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Si scrive Puškin, si legge Cechov

di Paolo Patrizi
  Evgenij Onegin
Data di pubblicazione su web 20/04/2015  


Per il debutto di Evgenij Onegin (1879), Čaikovskij non volle avvalersi di uno dei Teatri Imperiali che, a Mosca come a Pietroburgo, insufflavano zarista sontuosità ai palcoscenici russi. Almeno per l’esordio preferì un teatro piccolo, giovane, povero, libero: e queste «scene liriche in tre atti e sette quadri», che già da tale qualifica sottintendevano un’idea di rapsodico minimalismo lontano dall’imponenza e dalla compattezza del tradizionale genere operistico, finirono col vedere la luce nel teatrino del Conservatorio moscovita. D’altronde, sosteneva Čaikovskij, per servire al meglio questo suo lavoro occorrevano «cantanti di media forza, ma ben preparati e capaci di recitare in modo semplice e convincente», oltre a «coristi che non siano un branco di pecore, ma partecipino all’azione» e «una messinscena non fastosa, ma che risponda alle esigenze dell’opera».

                                                                                          

Per rispettare questi auspici non c’è modo migliore di quello del Teatro Vanemuine di Tartu: seconda città dell’Estonia ma primo centro universitario, nonché sede di un teatro “ramificato” – il Vanemuine, appunto – che assicura un’ampia messe di spettacoli con i suoi tre diversi palcoscenici (l’affascinante Piccolo Edificio costruito negli anni della prima guerra mondiale, il più ampio teatro di età sovietica e un terzo spazio affacciato sul fiume e denominato Teatro del Porto). Da due stagioni, infatti, nel Piccolo Edificio va in scena la ricostruzione dello storico Onegin realizzato nel 1922 da Konstantin Stanislavskij per l’Opera Studio di Mosca: una delle tante diramazioni del Teatro d’Arte moscovita (la “casa” dove Stanislavskij dava vita alle sue regie) e che trovò la sua sede nello stesso Bolshoi, dove si venne così a formare una sorta di zona franca lontana da tradizioni e convenzioni, in cui sperimentare allestimenti “cameristici”, senza orchestra, in abiti contemporanei e con attori-cantanti piuttosto che cantanti-attori.

 

Un momento dello spettacolo


L’impresa, all’apparenza, è utopistica: di quell’Onegin esistono solo sbiadite fotografie d’epoca e altri materiali di archivio, a cominciare dai fittissimi appunti dello stesso Stanislavskij. Ma siamo lontani da certe velleitarie riesumazioni italiane, come le regie di Visconti riproposte post mortem negli scorsi decenni con un asettico calligrafismo che nulla manteneva dello spirito originale. Realizzato in tandem col Teatro Helikon di Mosca da quella sorta di Don Chisciotte – ma pure regista tra i più fertili dell’Est europeo di oggi – che è Dmitry Bertman, lo spettacolo ha un sapore insieme nuovo e antico, rétro eppure di sconvolgente modernità.

 

Bertman ha spesso realizzato un “suo” Čaikovskij tutt’altro che filologico (resta memorabile una riscrittura drammaturgica della Dama di picche ridotta a puro Kammerspiel, e pure dell’Onegin ha offerto, in altre occasioni, letture abilmente infedeli): ma qui sceglie di guardare indietro, rinunciare all’invenzione in favore della Grande Scuola, non avere altri obiettivi al di là del lavoro di recitazione su solisti e coro. Un po’ come – scrive nelle note di regia – quando si torna al cibo biologico dopo tanti pasti gustosi, ma colmi di additivi.

 

D’altronde, allora, l’Onegin di Stanislavskij sembrò rivoluzionario ancor più di quanto oggi possa apparire dissacratoria una regia di Bertman. Se confezione impeccabile, ambientazione d’epoca e rifiuto di un Konzept al di là del testo per concentrarsi sul dato attoriale dovrebbero – ai giorni nostri – far felice lo spettatore tradizionalista, la portata innovativa dello spettacolo resta enorme. Intanto perché quelli che a noi paiono adesso costumi genericamente ottocenteschi sono in realtà abiti fin de siècle o, meglio ancora, primo-novecenteschi: un abbigliamento, insomma, contemporaneo o quasi rispetto alla messinscena, cosa che era poi uno degli obiettivi del realismo stanislavskiano (e creava un gap non indifferente con quegli anni Venti del diciannovesimo secolo in cui si svolge la vicenda). Poi perché quello di Stanislavskij è un realismo spirituale, non naturalista: la minuzia dei dettagli è solo l’involucro dell’approfondimento interiore, l’atmosfera è sempre più reale della realtà fenomenica.

