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Intervista a Giorgio Battistelli

di Anna Menichetti
  Giorgio Battistelli
Data di pubblicazione su web 04/06/2015  

Il Teatro alla Scala di Milano inaugura le manifestazioni di EXPO 2015, dopo la “Turandot” di Puccini e il bellissimo finale scritto da Luciano Berio in apertura il 1° maggio, con l’opera in prima esecuzione di Giorgio Battistelli[1] dal titolo  “CO2” che prende spunto dal libro di Al Gore “Una scomoda verità”. Abbiamo incontrato il Maestro nella sua casa di Roma per conoscere da vicino il nuovo lavoro e avere alcune anticipazioni. Battistelli – di recente nomina alla direzione artistica per l’opera contemporanea e la musica sinfonica al Teatro dell’Opera di Roma – ci ha illustrato in dettaglio i complessi meccanismi, la nascita, la progettazione e l’allestimento dell’attesissima prima di “CO2”, parlando anche di sé: delle sue attività e del suo modo di vivere la propria arte.

 

Maestro, quali sono le origini di questa sua nuova opera, come nasce l’idea?

Il progetto nasce nel 2007, quando l’allora sovrintendente del Teatro alla Scala, Stéphane Lissner, mi telefonò dicendo che aveva piacere di parlarmi di una commissione data dal teatro. Decidemmo di vederci la settimana seguente, lui venne a Roma e ci incontrammo. Io da un po’ di tempo avevo in mente di scrivere un soggetto che non fosse di consueto tipo narrativo, ma che avesse il carattere di una narrazione più comparativa, o legata a simboli che non fossero troppo vincolanti, troppo ristretti a un ambito ideologico di storia familiare o di storie psicologiche; una narratività diciamo non circoscritta a una cultura precisa e che non fosse legata alla cultura europea né orientale, né americana, ma davvero globale. Un soggetto che doveva toccare ed essere presente nella cultura di tutto il pianeta: dall’Australia alla Svezia, ecco.

Stavo leggendo in quel periodo un testo particolarissimo, che non è un testo narrativo ma un testo parascientifico: Una scomoda verità di Al Gore. È un libro in cui sono riportate ricerche, riflessioni, intuizioni, preoccupazioni – temi che Al Gore ha approfondito e perseguito continuamente in questi anni – sullo scioglimento dei ghiacciai, il surriscaldamento del globo e tutte le varie e drammatiche conseguenze. Al Gore ha dato vita a una Fondazione importante rivolta a queste problematiche con la collaborazione di giovani scienziati che fanno un serio lavoro di monitoraggio in diversi punti del pianeta. Ne ha fatto una ragione di vita. E quindi parlai a Lissner di questo progetto e gli chiesi cosa ne pensasse. Non mi fece neanche finire: quando vide il libro e il soggetto, a metà della mia presentazione e della mia proposta, si entusiasmò moltissimo, dicendo: «ho capito tutto, ho capito quale è il senso di quest’opera, mi piace».

È, in effetti, un’opera veramente innovativa per la tematica. Mi confermò quindi la commissione per il 2007 e iniziammo a lavorare. Scelse lui il librettista e il regista. Il regista, William Friedkin, regista hollywoodiano (Il braccio violento della leggeL’esorcista) che da qualche anno si occupa anche di regie d’opera; il librettista, J.D. McClatchy, americano, docente a Boston di Drammaturgia, che ha scritto il libretto dell’opera di Lorin Maazel, 1984. Abbiamo lavorato insieme un anno e mezzo, e ovviamente avevo cominciato già a scrivere. Poi c’è stato uno strappo, un confronto durissimo fra librettista e regista sulla struttura dell’opera, soprattutto sulla struttura della messa in scena. E quindi si comprese che i due non potevano più lavorare insieme. Lissner chiese a me chi scegliere fra i due, ma erano stati chiamati dal teatro e io avevo già iniziato a utilizzare il testo di McClatchy; inoltre l’impostazione scenica di Friedkin era molto imponente, molto cinematografica per cui si decise di cambiare il regista.

La seconda proposta che fece Lissner fu Robert Lepage, un grande regista di teatro con esperienza operistica, uno dei più grandi registi del mondo. Con lui ho lavorato circa due anni. Ma poi si è ripetuta un po’ la stessa cosa: cioè Lepage è un regista che lavora in maniera molto maniacale, nel dettaglio e aveva già cominciato a costruire degli spazi simulati per l’allestimento dell’opera. Lui lavora in Canada, ha a disposizione un immenso capannone dove mette in piedi e realizza le sue idee: Lepage collabora costantemente con il Cirque du Soleil, quindi con idee di grande spettacolarità. E infatti fece un impianto scenico bellissimo. Ho avuto con lui numerosi incontri, a Parigi a Londra: abbiamo fatto delle sessioni di studio molto affascinanti e impegnative. Purtroppo però, dopo due anni e mezzo, l’impianto scenico che ne venne fuori risultò proibitivo dal punto di vista economico. Era una realizzazione enorme, con degli ologrammi in scena, estremamente complessa e quindi con costi troppo alti.

Nel frattempo erano passati altri anni e si decise di cambiare regista per la terza volta. Allora proposi, sempre a Lissner – erano gli ultimi mesi della sua sovrintendenza alla Scala –, di chiamare Robert Carsen, con cui avevo già lavorato nel Riccardo III, una mia opera a cui tengo infinitamente, e che mi aveva molto colpito per il suo modo di lavorare. Fu una delle poche volte in cui vidi un regista lavorare col coro e con i cantanti sempre con la partitura sotto il braccio; tutti gli spostamenti in scena avvenivano con la partitura davanti, non solo visivamente belli, ma soprattutto con una pertinente ragione musicale.

