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Russia contemporanea
come fenomenologia del caos


di Raffaele Pavoni
  Leviathan
Data di pubblicazione su web 04/05/2015  

A tre anni di distanza da Elena (2011), Premio Speciale della Giuria nella sezione Un certain regard alla 64° edizione del Festival di Cannes, Andrej Petrovič Zvjagincev, di ritorno alla Croisette, ha presentato il suo ultimo lavoro, Leviathan. Il film, insignito del Prix du Scénaro e candidato agli Oscar 2015 nella categoria Miglior Film Straniero, arriva ora, a nove mesi dalla manifestazione francese, nelle sale italiane.

Ispirandosi e attualizzando il biblico libro di Giobbe, il regista narra le vicende di Kolia (Aleksey Serebryakov), meccanico di una sperduta cittadina della nordica regione di Murmansk, il quale, in seguito a un’ordinanza comunale che prevede la confisca di tutti i suoi terreni, intraprende un’estenuante battaglia contro l’apparato istituzionale. I continui respingimenti dei ricorsi presentati, insieme all’arroganza e all’ipocrisia del corrotto sindaco locale (Roman Madyanov), lo porteranno alla disperazione e al progressivo isolamento.

Come nel racconto della Bibbia il protagonista sopportava la perdita dei suoi beni e dei suoi affetti, oltre alle sofferenze della malattia, così Kolia si ritrova progressivamente emarginato e derelitto, e la sua dipendenza dall’alcol si aggrava di conseguenza. Se Giobbe, però, non mettendo in discussione la volontà del Signore, era ricompensato con il raddoppiamento dei suoi beni precedenti, nella Russia di Zvjagincev non c’è salvezza; non esiste un Dio misericordioso che renda giustizia, e la reazione personale, istintiva, cieca, diventa l’unica forma di reazione possibile. «Perché?», si chiede il protagonista mentre il suo sguardo si perde verso un mare in tempesta, dal quale appare fugacemente un mostro marino: il Leviatano, appunto.

Gli eventi si offrono alla conoscenza in quanto tali: frammenti sparsi di un caos primordiale. Tutto ciò che si offre all’intuizione, per riprendere la fenomenologia di Husserl, è da assumere come esso si dà, ma soltanto nei limiti in cui esso si dà. La creatura biblica del Leviatano, quindi, non è intesa come la volontà insondabile del Signore, ma come quella, altrettanto insondabile, della natura. Paesaggi freddi, inospitali, desolati sono quelli che aprono e chiudono il film, in uno schema narrativo che, detto ancora con un linguaggio husserliano, si configura come una sorta di riduzione eidetica dei fenomeni alla loro essenza prima. Tale movimento circolare, ricollocando le vicende umane in un contesto più ampio, ne sottolinea l’accessorietà e la transitorietà.

Di stampo fortemente antonioniano, il cinema di Zvjagincev è caratterizzato da un’insistente fascinazione per l’informe e per la figura che si nasconde, che si cancella, che scivola verso l’indifferenziato, si lascia attirare dal vuoto, si fa inghiottire dall’ambiente. Questa tecnica, che i francesi chiamano del temps mort, consiste nello svuotamento dello spazio rappresentato: i luoghi che ospitano le vicende narrate acquistano progressivamente una presenza formale astratta, quasi pittorica (ben interpretata dalla fotografia desaturata di Mikhail Krichman). In questo registro espressivo, la musica di Philipp Glass, soffice e minimalista, entra senza quasi farsi sentire, come una pura sottolineatura di questo dissolvimento dell’uomo nell’ambiente circostante.

La religione, di fronte al potere incontrastato e illogico della natura, non può che apparire come un rituale finto e autoreferenziale, il quale, incapace di rispondere alle domande dei bisognosi, punta solo alla conservazione di se stesso. La chiesa diventa un luogo di negoziazione e trattativa più che di contemplazione e di preghiera, e le prediche appaiono come discorsi vuoti e senza significato, che possono essere accolte senza alcun turbamento interiore anche da chi, come il sindaco, ha coscientemente commesso gravi peccati. Del temibile Leviatano biblico, quindi, non resta che uno scheletro gigante, abbandonato, verso il quale il figlio di Kolia, Roma (Sergey Pokhodaev), corre in cerca di un impossibile conforto.

Il nucleo familiare, come tutte le altre forme del vivere civile, è sottoposto a una forza disgregante della quale non capiamo l’origine; e non la capiamo perché, in un’ottica rigorosamente fenomenologica come quella del film, essa è inintelligibile. In questo senso, la lotta di Kolia contro lo sfratto esecutivo prende le forme di un tentativo strenuo e disperato di tenere insieme i cocci, di aggregare ciò che le circostanze esterne tendono inevitabilmente a disgregare. È qui che Leviathan si inserisce in maniera coerente e matura nella riflessione intrapresa da Zvjagincev, iniziata con Il Ritorno (2003) e proseguita con The banishment (2007) e con il già citato Elena (2011). La riflessione, cioè, di un cinema che indaghi lo statuto dei legami familiari e la loro fragilità rispetto agli eventi che li sovradeterminano; eventi che talvolta possono assumere, come nella tradizione del melodramma cinematografico, connotati fortemente sociali o politici.

È solo tangenzialmente, quindi, che si ravvisa una critica alla società russa contemporanea, critica comunque presente e tagliente. Non stupisce l’iniziale recalcitranza, da parte delle istituzioni russe, a candidare il film agli Oscar, dopo il rifiuto clamoroso da parte di Andrej Konchalovskiy di partecipare alla competizione con il suo The Postman’s White NightsLeviathan è uscito nelle sale russe dopo un lavoro di censura durato quattro mesi, in base alle direttive della recente legge contro il turpiloquio promulgata dal governo di Vladimir Putin. «I film che levano ogni speranza e significato alla nostra esistenza non dovrebbero essere finanziati dai contribuenti», ha dichiarato a proposito della pellicola il ministro della Cultura russo Vladimir Medinsky, facendosi portavoce di una concezione utilitaristica e nazionalpopolare dell’arte che, purtroppo, costituisce ad oggi un grande freno allo sviluppo della cinematografia locale.

In realtà, tuttavia, considerare Leviathan come un affresco della situazione politica russa contemporanea vorrebbe dire distorcere, in un’ottica eurocentrica, quella che in realtà è una spietata riflessione antropologica sulla violenza come caratteristica immanente della natura e sull’impossibilità della solidarietà reciproca in un sistema in cui ogni individuo lotta solo per il proprio tornaconto personale. L’amministrazione in carica, in questo senso, rappresenta solo una conseguenza di questo sistema, e i politici diventano simboli da idolatrare o demolire a seconda delle circostanze e delle convenienze.

Impossibile, quindi, non collegare la foto di Putin, che campeggia nel gabinetto del sindaco, con la scena del tiro al bersaglio, nella quale, esaurite le bottiglie di vetro a cui sparare, un amico di Kolia propone di predisporre dei quadri raffiguranti alcuni presidenti dell’Unione Sovietica (Vladimir LeninNikita KhruščёvLeonid BrežnevMichail Gorbačëv). Alla domanda «non hai qualcosa di più moderno?», egli risponde «ho di tutto, ma è troppo presto per quelli moderni, serve ancora un po’ di prospettiva storica». 



Leviathan
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La locandina del film
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