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Il fascino indiscreto della propaganda

di Raffaele Pavoni
  Cinema komunisto
Data di pubblicazione su web 01/06/2015  

A quattro anni di distanza dal premio ottenuto al Trieste Film Festival come Miglior Film Documentario arriva nelle sale italiane Cinema Komunisto, documentario della giovane regista serba Mira Turajlic, che ripercorre, in chiave critico-ironica, il cinema jugoslavo ai tempi di Tito (1945-1980). Alla base dell’opera c’è un lungo e rigoroso lavoro sulle fonti, in particolare sugli archivi e sui set ormai in rovina della Filmski Grad di Belgrado, la mastodontica città del cinema che il regime titino ha fondato e in cui ha investito, a scopi per lo più propagandistici, ingenti somme di denaro.

A frammenti di film oggi in gran parte dimenticati si alternano interviste ad attori, registi, proiezionisti e riprese nei luoghi in cui tale gigantesco apparato operò. Su tutti gli studios della Avala film, tra i più grandi d’Europa, vero cuore pulsante della Filmski Grad, una sorta di Hollywood balcanica capace di attirare produzioni internazionali (Le lunghe naviLa croce di ferroQuo vadis?, etc.) e personalità del calibro di Orson WellesAlfred HitchcockSophia LorenCarlo PontiAlain Delon, Richard Burton. La specificità del comunismo jugoslavo deriva, come noto, dalla rottura con l’Unione Sovietica di Stalin (1948). Da qui la necessità di aprirsi al mercato internazionale, e in particolare a quello degli Stati Uniti d’America, i cui governi erano disposti a ignorare i continui massacri e soprusi operati dal regime nei confronti di dissidenti e di minoranze, pur di garantirsi uno stato cuscinetto tra i territori NATO e quelli del Patto di Varsavia.

Un'immagine del film
Una scena del film

Tito, instancabile cinefilo, non negò mai il proprio sostegno economico e politico allo sviluppo di una cinematografia nazionale (per lo più di propaganda). Il culmine di tale processo si ebbe con la candidatura all’Oscar de La battaglia della Neretva di Veljko Bulajić. Il film, “autoriale” e a tratti esistenzialista, non aveva nulla da invidiare a molte produzioni statunitensi dell’epoca, grancasse governative di cui ci si era serviti per sensibilizzare l’opinione pubblica a favore dell’intervento in Vietnam (Berretti Verdi di John Wayne in primis).

Al di là delle sue qualità cinematografiche, il film della Turajlic è prima di tutto un documento storico, capace di descrivere non solo la potenza e la pervasività dell’apparato propagandistico della Jugoslavia di Tito, ma anche e soprattutto la sedimentazione nella memoria storica di quello che è stato prima di tutto un periodo di boom economico. Le esecuzioni sommarie e le persecuzioni etniche perpetrate dal regime titino non vi sono negate; al contrario, il film si sviluppa proprio sulla tensione tra critica morale e nostalgia del passato. Allo spettatore, dunque, il compito di mantenere separate le due sfere e di capire le ragioni profonde della rivalutazione, frequente soprattutto in area serba, della figura di Tito. La scelta di non ricorrere a una voce over va, per ammissione della stessa regista, in questa direzione.

Niente più del cinema, d’altronde, è capace di assecondare il nostro desiderio di un Eldorado in cui i giusti abbiano la meglio sugli ingiusti e le relazioni sociali siano improntate alla solidarietà reciproca. L’invenzione e la ricerca del bengodi è sempre stata una questione dirimente per tutti i totalitarismi; nello specifico jugoslavo, essa si traduce nella creazione di un paradiso socialista che rappresenti l’obiettivo supremo della rivoluzione permanente contro un nemico perenne e che fornisca, al contempo, il sostrato filosofico-politico necessario perché tale rivoluzione abbia luogo.

Una scena del film
Una scena del film

Ecco il vero centro di interesse e in un certo senso l’aspetto più ambiguo e perturbante del film: non indugiando (colpevolmente o meno) sugli aspetti più torbidi del governo Tito, e quindi sospendendo il giudizio critico in nome di una presunta oggettività, quelle che restano sono immagini surreali, tanto più incredibili e immaginifiche quanto più si presentano come imparziali e fattuali (documentarie, appunto). Si stenta a credere, ad esempio, che per la scena del crollo del ponte della Battaglia della Neretva Tito abbia dato l’autorizzazione a far brillare un ponte reale, ai cui resti, divenuti nel tempo meta turistica, accorrono ancora oggi nostalgici del leader comunista. Facciamo fatica a percepire queste immagini come vere. Eppure sappiamo che lo sono.

Sta qui l’aspetto più disturbante del film; ed è qui che la forma documentaria perde la sua funzione discorsiva per aderire, quasi inconsapevolmente, alla costruzione narrativa che tenta di decostruire e al fascino della mistificazione che vorrebbe descrivere. Il risultato è la rielaborazione non solo dell’esperienza cinematografica titina, ma della Jugoslavia tutta come un grande, bellissimo sogno. Come massima espressione di un desiderio di coesione sociale e di benessere che, nei fatti, non si è realizzato se non nel suo aspetto più esteriore: ossia, nella rappresentazione (cinematografica e non) del sé.

Si capisce, in questo senso, perché Tito, come molti altri dittatori del secolo scorso, amasse il cinema, tanto da esigere che nella sua dimora fosse proiettato un film nuovo tutte le sere, fino al momento del suo ricovero, nel 1980. Di lì a poco morì, e cominciò la lenta dissoluzione del Paese. Della Jugoslavia non resta che un ricordo assurdo, sbiadito, inverosimile, nella mente di quei pochi vecchi che ancora hanno voglia di raccontarlo. La Serbia ha cambiato quattro nomi nell’arco di quindici anni e i Balcani sono diventati teatro di guerre fratricide e biechi nazionalismi, sfociati nelle pulizie etniche di Tudjman Milošević. Poi l’intervento della NATO e gli accordi di Dayton, i quali non hanno impedito, tuttavia, l’apertura di un nuovo fronte di guerra in Kosovo. Ma questa è un’altra storia. O meglio, un’altra Storia.



Cinema komunisto
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La locandina del film
La locandina del film



 
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