Così, ci siamo incontrati con Robert Carsen e Ian Burton, il suo drammaturgo e librettista. Ho proposto il soggetto sul clima e naturalmente è avvenuta una nuova invenzione, e a quel punto, anche un allontanamento dal testo di Al Gore. Il soggetto è rimasto lo stesso, cioè quello del clima, ma è stato reinventato in modo diverso. Reinventare il soggetto sul clima attraverso una struttura narrativa simbolica, riguardante i forti problemi che oggi hanno tutti i paesi del mondo, e affrontare questo attraverso un’opera, credo sia la particolarità principale dell’operazione. Senza cadere nell’enfasi, la ritengo una forma di impegno – come poteva essere per un compositore degli anni Sessanta – di impegno politico su soggetti fortemente ideologici. Trovo che far riflettere le persone, oggi, attraverso un’opera in musica, su una problematica così complessa e delicata, possa essere una forma di impegno etico e sociale; inoltre ci consente uno sguardo da un’angolatura di tipo più estetico, artistico: è un’ottima occasione e un ottimo metodo di riflessione.

Per cui con Carsen siamo andati avanti per più di anno e mezzo e ho lavorato benissimo perché, appunto, conosco il suo modo di lavorare. Siamo andati molto veloci, infatti. Alla fine però mi sono trovato quasi tre opere scritte! Sì perché avevo tutte le scene precedenti che non ho potuto riutilizzare, giacché erano su testi diversi e con dinamiche drammaturgiche diverse: con Ian Burton, con il quale l’esperienza di Riccardo III è stata straordinaria sia umanamente che artisticamente, ci siamo trovati d’accordo su tutto, per cui siamo andati rapidissimi e in un anno e mezzo ho terminato l’opera… che ha avuto comunque un percorso molto molto lungo: dal 2007… troppo lungo, anche rispetto ai miei tempi di scrittura. Io ho un metabolismo veloce nello scrivere e ho bisogno di esprimerlo subito: un’incubazione troppo lunga di un soggetto mi toglie energia. È un fatto anche caratteriale: c’è chi ha bisogno di cinque anni di riflessione e chi dopo cinque mesi inizia.

La concomitanza con l’EXPO 2015 è stata casuale?

Sì. L’opera era stata commissionata nel 2007 e prevista nel 2011. Poi dal 2011 si è deciso di portarla al 2013. Nel 2013 la struttura era già abbastanza avanzata e forse ce l’avremmo anche fatta. Ma Lissner, in accordo con il Sindaco di Milano, mi propose di posticiparla al 2015 perché il tema dell’EXPO – sull’alimentazione e le problematiche dell’acqua e della globalizzazione – era molto pertinente con CO2.

Il titolo è suo, Maestro?

Lo abbiamo concordato con Ian Burton. Avevamo diversi titoli a disposizione. A me piaceva anche molto il titolo di Al Gore Una scomoda verità, che però era fortemente politico, di denuncia. Quindi con Ian Burton abbiamo deciso di trovare qualcosa che desse la sensazione di un’espressione più tossica e allo stesso tempo sintetica. E allora, lui che vive vicino a Londra (avevamo una rosa di tre titoli) ha fatto un esperimento con degli studenti universitari mettendo tutti e tre i titoli e chiedendo loro quale fosse quello per il quale sentivano maggiore empatia, sollecitazione immaginifica e CO2 ha vinto, la sua tossicità ha vinto, e ci siamo decisi a utilizzarlo. È una formula: la prima opera che viene presentata come una formula.

È anche interessante che il titolo sia stato scelto dai ragazzi dell’Università: un problema che li riguarda da vicino. È molto bello questo. Vogliamo parlare più strettamente dell’opera: l’organico, le voci, i personaggi?

È un’opera che ha una struttura molto chiara: formata da un Prologo, una vera e propria scena introduttiva dell’opera; nove scene con soggetti e riferimenti precisi al percorso drammaturgico; e un Epilogo. E viene rappresentata in un atto unico di circa un’ora e quaranta. I passaggi da una scena all’altra sono molto serrati. Il personaggio principale è un climatologo: Adamson (figlio di Adamo) si presenta al pubblico come un oratore che tiene una conferenza sul clima: si apre il sipario ed è dietro un podio, saluta il pubblico e comincia a parlare. Naturalmente c’è un riferimento anche ad Al Gore: sappiamo che Al Gore sono anni che gira il mondo facendo conferenze su questo problema, aprendo discussioni sulle varie minacce e i rischi che stiamo correndo e che sta correndo la terra a causa del surriscaldamento globale. Adamson parla, dunque, della necessità di una “creazione”.

La parola “creazione” dà inizio alla prima scena nella quale appare la divinità Shiva, e una danza illustra il concetto della creazione della Terra. Con il movimento, attraverso l’atto della creazione e i momenti di energia, si creano il globo e la convivenza di elementi anche molto distanti fra di loro: da un punto di vista chimico, scientifico, culturale. Subito dopo abbiamo l’apparizione di quattro scienziati, per l’esattezza due ecologisti e due climatologi, che dialogano fra di loro con posizioni anche molto diverse sulla questione del clima nel mondo e mentre discutono, arrivano dall’alto quattro Arcangeli che cominciano a conversare con loro. Si svolge, così, una riflessione sulle origini dell’universo, sulle stelle, sui misteri della Creazione, con riferimenti alla cultura giudaico-cristiana. Un dialogo su due livelli, quindi: uno più metafisico, religioso e uno invece di tipo più scientifico, portato avanti dai quattro scienziati.

