A un anno dalla presentazione alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes e a sette mesi dalla partecipazione al London Film Festival, arriva nelle sale italiane The Tribe, opera prima del trentunenne regista ucraino Myroslav Slaboshpytskkiy. Il film, ambientato in un collegio per sordomuti, è interamente recitato nella lingua dei segni, senza sottotitoli né didascalie.
La storia ha come protagonista Sergey (Grigory Fesenko), giovane sordomuto che, arrivato in istituto, viene sottoposto ai riti di iniziazione di una banda di malviventi locale che gestisce traffici di droga e di prostituzione. Entrato a far parte della gang, Sergey si innamora di Anna (Yana Novikova), prostituta in procinto di essere spedita in Italia. Il conflitto tra lappartenenza al gruppo e lamore per la ragazza lo porterà a una scelta difficile ed estrema.
Il film si basa su un coraggioso partito preso, sia sul piano della visione che su quello, ancor più articolato, dellascolto. Se visivamente a complessi piani sequenza si alternano ostinati long take, a colpire è in primo luogo il sonoro, composto unicamente da rumori di ambiente, che nellisolamento acustico della struttura scolastica rimbombano acquistando un inquietante rilievo.
Quello di Slaboshpytskkiy è un cinema di rumori, posture e gesti. Ma è anche un cinema pitturale, dove la composizione interna allimmagine crea sinistri tableaux vivants in cui la violenza e la sopraffazione sembrano essere le uniche modalità di aggregazione sociale.
I lunghi movimenti di camera, che operano un vero e proprio pedinamento nei confronti del protagonista, si alternano alla ieraticità e alla frontalità delle sequenze “carnali”, nelle quali sesso e violenza si alternano senza alcuna variazione di registro. La scena del primo amplesso tra i due giovani amanti, mostrata per intero a camera fissa senza stacchi di montaggio, ha un valore sintattico identico a quella dellaborto clandestino di Anna, effettuato senza anestesia. La lunga scena di sesso orale, che nella sua stilizzazione bidimensionale è privato di ogni dolcezza e sentimento, ha lo stesso peso, allinterno delleconomia narrativa, della sequenza in cui Sergey in maniera animalesca fa a botte con gli altri membri della gang per entrarne a far parte (da qui il titolo del film).
Una scena del film
In queste scene, che interrompono la narrazione lineare per esplorare la potenza dellimmagine nella sua componente verticale, il punto di vista è fortemente distanziato, a livello sia visivo (la maggior parte di queste azioni viene ripresa in campo largo) che, soprattutto, uditivo. Lassoluta predominanza dei rumori dambiente – ed è qui che trova senso la scelta radicale di Slaboshpytskkiy – obbliga lo spettatore a dare attenzione e importanza a ciò che i personaggi non possono sentire: botte, urla strozzate, qualche sospiro, e soprattutto passi, pesanti e ostinati, che spesso, come nella liberatoria sequenza finale, generano tensione, preludendo a quella violenza che si configurerà come lunica scelta possibile. È qui, nel contrasto tra necessità e libertà, o meglio tra autodeterminazione e destino naturale, che il film si fa tragico e, in ultima analisi, sottilmente politico. Ed è qui che il mutismo diventa simbolico, condizione esistenziale di chi è obbligato a sottostare alle leggi della comunità, senza alcuna prospettiva di riscatto.
In conferenza stampa, Slaboshpytskkiy ha ammesso di essersi ispirato a La Mort De Dante Lazarescu di Cristi Puiu e a Gomorra di Matteo Garrone, ma la gamma di riferimenti potrebbe ampliarsi alle reiterazioni astratte di Chantal Akerman, al cinema iperrealista di Jean e Luc Dardenne, alle carrellate a seguire del Gus Van Sant di Elephant.
Il riferimento più esplicito, però, è forse quello al cinema di Theo Angelopoulos. Tuttavia, se per il regista greco la rimodellazione del tempo narrativo classico, con lesaltazione dei tempi morti, nasceva in opposizione al linguaggio politico dominante, a distanza di quarantanni quel medesimo stile diventa quasi la parodia di un certo cinema “difficile”: fastidiosamente estetizzante, anacronisticamente “moderno”.
Se il regista ucraino dimostra di conoscere bene i suoi maestri e di aver intrapreso una profonda ricerca espressiva personale, nella sua operazione di distanziamento riesce a renderci partecipi della violenza, ma non del dramma. La realtà non è né trasfigurata – in modo da dare allopera un senso metafisico che trascenda gli eventi narrati – né resa in quanto tale. Di fronte ai drammi vissuti dai personaggi non siamo né partecipi né consapevoli, ma solo, drammaticamente, voyeurs: entriamo nelle camere da letto dove i protagonisti fanno sesso, nei bagni dove i bulli estorcono soldi, nel furgone dove le ragazze si vestono da prostitute. Il tutto in maniera asettica, studiata, geometrica.
Più che una riflessione sociale o esistenziale, quello di Slaboshpytskkiy è un presepe vivente di nefandezze, di grigio senza speranza, di violenza fisica e psicologica. Resta da capire quanto vi sia di sincero nel film e quanto sia invece da addebitare al filtraggio dei festival europei. Senza comprendere le logiche di diffusione del cinema dellEst Europa nei circuiti occidentali, qualunque affermazione sullo stato dellarte di questo stesso cinema rischia di risultare distorta e velleitaria.
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