 

Un momento dello spettacolo


Ne sortisce un Onegin vicino a Čechov piuttosto che a Puškin: ma, attenzione, un Čechov lontano dalle letture strazianti, lacrimevoli (in fondo, appunto, čaikovskiane) di un’illustre tradizione italiana, e che guarda invece alla commedia, a una quotidianità antiretorica, al sorriso che stempera – senza rinnegarlo – il dramma più profondo.

 

Il “metodo Stanislavskij” – l’identificazione dell’attore con il ruolo interpretato, in un processo simbiotico dove il regista svolge attività più maieutica che demiurgica – richiedeva nella prosa mesi di prove; e per il teatro d’opera, che pone un maggior numero di fattori con cui fare i conti, i tempi di metabolizzazione furono ancora più lunghi: lo spettacolo debuttò nel ’22, ma i lavori preliminari sui cantanti erano iniziati nel 1918. E inevitabilmente, nell’ambito dell’Opera Studio, Evgenij Onegin restò la sola regia di Stanislavskij.

 

Le foto della storica messinscena, proiettate all’inizio di ogni quadro, offrono istantanee d’epoca e garantiscono un passaporto filologico all’operazione, ma è difficile stabilire quanto, nella ripresa di Tartu, sia fedele all’allestimento di allora, e quanto invece sia frutto della fantasia di Bertman. Il sapore della ricostruzione resta però stanislavskiano: per l’adesione fisico-caratteriale degli interpreti ai personaggi; per la semplificazione scenografica (cara soprattutto al tardo Stanislavskij, quale era quello del 1922) volta a mettere in risalto la recitazione; per l’idea di un teatro fisiologicamente “finto” (le betulle si confondono con le colonne del Bolshoi) e, tuttavia, mai “falso”.

 

Un momento dello spettacolo


Sarebbe lungo l’elenco dei momenti che restano negli occhi e nella mente: ma è impossibile non citare il bacio tra Lenski e Olga mentre Larina e la njanja occhieggiano spiritate alla finestra, il fermo immagine con cui si apre la scena della festa, Larina malinconicamente ridente sotto la sua cuffietta di vedova-bene, la crisi isterica di Olga davanti al disastro provocato dalla sua civetteria. Ovviamente occorre poi una lettura musicale capace di dialogare alla pari con una messinscena di tale rilievo: e Paul Mägi, direttore stabile a Tartu, ci riesce, tenendosi lontano da quel Čaikovskij di tradizione (estenuazioni, fraseggio sminuzzato, tempi rubati) che con questa regia non c’entrerebbe nulla, e offrendo anzi un rigoroso piglio ritmico capace di aprire orizzonti inconsueti sulla partitura. Ma, come sempre in Stanislavskij (e anche in Bertman), sono gli attori – pardon, i cantanti – a fare la differenza: giovani e belli per Onegin, Tatjana, Lenski e Olga, con tutte le increspature dell’età matura per gli altri personaggi.

 

Pazienza, poi, se al physique du rôle da bel tenebroso Jevgeni Chrebtov unisce un’acerbità che lo lascia indietro di qualche spanna rispetto all’intensa Tatjana di Karmen Puis, e lo costringe a inchiostrare un po’ troppo la voce per raffigurare pure in via canora lo spleen di Onegin; o se Märt Jakobson restituisce solo parte delle infinite sfumature dell’aria di Gremin. Mentre gli altri interpreti, anch’essi selezionati soprattutto per la loro fisicità, rispondono meglio alle esigenze vocali: Roland Liiv, a giudicare dal curriculum, parrebbe tenore di mezzo carattere, ma qui mostra un lirismo pudico e un’eleganza della linea da farne un Lenski ideale; mentre Annaliisa Pillak, che spesso affronta il ruolo di Olga (qui sostenuto da una Teele Jőks efficacemente nevrotica e cavallona), si circoscrive al personaggio di Larina per mettere meglio a frutto la sua maschera ironica e mobilissima.

 

Valentina Kremen come njanja e Mehis Tiits come Triquet sono forse più prevedibili, mentre si resta stupefatti davanti all’icasticità dei ruoli minimi, a cominciare dal piglio burbero e militaresco dello Zareckij di Simo Breede. D’altronde tra le sorprese c’è pure scoprire che quel baritono grassone e rubizzo che attraversa la scena della festa – Jaan Willem Sibul – è un abituale interprete di Falstaff; e che per il personaggio muto di Guillot (qui trasformato in un minorato mentale: una delle invenzioni più belle della regia) troviamo German Gholami. Il quale non soltanto, negli altri quadri, canta nel coro con grande appeal di attore, ma talvolta sostiene pure il ruolo di Lenski.



Evgenij Onegin
Scene liriche in tre atti e sette quadri


cast cast & credits



 
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