Subito dopo abbiamo una scena completamente contrapposta: siamo in un aeroporto. Troviamo il Dott. Adamson, seduto su una valigia, che si è perso perché c’è stato l’annullamento, per ragioni meteorologiche, di una serie di voli. Assistiamo a un momento di grande caos nell’aeroporto: annunci in tante lingue, tante persone che passano, tanta gente che non riesce più a partire. Un momento caotico ma anche molto realistico, purtroppo! Adamson è in partenza per il Giappone, per la conferenza a Kyoto, il primo importantissimo convegno di Kyoto del 1997, dove si è cercato di fare un protocollo sul clima. Rimane invece bloccato senza sapere come raggiungere la destinazione.

Il passaggio alla scena successiva – e questa è la prima volta che faccio una scena di musica completamente in stile a cappella – è l’entrata nell’ambiente di Kyoto, il palazzo dove si svolge il convegno. Ci sono tutte le rappresentanze del mondo: cinese, giapponese, russa, indiana e così via, insomma le varie posizioni, anche contrastanti, sul tema. E su questo ho deciso di fermare l’orchestra. I cinque cori sulla scena cantano a cappella. Tutto è dialogato e tutto è affidato alla voce. La voce dell’Uomo: fra loro parlano, dialogano, si sovrappongono, si contrappongono. È una scena molto articolata, anche molto performativa perché questi cinque cori si rincorrono fra di loro, si scontrano, per idee contrarie: quella americana che era contro il protocollo e non voleva vincoli, come quella russa e cinese, oppure quella araba… e questi cinque cori con i loro delegati cantano in cinque lingue diverse.

Quindi con uno scontro di vocali, di consonanti, di sillabe di potente effetto fonico e verbale?

Sì. E di culture, ovviamente. Il significato del testo è sempre lo stesso, però cantato in cinque lingue diverse. Chi a favore e chi contro. Quindi una scrittura molto polifonica e performativa, con suoni onomatopeici: le contestazioni, le proteste, gli umori. Il convegno si presenta molto duro, molto animato. Tutta l’opera CO2 è cantata in inglese, il libretto è in inglese, ma ci sono momenti diversissimi: qui cinque cori plurilingue, un momento in sanscrito, un coro greco che canta in greco antico. Si tratta delle varie espressioni e del variegato percorso dell’umanità, delle tante culture che si sono venute a creare: è una scena che vuole essere globale. E allo stesso tempo l’unificazione che viene dalla lingua inglese, che è la lingua predominante del libretto, parlata oggi in tutto il mondo.

Questa è la parte centrale dell’opera?

No, non proprio. Io considero la parte centrale dell’opera, il  punctum direbbe Roland Barthes, l’apparizione di Gaia, della Terra. La Terra che parla agli uomini. Quello è il momento del monito agli uomini.

Comunque, andando per ordine, dopo questa scena del protocollo di Kyoto sulla progressiva eliminazione degli elementi inquinanti nell’atmosfera – anche se poi questo trattato fu quasi un fallimento, come è noto, per le posizioni estremamente contrastanti –, segue un momento di vuoto orchestrale fatto di ben undici minuti di voci sole che si contrappongono; poi improvvisamente si sente l’orchestra che via via cresce. Entriamo nella scena degli uragani: la risposta della Terra alle questioni che si stanno trattando. Ed è un momento anche coreografico perché si tratta di un balletto con grande orchestra e un coro fuori scena che canta i nomi degli ultimi venticinque uragani dello scorso secolo: nomi di scienziati, spesso di donne…! Venticinque danzatori rappresentano gli uragani. Un momento molto dinamico da un punto di vista anche scenico e musicale. Timbri, ritmi, colori molto mossi.

Alla fine, questi uragani si allontanano a poco a poco, con evidente impatto sonoro determinato dal contrasto delle due scene affiancate – prima sole voci, poi grande orchestra – ed entriamo in un’altra scena di assoluta poesia. Siamo immersi nel verde ed è l’Eden. Abbiamo tre personaggi: due bellissimi Adamo ed Eva, tenore e soprano, nudi e persi nella natura, che cantano fra di loro con estrema dolcezza e dialogano sull’ecosistema; e un altro personaggio che appare improvvisamente: il serpente, un controtenore, con il quale si avvia il terzetto, fino al momento in cui riesce a donare una mela. Il morso della mela entra in orchestra. Noi ascoltiamo quel morso: un suono campionato, durissimo aspro forte, che chiude la scena dell’Eden.

Un suono campionato e con strumenti?

Sì con strumenti e un suono campionato elettronico. Sentiamo questo terribile morso della mela e lì abbiamo il cambio repentino alla scena successiva: ci troviamo in un supermarket, dove si continua a sentire il suono di masticazione e di morsi, con un’orchestra che cresce: un suono concreto, un rumore se vogliamo, inserito dentro l’orchestra e poi sommerso dall’orchestra. Ci troviamo nel passaggio dall’Eden al momento grottesco del grande supermercato di genere alimentare, dove abbiamo una cinquantina di donne, o uomini travestiti, che si muovono tra questi scaffali. E lo fanno su un ritmo quasi danzante: c’è un infinito elenco di cibi che noi mangiamo e che provengono da tutto il mondo… dal Messico, da Cuba, dalla Nuova Zelanda, dalla Norvegia, fagioli che vengono da chissà dove, pane… Un elenco ossessivo e perpetuo di una cascata di cibi cantata dalle donne…

Alla fine di questa scena c’è l’apparizione di Gaia, che avverteche in tutto questo scambio di cibi c’è una contraddizione tragica perchéproprio per tutti questi trasporti di alimenti da tutto il mondo, si emette velenocontinuo: voli, inquinamento dell’aria… per un cibo che viene poi globalizzato.Tutti siamo omologati: tutti mangiano tutto con gli effetti positivi e negatividella globalizzazione.

