Un momento dello spettacolo © Miklos Szabo
La drammaturgia di
Alexander Meier-Dörzenbach, su cui il
regista ha lavorato, è assai destrutturante rispetto al testo originale, ma la
cosa non rappresenta un danno a priori data la farraginosità del libretto di
Scribe. Proprio la natura di
Grand-opéra diventa qui la chiave
ermeneutica per barcamenarsi tra finzione teatrale e verità storica: partendo
dal presupposto che è lapparato coreografico, prima ancora del
plateau vocale, il cuore pulsante di
ogni drammaturgia grandoperistica, tutto viene raccontato dal punto di vista di
Giovanni da Procida, trasformando questo celebre medico rivoluzionario del
tredicesimo secolo in un ottocentesco
maître
de ballet. Prima vittima incolpevole della violenza angioina, poi ambiguo
(e con unabbondante spruzzata di ambiguità anche sessuale) burattinaio che,
con il suo corpo di ballo femminile stuprato dagli invasori, tesse i fili della
sommossa e del massacro, il personaggio qui viene in pratica reinventato:
eppure, a suo modo, rende giustizia alla doppiezza del Procida raccontato da
Verdi e Scribe. Tutto è costruito su misura per la fisicità equivoca e
prestante di
Erwin Schrott – non a caso unico elemento del
cast originario confermato in questa
ripresa danese – che affronta con vigorosa voluttà masochistica i pestaggi e le
torture della soldataglia nemica: daltronde è la rilettura scenica nella sua
interezza a giocare la carta di una visionarietà inquinata dal più crudo realismo,
a cominciare dal teschio del fratello di Hélène, continuamente palleggiato
dagli angioini.
Lo spettacolo inanella varie
contraddizioni, speculari daltronde alle incongruenze del libretto: non ultima
quella di coreografare quasi ogni momento dellazione, cassando però – unico
colpo di forbice in unedizione altrimenti integralissima – proprio quel lungo
balletto posto al centro del terzo atto che è la più vistosa concessione fatta
da Verdi alla grammatica del
Grand-opéra.
Le forzature sono comunque ammortizzate dalla qualità visiva apportata dai
collaboratori del regista:
André de Jong,
autore delle coreografie, imprime
plasticità e naturalezza a quella sorta di “raddoppio” danzato della vicenda
che puntella limpaginazione dello spettacolo, mentre la carta del teatro nel
teatro (tuttaltro che inedita, da
Ronconi
in poi, per contrappuntare il Verdi patriottico) viene giocata da
Phillip Fürhofer con una macchina
scenica ingegnosa e che, tuttavia, non soffoca mai lazione. Herheim fonde
questi diversi contributi con gran senso del montaggio, ma le provocazioni non
sempre colgono il segno: certi affondi fertilmente vaneggianti, ad esempio
quellHenri bambino che dovrebbe essere un raggio di luce, e appare invece come
lennesimo messaggero di morte, sulla distanza regrediscono a mere “trovate”; e
disturba lantimusicalità di molte soluzioni (grida, risate, spari…), a
cominciare dalla sinfonia “visualizzata” e ricostruita come un autentico
flash-back, ma appunto per questo
deconcentrante lascolto.
Un momento dello spettacolo © Miklos Szabo
A una regia di debordante
personalità rispondeva una concertazione pallida.
Paolo Carignani trae buon
partito dalleccellente qualità sonora (in termini di compattezza, e più ancora
di luminosità) dellorchestra dellOpera Reale Danese, ma gli manca il senso –
fondamentale nel
Grand-opéra –
dellampia campata narrativa, limitandosi a unesposizione paratattica delle
singole pagine che non rende giustizia alle qualità formali della partitura, ed
evidenzia semmai certe sue debolezze in termini di tessuto connettivo.
Asseconda però con diligenza i cantanti nel loro difficile compito, a
cominciare da
Anna Kasyan: una Hélène di emergenza – cantava
a leggìo nella fossa orchestrale, mentre il soprano titolare mimava il ruolo in
palcoscenico – e dunque assai cauta, che però lascia intuire buone potenzialità
almeno nel versante lirico del personaggio (quello più spiccatamente drammatico
necessiterebbe di un registro di petto assai più robusto).
In una parte di sterminata lunghezza
– oltre che pericolosamente altalenante nella tessitura – come quello di Henri,
David Pomeroy parte a sua volta con prudenza,
quasi al ribasso: prende quota però di scena in scena, per approdare al giusto
equilibrio tra la tenorilità “spinta” del terzo e quarto atto a quella
tardobelcantistica dellepilogo.
Dario
Solari è un Monfort generico nella
nobiltà come nella protervia, ma che proprio in questa genericità riesce a far
quadrare i conti tra tutte le anime del personaggio, con lintermediazione di
un organo vocale non memorabile, eppure sufficientemente espanso e timbrato per
rendere giustizia al fatidico ideale di baritono verdiano. Tra le parti di
fianco emerge la Ninetta di
Elisabeth
Halling (un mezzosoprano della compagnia stabile di Copenhagen che sarebbe
interessante riascoltare in ruoli più importanti), mentre a dominare il
palcoscenico è, come stabilito a tavolino, il Procida di Schrott.
Lalchimia instauratasi con il
regista, oltre alle innate qualità sceniche fin troppo compiaciute, ma comunque
indubbie, non possono però far dimenticare i limiti del cantante. E questo
Procida di gran volume ma scarsa proiezione, tonante ma incapace di
modulazioni, bassobaritonale non in virtù di una voce che copre il registro del
basso e quello del baritono, ma per i limiti di unorganizzazione canora che
non sa essere né luna né laltra cosa, sarà anche bello e marpione da vedersi.
Ma non è un vero personaggio, almeno finché nel melodramma i personaggi si
sostanzieranno nel canto.