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Le colonne danzanti di Sang Jijia

di Mariangela Milone
  Pa|Ethos
Data di pubblicazione su web 26/05/2015  

La domanda più immediata che gli spettatori devono essersi posti davanti allo spettacolo Pa|Ethos, andato in scena tra l’8 e il 10 maggio a Pontedera, non è “chissà che cosa vedremo” ma “dove saremo finiti?”. Non rimarremmo stupiti se a qualcuno fosse balenata in testa una strana risposta: “siamo in un laboratorio”.

Se l’anno scorso lo spettacolo di Sang Jijia, As if to nothing era stato ospitato al Teatro dell’Opera di Firenze, il nuovo lavoro del coreografo cinese è andato in scena nella sala Thierry Salmon del Teatro Era, predisposta nella sua versione “ridotta” (in base alla disposizione della gradinata ribaltabile il numero dei posti disponibili varia da trecentoventi a quattrocentonovanta) e ulteriormente “limitata”: diverse file di sedie sono state transennate in funzione della distribuzione del pubblico. Domenica 10 maggio la sala era piena ma la sensazione era quella, intima, di gente arrivata lì per caso e colta di sorpresa. I volti degli spettatori, già straniti dalla privazione dei posti migliori, si mostravano incuriositi – non senza un filo di dispetto – mano a mano che si diffondeva l’odore pungente e dolciastro del fumo artificiale.

Quando palco e platea sono parsi saturi di fumogeni lo spettacolo è iniziato. Già in As if to nothing la cifra stilistica del lavoro di Jijia era quella dell’analisi. Lì ad essere analizzata era l’immagine del singolo danzatore e dello spettacolo attraverso le riprese e le proiezioni in tempo reale del movimento, in modo da mettere lo spettatore davanti a quello che potremmo definire un discorso moltiplicato. In Pa|Ethos l’analisi è di tutt’altro tipo.

La scena si apre su un fondale di righe bianche e nere in successione, davanti alle quali non si muove l’impressionante baraonda precisa di danzatori di As if to nothing, ma un gruppo di nove figure. Mentre quelle figure danzano il fondale si anima. Le righe acquistano volume grazie agli effetti luministici, diventando simili alle colonne dei templi greci. Tra i fumi nell’aria e i piedi dei danzatori che sembrano battere appositamente con più forza pare librarsi in controluce una polvere molto densa, simile a quella del gesso nel laboratorio di un artista.

Le luci (Marco Policastro) filtrano in scena come dalle lunghe finestre di una cattedrale che si sovrappone con le sue navate all’evocazione del tempio. È quindi lo spazio scenico ad articolare un discorso drammaturgico grazie all’azione congiunta dell’illuminotecnica, dello sviluppo dei suoni elettro-acustici elaborati da Dickson Dee e del movimento dei danzatori, fluido, ma di tanto in tanto intralciato da un gesto repentino apparentemente sconnesso. Gesto che sembra lasciare per qualche secondo al centro di una perfetta composizione di corpi un arto spezzato, la gamba o il braccio di un danzatore piegati e avulsi dal resto, come la risata che erompe sconnessa da uno di loro.


Foto di scena di Michele Leccese

Se nella prima parte dello spettacolo, dedicata al Pathos, l’analisi riguardava i corpi, è nella seconda parte, dedicata all’Ethos, che viene analizzata la materia o, se vogliamo, la sostanza danzante. Il cambio di prospettiva viene suggerito dall’assolo di un danzatore dal volto bianco, come di gesso, che si muove intorno e dentro un cerchio di luce dai contorni irregolari. Mano a mano che si sviluppa la sua danza/arte marziale, il cerchio sembra riempirsi di un pulviscolo energetico di luce fumosa, come un otre gonfio di vento. Quando entrano in scena gli altri danzatori hanno anch’essi il volto bianco e, come statue, sono seguite da un basamento: un rettangolo d’ombra che evidenzia l’energia contenuta nei gesti compiuti non più su tutto il palco, ma quasi solo su sé stessi, in sé stessi.

Viene in mente la tecnica del sats teatrale: un impulso tenuto vivo nel tempo attraverso cui il corpo esegue in nuce un movimento prima di farlo. Una forma di immobilità mobile che qui si fa addirittura danzata, grazie allo studio del movimento in rapporto al suono e, soprattutto, all’uso della luce e delle proiezioni che attivano uno scambio visivo continuo tra il corpo e la sua materia “rubata”, scivolata fuori dal danzatore come un’ombra, una traccia imprigionata nello spazio, nel pavimento o dentro le colonne del fondale. Viene in mente Merce Cunningham, non solo e non tanto per le sue sperimentazioni degli anni Ottanta con il software Life forms, ma in relazione a Dance deck (1957), incarnazione di un tipo di danza in grado di dialogare con lo spazio inteso come organismo vivente.

Senza ricorrere a effetti virtuali sorprendenti Luca Brinchi e Roberta Zanardo (“Santasangre”) suggeriscono, tramite delicati giochi con la materia luminosa, l’essenza del movimento, intrappolata nel corpo/statua. Un movimento che non scompare mai, amalgamato con l’immagine, ma che si dissolve nel buio quando il fondale e il pavimento si animano di ombre fumose o di tratti neri in cui sembra trasformarsi, catturata in tempo reale, l’anima di danzatori trasparenti malgrado la loro fisicità.

Il progetto internazionale avviato da Fabbrica Europa con il coreografo Sang Jijia vede coinvolti i danzatori della Fondazione Milano Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi (interpreti della prima parte dello spettacolo) e quelli dello Spellbound Contemporary Ballet (interpreti della seconda), oltre ad altri organi istituzionali che porteranno avanti il progetto fino a giugno del 2018.

Alla fine dello spettacolo, spente le luci, quelle che erano sembrate colonne doriche tornano a essere strisce bianche appese dall’alto come decorativi tappeti da colonna cinesi. Un sottotesto continuo, coerente con il grido finale di una danzatrice: «Io non parlo cinese».




Pa|Ethos
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