Sull’apparizione e sul monito di Gaia, Adamson riprende la conferenza: una scena in cui viene presentata la teoria dello scienziato  James Lovelock che nel 1979 sorprese un po’ il mondo scientifico sostenendo che la terra ha un sistema di autoregolamentazione naturale, nel senso che essa stessa è in grado di rigenerarsi. Se viene ferita, recupera il proprio stato di benessere; che è poi un po’ lo scudo che molti scienziati sfruttano: non preoccuparsi troppo perché poi tanto l’aria si rigenera.

Alla fine di questa esposizione di Adamson appare dalle viscere del teatro Gaia, che è un mezzosoprano con tinte gravi, che parla direttamente agli uomini. Lancia un avvertimento molto, molto forte, aggressivo e anche accorato: «mi avete lacerato, uomini, mi distruggete dall’interno, ma se uccidete me ucciderete anche voi stessi. Attenzione però: io non mi lascerò distruggere». A questa affermazione ci troviamo in un paesaggio post-tsunami in Thailandia. Una spiaggia, una signora inglese che ha perso un familiare, una storia vera, che ha una corona di fiori in mano; accanto a lei un signore thailandese, il direttore dell’hotel dove lei alloggiava durante lo tsunami, e viene lanciata una corona di fiori. Una scena molto bella, suggestiva, con le foto dello tsunami e le immagini di documenti veri della sciagura. Una scena molto toccante.

Da lì si passa alla scena dell’Apocalisse. Immagini apocalittiche della terra che suggeriscono un po’ anche la parte conclusiva di quella che sarà la conferenza di Adamson, dove per la prima volta dice esattamente quali sono i pericoli veri che stiamo correndo noi uomini. I pericoli della stessa sopravvivenza dell’uomo. Auspica un maggior rispetto ecologico della natura ma anche una manifestazione di amore verso la Terra.

In questa scena, mentre parla, entrano i quattro scienziati che cercano di trovare un accordo. L’atteggiamento nei confronti del convegno di Kyoto è cambiato: i quattro scienziati sentono la necessità, l’urgenza di trovare una soluzione. E mentre stanno dialogando ritornano i quattro Arcangeli che avvertono e lanciano un ultimo monito: «siamo  alla fine,  sta a voi trovare una soluzione, noi non possiamo fare nulla. Soltanto l’uomo può salvare se stesso». Scena particolarmente potente, con gli effetti devastanti della rivolta della Terra. Riappare Shiva che attraverso il fuoco, attraverso la distruzione, vuole e offre ancora un’opportunità di ricreare la Terra. Questo è il tragitto dell’opera, che deve intendersi, come un percorso narrativo di natura simbolica, fortemente biblico, che richiama diverse culture, di carattere trans-culturale. Tutta l’opera è costruita su tinte contrastanti, contrapposte: chiaro-scuro, forte-piano, vuoto-pieno…

Secondo un criterio drammaturgico della teoria degli affetti di tradizione barocca?

Sì. E anche molto densa di elementi, di significati, di sentimenti. L’organico è per grande orchestra: legni a tre, quattro corni, quattro trombe, quattro tromboni, due tube, due tastiere di suoni campionati, due arpe. Grande orchestra con coro di bambini che stanno a indicare la possibilità della rigenerazione, di un futuro, di un mondo nuovo. E un grande coro di cento cantanti che si frantuma in tanti diversi altri cori: donne, uomini, coro greco, coro fuori scena. Infine le voci dei personaggi: Adamson baritono, Adamo ed Eva tenore e soprano, il Serpente controtenore, quattro Arcangeli tre bassi e un soprano – soltanto Gabriele è soprano – e gli scienziati che sono tre bassi e un tenore, un doppio quartetto quindi che si confronta. Shiva è un mezzosoprano che canta in orchestra, rimane in buca. Il concetto è quello della spazializzazione di suoni e voci. Anche Gaia è un mezzosoprano. Insomma sedici personaggi in tutto [ci sono anche Mrs Mason e un Cantore del Tempio Indiano, n.d.r.]: tanti, e naturalmente alcuni hanno doppi ruoli. Inoltre devo dire che è la prima volta che lavoro su una struttura così strettamente simbolica e con forti contrasti. Nonostante questo non ho avuto timore o difficoltà ad affrontarla, non ho provato disagio ad allontanarmi da un mio sistema narrativo, di cui solitamente ho sempre bisogno. È stato naturalmente consequenziale mettere in relazione il prima e il dopo e una volta messa a fuoco la struttura dell’opera tutto ha preso a scorrere fluidamente.

La scrittura è complessa? Anche per gli interpreti?

La complessità della scrittura, come spesso nella mia musica, è più una complessità di concertazione, di come fare emergere le varie voci: sia le voci dell’orchestra, dei singoli strumenti, che le voci dei personaggi. E quindi è un lavoro sempre, spero, divertente ma più impegnativo per i direttori d’orchestra. La mia scrittura è in genere densa e proprio per questa densità c’è bisogno di fare un lavoro di concertazione molto attento per tutte le voci.

