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La danza del vespro

di Paolo Patrizi
  Les vêpres siciliennes
Data di pubblicazione su web 15/06/2015  

Se Verdi diceva che «inventare il Vero» è meglio di «copiare il Vero» (poiché, specificava, l’uno è «Pittura», con la “p” maiuscola, e l’altro solo «fotografia», con la “f” minuscola), bisognerà andar cauti nell’indignarsi davanti a una regia dei Vespri siciliani come quella di Stefan Herheim, nata qualche anno fa a Londra – uno spettacolo prontamente diffuso in dvd – e ora ripresa alla nuova Opera di Copenhagen: un edificio modernissimo specchiato nell’acqua che, a dieci anni dalla sua edificazione, ha quasi rivoluzionato il volto architettonico della città e impresso un rinnovato impulso alla sua vita musicale.

Visti fino a qualche tempo fa come un’ultima propaggine (la “prima” risale al 1855) del Verdi risorgimentale, Les vêpres siciliennes – a Copenhagen si è dato l’originale francese, non la versione italiana – sono infatti qualcosa di più complesso. Per la prima volta a tu per tu con una commissione parigina ex novo, Verdi non prese le misure con la consueta accortezza: ne scaturì un affascinante prodotto multiculturale, un po’ irrisolto nella dialettica tra esigenze della committenza e personale linguaggio dell’autore, dove la griglia imposta dal genere Grand-opéra sembra un pedaggio, anziché un binario dove instradarsi in pieno convincimento, e la drammaturgia appare meno coesa rispetto a tanti lavori del Verdi cosiddetto minore. L’eloquenza patriottica e la retorica barricadiera dell’Attila o della Battaglia di Legnano cedono il passo alla dicotomia tra politica e sentimento, ben riassunta dal frastagliatissimo ruolo di Monforte, scisso tra cuore amoroso del padre e anima nera del potente: e la regia di Herheim appunto sulle ambiguità dei personaggi costruisce il suo percorso.

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Un momento dello spettacolo © Miklos Szabo

La drammaturgia di Alexander Meier-Dörzenbach, su cui il regista ha lavorato, è assai destrutturante rispetto al testo originale, ma la cosa non rappresenta un danno a priori data la farraginosità del libretto di Scribe. Proprio la natura di Grand-opéra diventa qui la chiave ermeneutica per barcamenarsi tra finzione teatrale e verità storica: partendo dal presupposto che è l’apparato coreografico, prima ancora del plateau vocale, il cuore pulsante di ogni drammaturgia grandoperistica, tutto viene raccontato dal punto di vista di Giovanni da Procida, trasformando questo celebre medico rivoluzionario del tredicesimo secolo in un ottocentesco maître de ballet. Prima vittima incolpevole della violenza angioina, poi ambiguo (e con un’abbondante spruzzata di ambiguità anche sessuale) burattinaio che, con il suo corpo di ballo femminile stuprato dagli invasori, tesse i fili della sommossa e del massacro, il personaggio qui viene in pratica reinventato: eppure, a suo modo, rende giustizia alla doppiezza del Procida raccontato da Verdi e Scribe. Tutto è costruito su misura per la fisicità equivoca e prestante di Erwin Schrott – non a caso unico elemento del cast originario confermato in questa ripresa danese – che affronta con vigorosa voluttà masochistica i pestaggi e le torture della soldataglia nemica: d’altronde è la rilettura scenica nella sua interezza a giocare la carta di una visionarietà inquinata dal più crudo realismo, a cominciare dal teschio del fratello di Hélène, continuamente palleggiato dagli angioini.

Lo spettacolo inanella varie contraddizioni, speculari d’altronde alle incongruenze del libretto: non ultima quella di coreografare quasi ogni momento dell’azione, cassando però – unico colpo di forbice in un’edizione altrimenti integralissima – proprio quel lungo balletto posto al centro del terzo atto che è la più vistosa concessione fatta da Verdi alla grammatica del Grand-opéra. Le forzature sono comunque ammortizzate dalla qualità visiva apportata dai collaboratori del regista: André de Jong, autore delle coreografie, imprime plasticità e naturalezza a quella sorta di “raddoppio” danzato della vicenda che puntella l’impaginazione dello spettacolo, mentre la carta del teatro nel teatro (tutt’altro che inedita, da Ronconi in poi, per contrappuntare il Verdi patriottico) viene giocata da Phillip Fürhofer con una macchina scenica ingegnosa e che, tuttavia, non soffoca mai l’azione. Herheim fonde questi diversi contributi con gran senso del montaggio, ma le provocazioni non sempre colgono il segno: certi affondi fertilmente vaneggianti, ad esempio quell’Henri bambino che dovrebbe essere un raggio di luce, e appare invece come l’ennesimo messaggero di morte, sulla distanza regrediscono a mere “trovate”; e disturba l’antimusicalità di molte soluzioni (grida, risate, spari…), a cominciare dalla sinfonia “visualizzata” e ricostruita come un autentico flash-back, ma appunto per questo deconcentrante l’ascolto.

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Un momento dello spettacolo © Miklos Szabo

A una regia di debordante personalità rispondeva una concertazione pallida. Paolo Carignani trae buon partito dall’eccellente qualità sonora (in termini di compattezza, e più ancora di luminosità) dell’orchestra dell’Opera Reale Danese, ma gli manca il senso – fondamentale nel Grand-opéra – dell’ampia campata narrativa, limitandosi a un’esposizione paratattica delle singole pagine che non rende giustizia alle qualità formali della partitura, ed evidenzia semmai certe sue debolezze in termini di tessuto connettivo. Asseconda però con diligenza i cantanti nel loro difficile compito, a cominciare da Anna Kasyan: una Hélène di emergenza – cantava a leggìo nella fossa orchestrale, mentre il soprano titolare mimava il ruolo in palcoscenico – e dunque assai cauta, che però lascia intuire buone potenzialità almeno nel versante lirico del personaggio (quello più spiccatamente drammatico necessiterebbe di un registro di petto assai più robusto).

In una parte di sterminata lunghezza – oltre che pericolosamente altalenante nella tessitura – come quello di Henri, David Pomeroy parte a sua volta con prudenza, quasi al ribasso: prende quota però di scena in scena, per approdare al giusto equilibrio tra la tenorilità “spinta” del terzo e quarto atto a quella tardobelcantistica dell’epilogo. Dario Solari è un Monfort generico nella nobiltà come nella protervia, ma che proprio in questa genericità riesce a far quadrare i conti tra tutte le anime del personaggio, con l’intermediazione di un organo vocale non memorabile, eppure sufficientemente espanso e timbrato per rendere giustizia al fatidico ideale di baritono verdiano. Tra le parti di fianco emerge la Ninetta di Elisabeth Halling (un mezzosoprano della compagnia stabile di Copenhagen che sarebbe interessante riascoltare in ruoli più importanti), mentre a dominare il palcoscenico è, come stabilito a tavolino, il Procida di Schrott.

L’alchimia instauratasi con il regista, oltre alle innate qualità sceniche fin troppo compiaciute, ma comunque indubbie, non possono però far dimenticare i limiti del cantante. E questo Procida di gran volume ma scarsa proiezione, tonante ma incapace di modulazioni, bassobaritonale non in virtù di una voce che copre il registro del basso e quello del baritono, ma per i limiti di un’organizzazione canora che non sa essere né l’una né l’altra cosa, sarà anche bello e marpione da vedersi. Ma non è un vero personaggio, almeno finché nel melodramma i personaggi si sostanzieranno nel canto.



Les vêpres siciliennes
Grand-opéra in cinque atti


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