La domanda più immediata che gli
spettatori devono essersi posti davanti allo spettacolo Pa|Ethos, andato in scena tra l8 e il 10 maggio a Pontedera, non è
“chissà che cosa vedremo” ma “dove saremo finiti?”. Non rimarremmo stupiti se a
qualcuno fosse balenata in testa una strana risposta: “siamo in un laboratorio”.
Se lanno scorso lo spettacolo di
Sang Jijia, As if to nothing era stato ospitato al Teatro dellOpera di Firenze,
il nuovo lavoro del coreografo cinese è
andato in scena nella sala Thierry Salmon
del Teatro Era, predisposta nella sua versione “ridotta” (in base
alla disposizione della gradinata ribaltabile il numero dei posti disponibili
varia da trecentoventi a quattrocentonovanta) e ulteriormente
“limitata”: diverse file di sedie sono state transennate in funzione della
distribuzione del pubblico. Domenica 10 maggio la sala era piena ma la sensazione era
quella, intima, di gente arrivata lì per caso e colta di sorpresa. I volti
degli spettatori, già straniti dalla privazione dei posti migliori, si mostravano
incuriositi – non senza un filo di dispetto – mano a mano che si diffondeva
lodore pungente e dolciastro del fumo artificiale.
Quando palco e platea sono parsi
saturi di fumogeni lo spettacolo è iniziato. Già in As if to nothing la cifra stilistica del lavoro di Jijia era
quella dellanalisi. Lì ad essere analizzata era limmagine del singolo
danzatore e dello spettacolo attraverso le riprese e le proiezioni in tempo
reale del movimento, in modo da mettere lo spettatore davanti a quello che
potremmo definire un discorso moltiplicato. In Pa|Ethos lanalisi è di tuttaltro tipo.
La scena si apre su un fondale di
righe bianche e nere in successione, davanti alle quali non si muove limpressionante
baraonda precisa di danzatori di As if to
nothing, ma un gruppo di nove figure. Mentre quelle figure danzano il
fondale si anima. Le righe acquistano volume grazie agli effetti luministici,
diventando simili alle colonne dei templi greci. Tra i fumi nellaria e i
piedi dei danzatori che sembrano battere appositamente con più forza pare librarsi in controluce una polvere molto densa,
simile a quella del gesso nel laboratorio di un artista.
Le luci (Marco Policastro) filtrano in scena come dalle lunghe finestre di
una cattedrale che si sovrappone con le sue navate allevocazione del tempio. È
quindi lo spazio scenico ad articolare un discorso drammaturgico grazie
allazione congiunta dellilluminotecnica, dello sviluppo dei suoni
elettro-acustici elaborati da Dickson
Dee e del movimento dei danzatori, fluido, ma di tanto in tanto intralciato
da un gesto repentino apparentemente sconnesso. Gesto che sembra lasciare per
qualche secondo al centro di una perfetta composizione di corpi un arto
spezzato, la gamba o il braccio di un danzatore piegati e avulsi dal resto,
come la risata che erompe sconnessa da uno di loro. Foto di scena di Michele Leccese
Se nella prima parte dello
spettacolo, dedicata al Pathos,
lanalisi riguardava i corpi, è nella seconda parte, dedicata allEthos, che viene analizzata la materia o, se vogliamo, la sostanza
danzante. Il cambio di prospettiva viene suggerito dallassolo di un danzatore
dal volto bianco, come di gesso, che si muove intorno e dentro un cerchio di
luce dai contorni irregolari. Mano a mano che si sviluppa la sua danza/arte
marziale, il cerchio sembra riempirsi di un pulviscolo energetico di luce
fumosa, come un otre gonfio di vento. Quando entrano in scena gli altri
danzatori hanno anchessi il volto bianco e, come statue, sono seguite da un
basamento: un rettangolo dombra che evidenzia lenergia contenuta nei gesti
compiuti non più su tutto il palco, ma quasi solo su sé stessi, in sé stessi.
Viene in mente la tecnica del sats teatrale: un impulso tenuto vivo
nel tempo attraverso cui il corpo esegue in
nuce un movimento prima di farlo. Una forma di immobilità mobile che qui si
fa addirittura danzata, grazie allo studio del movimento in rapporto al suono
e, soprattutto, alluso della luce e delle proiezioni che attivano uno scambio
visivo continuo tra il corpo e la sua materia “rubata”, scivolata fuori dal
danzatore come unombra, una traccia imprigionata nello spazio, nel pavimento o
dentro le colonne del fondale. Viene in mente Merce Cunningham, non solo e non tanto per le sue sperimentazioni
degli anni Ottanta con il software Life
forms, ma in relazione a Dance deck (1957),
incarnazione di un tipo di danza in grado di dialogare con lo spazio inteso
come organismo vivente.
Senza ricorrere a effetti
virtuali sorprendenti Luca Brinchi e
Roberta Zanardo (“Santasangre”)
suggeriscono, tramite delicati giochi con la materia luminosa, lessenza del
movimento, intrappolata nel corpo/statua. Un movimento che non scompare mai,
amalgamato con limmagine, ma che si dissolve nel buio quando il fondale e il
pavimento si animano di ombre fumose o di tratti neri in cui sembra
trasformarsi, catturata in tempo reale, lanima di danzatori trasparenti malgrado
la loro fisicità.
Il progetto internazionale
avviato da Fabbrica Europa con il coreografo Sang Jijia vede coinvolti i danzatori
della Fondazione Milano Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi (interpreti della
prima parte dello spettacolo) e quelli dello Spellbound Contemporary Ballet
(interpreti della seconda), oltre ad altri organi istituzionali che porteranno
avanti il progetto fino a giugno del 2018.
Alla fine dello spettacolo,
spente le luci, quelle che erano sembrate colonne doriche tornano a essere
strisce bianche appese dallalto come decorativi tappeti da colonna cinesi. Un sottotesto continuo, coerente con il grido finale di una danzatrice: «Io non
parlo cinese».
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