Dirigerà l’opera Cornelius Meister, un giovane direttore tedesco che sta facendo una carriera, direi, folgorante in questi ultimi anni. L’abbiamo visto a Salisburgo con opere impegnative; è venuto l’anno scorso qui a Roma all’Accademia di Santa Cecilia, dove ha ottenuto molto successo. Da questo punto di vista mi sento molto sicuro di avere interpreti di rilievo. Anche i cantanti sono molto bravi. Curiosamente sono cantanti che provengono soprattutto da frequentazioni ed esperienze del grande repertorio: Strauss, Wagner. È molto interessante verificare come sanno accostarsi con disinvoltura a una partitura di oggi, del nostro tempo.

In me c’è stato un cambiamento, in questi ultimi dieci anni, perché in passato cercavo sempre la specializzazione, come se un cantante, un interprete, un direttore formatosi nella musica contemporanea e del Novecento mi desse la garanzia di possedere una sensibilità, un’attenzione di maggior perizia su un tipo di scrittura; devo dire, invece, che in questi ultimi dieci anni ho cominciato a fidarmi, non dico di più, ma allo stesso modo: mi è capitato di incontrare direttori d’orchestra che non hanno mai diretto opere moderne e che hanno realizzato risultati strabilianti.

Il primo, mi ricordo, fu Adam Fischer tredici anni fa. Un direttore che ha sempre diretto un certo tipo di repertorio, da  Haydn, Mozart a Wagner, ma che non andava oltre. Quando fu chiamato in Germania, a Mannheim, a dirigere una mia opera ero molto preoccupato e nei primi giorni di prove avevo un certo timore. Poi invece ha fatto un lavoro molto serio e accurato. Entrare dentro una partitura, che sia di Battistelli, di Wagner o di chi altro significa sempre tirar fuori dei contenuti… e con la stessa attenzione.

Non sarà anche, Maestro, che la sua scrittura ha un carattere molto fluido, un grande e articolato flusso sonoro e che quindi chi si occupa, diciamo, di opera  tradizionale ci si ritrova molto bene?

Questo, francamente, non posso dirlo io. Vedo che oggi la complessità della scrittura è dovuta anche al fatto che abbiamo una grande libertà degli elementi. Carl Dahlhaus scriveva che – intuizione assolutamente folgorante, precisa – l’operista è per sua natura impuro. E deve essere impuro perché deve poter contemplare, deve mettere in connessione tra di loro elementi eterogenei dal punto di vista linguistico.

C’è anche uno strato profondo, direi, di meccanismi di conoscenza dell’opera che si sente nella sua scrittura. Probabilmente anche la sua frequentazione assidua e professionale dell’opera in qualità di Direttore Artistico – è di pochi giorni fa la sua nomina alla direzione artistica del Teatro dell’Opera di Roma per la musica sinfonica e per l’opera contemporanea, e questo oltre alle attività che ha svolto e svolge in diversi teatri – la tiene sempre a contatto con una vitalità teatrale, musicale, operistica, che comporta certo problematiche, decisioni ma anche risultati e visioni oggettive dello specifico comparto musicale: non trova che tutto questo possa indirizzarla verso un linguaggio molto pratico e attuale?

Io lo sento naturalmente come un linguaggio del mio tempo, del nostro tempo, che deve essere per sua natura un linguaggio sferico, tridimensionale. Soprattutto sento la diversità fra gli autori dell’Ottocento, ma anche da  Monteverdi, fino agli autori del primo Novecento e ai compositori di oggi.

È che noi, attraverso il grande sviluppo e l’evoluzione della tecnologia, abbiamo in questo momento storico la possibilità di metterci in contatto, di ascoltare – visto che ci occupiamo di ascolto – tutto: dal canto gregoriano alla musica techno, alla musica elettronica. Nessun altro orecchio ha ascoltato quello che noi possiamo ascoltare oggi, quindi la tecnologia ha modificato il nostro attuale sistema percettivo. Il compositore d’opera deve tener presente tutti questi elementi e avere il coraggio, io lo definisco coraggio, di seguire il senso drammaturgico della scrittura piuttosto che quello razionale, di coerenza, di un determinato sviluppo musicale. Questo è fondamentale. Oggi è più innovativo o può essere molto più innovativo l’inserimento di una triade all’interno di un contesto armonico, se appare come qualcosa di inaspettato e dirompente. Può essere molto più dirompente di un cluster: è la sorpresa, è un qualcosa di inatteso che crea una tensione di ascolto.

Molto haydniano il legame!

E certo! Perché non si può scrivere niente nel nome della coerenza: “no, questo io non posso farlo…”. Il non poterlo fare, si fa rispetto a dei canoni, dei modelli convenzionali. E invece l’interessante di oggi, per ritornare a Dahlhaus, è che, in particolare, il compositore d’opera deve essere pronto a tollerare: può tollerare tutto, tutto nella scrittura, anche il kitsch che è fondamentale. Ma non può tollerare la purezza, cioè l’essere puro. È un’altra dimensione di ascolto rispetto all’opera, rispetto al teatro. Ma anche i grandi del passato erano impuri, lo stesso Monteverdi lo era nello scrivere l’opera. E pensiamo a Puccini. Per non parlare dell’Ottocento italiano: Donizetti, Verdi! Verdi è un compositore straordinario, geniale ma un compositore per certi aspetti anche un po’ “grezzo”, anche un po’ “sporco” nel senso di non rifinito, non raffinato; ma quella sua non raffinatezza è talmente pertinente nelle cose che scrive che lo rende uno dei più grandi compositori che abbiamo avuto!

Indubbiamente. Tornando a CO2, Maestro, lei andrà alle prove della sua opera, le seguirà?

