto
le riunioni – tanto fervide quanto inutili – del consiglio di sicurezza
dellOnu: ma se la coreografa Rebekka
Lund impagina con classe e ironia, resta
limpressione che linnesto satirico-danzante sia un corpo estraneo.
Un momento dello spettacolo © Signe Roderik Più suggestive certe immagini metaforiche, che
trasmettono la sensazione della nemesi storica: come quel gancio uncinato con
cui Saul – in luogo della spada prevista dal libretto – sceglie di uccidersi, e
che è lo stesso rampone da dove, nel primo atto, pendeva il toro offerto quale
animale sacrificale, in unimmolazione blasfema (il profeta Samuele aveva detto
a chiare lettere che Dio non gradiva questolocausto) da cui scaturiscono tutte
le disavventure del popolo dIsraele raccontate nellopera. Notevolissimo, poi,
il lavoro di scavo sul protagonista. Ma qui entrano in gioco le qualità sceniche
di Reuter.
Alle prese con una scrittura anfibia, confacente a un
baritono come a un basso (di Saul si fece carico pure Boris Christoff, in una
delle rare riprese non scandinave di questopera nel dopoguerra), Reuter mostra
una consistenza vocale e una psicologia canora baritonali, a tutti gli effetti,
unite a un formidabile senso del declamato (che non intacca però le occasionali
virate nel cantabile) e a unemissione solidissima, tale da fronteggiare con
sicurezza uno spessore orchestrale proibitivo per le voci. Prestante ma vecchio
“dentro”, intenso fraseggiatore e attore autorevolissimo, questo Saul ha solo il
torto di far sfigurare un po il coprotagonista. Ma non si potrà negare a Niels Jorgen Riis di render giustizia
ai divergenti desiderata vocali di
David, costruendo unossimorica fisionomia di Heldentenor lirico che, per questo ruolo, è come una quadratura del
cerchio.
Forse più gradevole, ma pure agevolato da una
scrittura più spiccatamente liricizzante, laltro tenore Michael Kristensen; non priva di qualche stridore, per contro, la
prova del pur intenso soprano Ann Petersen. Il gruppo dei protagonisti si
chiude poi con due ruoli che Verdi
avrebbe volentieri sottoscritto: Samuele, un archetipico basso sacerdotale e
ieratico, e lIndovina, un contralto a mezza strada tra magia e ciarlataneria (diretta
discendente dellUlrica del Ballo in maschera). Senza avere la voce profonda e sepolcrale richiesta dal
personaggio, Morten Staugaard dà
comunque vita a una caratterizzazione molto icastica; di stampo diverso
linterpretazione di Johanne Bock,
che circoscrive la sua fattucchiera
al registro grottesco, sottodimensionandola, in linea con la regia di Pountney.
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