Seguirò le prove quando verrò invitato perché l’inizio delle prove è sempre un momento delicatissimo, occorrerà quindi andare al momento giusto. Inizieranno il 7 aprile. Inizieranno le prove con i cantanti. Io credo che sarà necessario fare un incontro con loro per dare qualche suggerimento, e poi naturalmente con l’orchestra; anche se tendo sempre – ma questo anche per mio carattere, perché a me piace – tendo sempre a essere sorpreso. Il mio lavoro termina davvero quando consegno la partitura. E rispetto le interpretazioni del regista, del direttore d’orchestra anche quando sono molto distanti dalle mie. Mi incuriosisce molto vedere come un interprete può leggere, guardare, ascoltare lo stesso oggetto da angolature diverse. Mi permette di vedere in un altro modo…  Mi è sempre capitato, con ogni direttore d’orchestra che ha diretto mie partiture e anche lavori sinfonici o anche registi, di pensare: “ma guarda come viene…!”. È curioso. Ricordo un’interpretazione bellissima di Luca Ronconi quando fece la regia della mia parabola in musica, Teorema, da Pasolini: ne fece un’interpretazione talmente particolare, talmente piena di poesia che ha arricchito il mio rapporto con quest’opera.

E poi per un compositore, sentirla finalmente tutta, l’opera composta, è forse sempre qualcosa di straordinario, anche se oggi ci sono mille modi tecnologici per potere sentire gli effetti, certe scelte timbriche piuttosto che armoniche… Schubert docet. Sentire le proprie opere è importante…

Sì. Certamente questo è un altro grande vantaggio di oggi. Anche se io scrivo a matita…

A matita…?

Sì, sì… sono ancora uno dei… [ride divertito]. Devo dire che a volte ho persino difficoltà a reperire la carta. Io me la faccio stampare, perché non si trova più… carta a 32, a 36 righi, non la fanno più. Ma ho proprio bisogno di questo. Poi consegno il manoscritto e Ricordi, il mio editore, l’affida a copisti che la trascrivono con un sistema computerizzato.

Come sono le sue abitudini di scrittura?

Io inizio a lavorare molto presto al mattino, cinque e mezzo sei della mattina. Dipende anche un po’ dalla pressione del lavoro. Però, in genere, mi sveglio presto: la fascia d’orario fino all’una e mezza è per me il momento più forte per la scrittura. Poi faccio una pausa di un’ora e riprendo a lavorare fino alle sette di sera. Questo quando ho impegni e scadenze. Altrimenti possono cambiare gli orari… Però io lavoro tutti i giorni: anche quando vesto i panni del direttore artistico, quando vado a Firenze, o quando lavoro nei teatri, ho comunque bisogno di lavorare, di scrivere ogni giorno. Mi alzo la mattina magari un po’ prima e alle 9.30 sono in ufficio o in teatro e la sera continuo a scrivere.

Quindi la scrittura è sempre?

La scrittura è sempre. C’è stato un periodo della mia vita in cui ero molto tormentato dal rapporto con la scrittura. Tormentato perché ero ossessionato dalla paura che potesse esaurirsi, l’idea che il mio pozzo creativo potesse…

Un po’ leopardiana come idea…

Sì, sì … pensavo: “ma com’è possibile, che succederà…” ed è stato anche un motivo per… non perché ne avessi bisogno, ma per confrontarmi e stabilire un dialogo da un punto di vista psicoanalitico. Cosa che ho fatto per un periodo con un grande psicanalista junghiano che si occupava proprio di tali questioni, con un forte interesse per la creatività. Mi confrontavo quindi su questi temi della creatività e della paura del suo esaurirsi… Questo per dire come la scrittura fosse vissuta da me come un perno centrale della mia esistenza: io mediavo il mondo, e medio tuttora il mondo, attraverso la scrittura. Poi lui mi rassicurò molto dicendo che il dèmone della creatività o si ha o non si ha. Si può anche far finta di averlo ma, quando si ha ed è autentico, non ti abbandona. Non lo devi maltrattare, questo no, ma lo avrai per tutta la vita.

Per un maestro come lei che ci svela che scrive a matita (cosa meravigliosa, trovo), quanto la scrittura musicale, la grafica cioè il segno, sono esaustive di un pensiero?

… anche questo è un motivo molto inquietante, e non voglio essere di nuovo leopardiano, ma è un problema di perdita: perché il passaggio tra il pensiero e la scrittura significa dover convivere con una perdita; ciò che noi scriviamo è un qualcosa che si è allontanato da ciò che abbiamo pensato. Abbiamo perso qualcosa nel momento in cui viene messo su carta e certamente accettare quella perdita non è facile. È una sofferenza per me perché vorrei naturalmente mettere tutto, ma so che quando traduco in segno un pensiero, avviene automaticamente una perdita. La questione poi è che c’è una successiva perdita che si effettua tra il segno e ciò che noi ascoltiamo: quando lo diamo in mano all’interprete. Lì mi accorgo che c’è un’ulteriore perdita, che negli ultimi anni però accetto molto di più perché la vivo, come dicevo prima, come un arricchimento: un modo diverso di guardare la stessa cosa; e anzi mi piace vedere come il signor X o il direttore Y o il cantante Z interpretano il mio suggerimento, la mia proposta.

Comunque lei sente che il segno grafico non è esaustivo, non è fedele a un pensiero: è limitato?

Ma è limitato anche quando si usa una scrittura iperdeterminata. La mia scrittura è una scrittura precisa, ma è sempre una sintesi rispetto a ciò che ho pensato. Curiosa, se la ricordiamo, l’intuizione di Adorno quando parlava dell’iperdeterminismo del suono sostenendo che una iperrazionalizzazione del materiale porta a una indeterminazione della struttura. Si può razionalizzare, determinare, controllare nei particolari un serialismo integrale, esasperato: se noi andiamo sul serialismo integrale, se lavoriamo su tutti i parametri del suono, tutto sotto controllo… l’esecuzione di quello equivale quasi a un pezzo aleatorio… quindi l’iperdeterminazione ti porta all’indeterminato! È un circolo inevitabile!

Lei comunque non fa ricorso a scritture particolari?

No. No, no. Utilizzo la scrittura convenzionale. Ho un mio sistema armonico a cui faccio riferimento e che negli anni ho messo a fuoco, composto di rapporti armonici fra i suoni: il mio libro dei suoni che ho lì… che mi serve per creare i miei percorsi armonici… Ma come scrittura è una scrittura molto tradizionale e non c’è la tendenza al grafismo musicale. Può capitare, come nella scena di Kyoto dove ci sono cinque cori, che quando uso delle parole che sono dei suoni onomatopeici del coro, devo scriverli in un certo modo, ma è comunque una scrittura sempre di sintesi e che fa riferimento al nostro sistema occidentale, europeo.

Non è una musica aleatoria, ma non perché questa non mi interessi: dico solo che occorre sempre utilizzare ciò di cui si ha bisogno, perché è quel tipo di necessità che ti porta a scrivere. Per esempio, in CO2 c’è un momento particolare: quando durante il dialogo tra i quattro Arcangeli e i quattro scienziati entrano le due arpe con suoni eolici e circolari. Ecco, se vogliamo, possiamo definirla scrittura aleatoria; ma in fondo non lo è perché io stabilisco un ambito, un range specifico dove devono essere prodotti questi suoni eolici e chiarisco un andamento all’interno delle altezze.  Ma quella è una sintesi: in quel momento serve una formula specifica. L’inserimento ha un senso, proprio lì, ed è in quel senso che si stabilisce la necessità di quella determinata scrittura.

Ho detto leopardiano ma in effetti dovevo dire, soprattutto in questo caso, hoffmanniano!

Sì, certo!!

Maestro parliamo anche della “missione” – userei questo termine – nel campo della  direzione artistica e quindi dei suoi rapporti con la Toscana, con Firenze, con l’Orchestra?

Con Firenze e con la Toscana è ormai un rapporto più che decennale: il primo incarico l’ho avuto quindici anni fa e ho lavorato per sei anni alla direzione artistica dell’Orchestra; poi sono tornato e questo è il mio quarto anno: quindi sono dieci anni! È un ambiente straordinario. Considero l’ORT la migliore orchestra da camera italiana. È un’orchestra che ha delle peculiarità uniche per le orchestre con questa morfologia, con questo organico perché è formata da tutte prime parti. I fiati sono tutti primi, e sempre un doppio primo, e questo determina una qualità altissima d’espressione. C’è un sistema di rotazione sugli archi, per cui non ci sono mai delle sacche statiche da un punto di vista interpretativo, cosa importantissima anche questa. Inoltre abbiamo fatto un lavoro straordinario sul repertorio perché abbiamo iniziato dal periodo classico per arrivare via via al Romanticismo, al Tardo Romanticismo e alla musica del Novecento. E adesso – e questo è stato determinante per l’ampliamento del repertorio – stiamo facendo un lavoro molto interessante sulle trascrizioni, che la Universal sta pubblicando, delle Sinfonie di Mahler. Faremo quindi un ciclo delle Sinfonie trascritte per un organico che va benissimo per noi; il che è anche molto impegnativo perché mette a confronto con il grande repertorio e impone, da un punto di vista tecnico-interpretativo, una attenzione particolare poiché l’ampliamento di un repertorio, per un’orchestra, significa sempre confrontarsi: l’allargamento della letteratura corrisponde all’allargamento della problematica tecnica.

Maestro, ora che ha terminato la scrittura di CO2, quali sono i progetti futuri?

Sì, è finita. Infatti mi sembra di averla scritta quindici anni fa! Si è talmente allontanata… Ora sono concentrato sulla nuova opera, che farò per il Teatro dell’Opera di Hannover, in Germania, su un tema biblico. Il titolo è Le figlie di Lot. Le due figlie che fanno ubriacare il padre e che poi hanno un rapporto sessuale con lui per poter ripopolare la terra. È una cosa molto forte, intensa come tematica… e molto diversa da CO2.

Forse, diciamo, che ci potrebbe essere un collegamento…

Sì, certo, la rinascita della Terra.

Un collegamento anche un po’ mistico?

Questo? … non so. Più che mistico forse spirituale. In questo momento è un po’ così per me… Prima si parlava della perdita che si determina tra il pensiero e la scrittura e tra la scrittura e l’esecuzione: proprio in quella fase problematica ci sono dei collegamenti, per esempio, con tutta la questione che riguarda la fede… per me. È curioso il percorso che ho fatto. Diciamo che il mio rapporto con la fede è stato sempre un rapporto non risolto.

Pasolini diceva: «quando entro in una chiesa, quell’acustica quello spazio quell’architettura, mi ricordano che non ho risolto il mio problema con la fede» … [sorride]. È curioso, ma è un po’ quello che per me è avvenuto con la scrittura, perché ponendomi quei problemi sulla perdita – di dove va a finire quello che ho pensato e che non è stato messo o non è rientrato nel segno, o quello che ho ascoltato o quello che ho segnato – vi ho trovato qualcosa che ha a che fare un po’ con le questioni di fede e… poi forse… anche con il dubbio… ecco.

Il dubbio è una questione molto particolare.  Il Festival che dirigo a Firenze, Play it!, dedicato alla musica italiana, ogni anno ha una tematica più di natura filosofica che musicale – anche se poi i compositori scrivono quello che vogliono – e di dibattito, di confronto. Ogni mattina c’è un incontro fra tutti i partecipanti e così il tema del prossimo Festival sarà “il dubbio”. Quindi il dubbio sulla scrittura, il dubbio del creare, quali sono i dubbi che hanno i compositori o gli interpreti. Dubbi di natura diversa ovviamente. Perché il dubbio non è solo incertezza, fragilità, ma è anche dinamica. Il dubbio è dinamico, non è depressivo, così come il dubbio amletico, lacerante…

Anche nella fede è importante… ritorna spesso in tante parti della Bibbia, è sicuramente il momento più intenso della fede, no?

Certo…

In ogni caso è ricerca, approfondimento. Terrorizzante, a mio avviso, chi ha solo certezze…

Esatto: mi fanno sempre paura coloro che hanno sempre certezze…

La parola “credo” è esemplare. In molte lingue, ma soprattutto in italiano, significa credere, sinonimo di certezza: “credo”, affermativo; ma anche “credo”… il dubbio costruttivo.

Sì: inteso come “forse”, “chi lo sa”… Certo. Una volta parlai proprio con un cardinale di questi argomenti… Mi proposero di scrivere una Via Crucis, diversi anni fa. Pranzando con questo cardinale ho immesso il tema della fede. E lui mi fece una precisazione molto importante. Gli dissi: «ma sa, io sono avvolto nel dubbio, un dubbio che mi fa male, che mi distrugge, che mi lacera»; non ho usato il termine “dubbioso” perché mi pareva estremamente riduttivo. E lui mi disse: «ma più che un dubbio, lei è dubitante». Quindi non dubbioso. Mi è sembrata un’espressione più delicata.

Come il passo, che può essere dubitante.

Sì. Adopero il dubbio, ma per andare avanti, non per restare fermo…

 

(Roma, 30 marzo 2015)

[1] Nato ad Albano Laziale nel 1953, Giorgio Battistelli ha studiato composizione al Conservatorio dell’Aquila dove si è diplomato nel 1978, frequentando contemporaneamente i seminari di Karlheinz  Stockhausen e Mauricio Kagel a Colonia. Tra il 1978 e il 1979  ha seguito i corsi sul teatro musicale contemporaneo di Jean Pierre Drouet e Gaston Sylvestre. Dal 1981, anno di Experimentum Mundi, ha inizio un’intensa attività di scrittura di opere per il teatro musicale. Le sue composizioni sono state rappresentate presso il Festival d’Automne al Centre Pompidou di Parigi, i Festival di Salisburgo e di Lucerna, la Biennale e la Gasteig di Monaco, la Biennale di Berlino, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, in teatri quali La Scala di Milano, l’Opera di Roma, il Teatro Comunale di Firenze, nei teatri dell'opera di Anversa, Strasburgo, Ginevra, Brema, Mannheim, Almeida di Londra, e inoltre a Hong Kong, Adelaide, Brisbane, Melbourne, Sydney, Wellington, Taipei, Tokyo, New York, Washington, Singapore, La Paz, Pechino. La sua musica è stata eseguita da direttori come Riccardo Muti, Antonio Pappano, Lorin Maazel, Daniele Gatti, Daniel Harding, Ádám Fischer, Jukka-Pekka Saraste, MyungWhun Chung, Susanna Mälkki, Zoltán Peskó. Ha collaborato con i registi Robert Carsen, Luca Ronconi, Georges Lavaudant, Mario Martone, Michael Londsdale, David Pountney, Daniele Abbado, Fura dels Baus e Studio Azzurro, e con interpreti come Toni Servillo, Bruno Ganz, Ian Mc Diarmid, Philippe Leroy, Moni Ovadia, Vladimir Luxuria. Insignito del titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura Francese e di Commendatore dell’Ordine “al merito della Repubblica italiana”, è stato compositore in residenza all’Opera di Anversa, alla Deutsche Opera am Rhein di Düsseldorf e al Teatro San Carlo di Napoli. Ha un’ampia esperienza di direzione artistica maturata presso l’Orchestra della Toscana (dove è tornato dal 2011), la Biennale di Venezia, la Società Aquilana dei Concerti, l’Accademia Filarmonica Romana, la Fondazione Arena di Verona, il Cantiere d’Arte di Montepulciano; attualmente è direttore artistico per l’opera contemporanea e la musica sinfonica al Teatro dell’Opera di Roma. Nell'ultimo anno si segnalano le prime dei lavori sinfonici commissionati dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (Tail Up, diretto da Susanna Mälkki), dall’Orchestra Sinfonica di Münster (Pacha Mama), dalla Saint Paul Chamber Orchestra (Mystery Play), dall’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano (Sciliar). In campo teatrale il 2012 ha visto la prima de Il Duca d'Alba per il Teatro dell'Opera di Anversa, completamento di un lavoro incompiuto di Gaetano Donizetti, e dell’oratorio per il San Carlo di Napoli Napucalisse. In campo didattico, ha insegnato alla Aldeburgh Music e nell’estate 2012 ha tenuto il corso “Progetto Opera” presso l'Accademia Chigiana di Siena. Nel 2013 Battistelli ha intrapreso la lavorazione di Lot, la sua opera su soggetto biblico commissionata dall’Hannover Staatsoper.




 

Si veda qui la recensione a CO2 

 
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