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Gioco rischioso d'amore e di teatro

di Gianni Poli
  Con l'amore non si scherza
Data di pubblicazione su web 20/04/2015  

 

Un proscenio avanzato in platea nasconde un ruscello che termina rivelando una piccola fontana. Un cielo luminoso e screziato di nuvole improvvise fa da sfondo a un campo di alti girasoli sfioriti. L’immagine campestre del luogo degli scontri fra Camille e Perdican, amanti impossibili, incoscienti e patetici, è il segno fiabesco impresso alla vicenda creata da Alfred de Musset nell’allestimento di Massimo Mesciulam e Guido Fiorato al Teatro Duse di Genova. Gli esterni della tenuta padronale mutano in interni del Castello mediante l’inserimento, a metà scena, d’una paratia scorrevole con due varchi centrali.

 

È così ambientata, in un Novecento un po’ sognato, la commedia a triste epilogo dei due cugini attratti da fatali, contrastanti affinità amorose. Nel testo, concepito nel 1834 come «proverbio in prosa», agisce una polarità ambigua, fra comicità farsesca e drammatica tensione, in un linguaggio variabile a seconda dei tipi dei personaggi. Si va dalla buffoneria anche grottesca degli anziani alla dolente e turbata sensibilità dei più giovani. Nonostante non si avverta l’autobiografismo nell’opera giovanile del poeta-drammaturgo, la rappresentazione mostra i destini personali di figure connotate da un’affascinante risonanza poetica. Prevalgono dimensioni immaginarie su un mondo di passioni e sentimenti reali che vengono orientati a profondità essenziali.

 

Un momento dello spettacolo © Maritati
 

Il gioco avviato dalla diciottenne nipote del Barone, educata in convento e ora alle soglie della scelta della vocazione, si rivela terribile e rischioso. Nell’inconsapevole età, la ragazza saggia i sentimenti sconosciuti verso il cugino, raffrontandoli all’esperienza negativa d’una compagna disillusa dalla vita e segnata dall’ascesi, e alimenta così un orgoglio narcisistico, nemico, secondo l’analisi registica, dell’intesa amorosa. Il suo promesso sposo, stupito e turbato dall’accoglienza imprevedibilmente gelida e scostante, si dedica per ripicca a corteggiare Rosetta, una contadinotta ulteriormente ingenua e sprovveduta.

 

Il regista non indaga sulle mozioni raziocinanti dei protagonisti, ma insegue i loro comportamenti nelle contraddizioni forse insolubili e più umanamente istintive. Il dramma scandisce svolte funzionali: il primo incontro dei due giovani, la necessità di Perdican di riappropriarsi dei luoghi mitici dell’infanzia (ad esempio, la fontana), tentando qualche confidenza con l’amica affezionata d’un tempo. Di seguito, l’interrogatorio a cui Camille lo sottopone per accertarsi d’una ipotetica, eterna fedeltà a ideali astratti e sfuggenti. La crisi dolorosa nell’accorgersi che la reazione dell’altro alimenta la gelosia.

 

Anche alcune lettere complicano il rapporto, lo spingono all’inattesa, tragica conclusione. Coinvolta nella rivalsa, Rosetta è infatti facile vittima delle profferte di Perdican. Si illude. Poi, ricevendo la prova dell’inganno a cui è stata sacrificata, cade svenuta. Gli eventi si susseguono d’allora guidati da una fatalità crudele: Perdican promette comunque a Rosette di sposarla, tant’è ch’ella appare un momento in abito nuziale. Un abbraccio appassionato lega finalmente gli innamorati, per un momento di libertà sincera. Odono però il grido lontano della disgraziata Rosette. Paure, rimorsi, preghiere e sospiri travolgono entrambi negli ultimi istanti, quando Camille s’accorge della morte della povera rivale, la annuncia a Perdican e gli dice addio.   

 

Un momento dello spettacolo © Maritati

 

Tutto nello spettacolo allude a un mistero insondabile, svolto con l’andamento di un gioco pericoloso; dove comicità e ridicolo virano in atmosfere addirittura metafisiche. Ma nulla indulge al romanticismo letterario plausibile nella riattualizzazione della pièce. Anzi, il testo in traduzione contemporanea serba gusti e forme poetiche essenziali alla magia dell’immaginazione, con digressioni ironiche e qualche preziosismo lessicale. Poiché non ricordo allestimenti italiani recenti e probanti, richiamo l’edizione moderna diretta da Jean-Louis Barrault, intesa a sottolineare la dimensione onirica e agreste, in una scenografia a «tappeto erboso e fiorito» (1951); e quella di René Clair, con protagonisti Gérard Philipe e Suzanne Flon (1959).

 

Oggi Mesciulam affronta coraggiosamente la coppia e in particolare l’enigma di Camille (ruolo a suo tempo definito come composto di «due donne differenti») mantenendone l’ambiguità, pure con qualche complemento drammaturgico, atto a facilitare la verosimiglianza d’una vicenda passionale, potente e negata, “al limite”, altrimenti incomprensibile allo spettatore attuale. La coppia centrale convince per maturità espressiva (forza, precisione, colore emotivo della dizione) e spontaneità ben controllata. Perdican trova in Jacopo Maria Bicocchi persino dolcezze e smarrimenti, oltre allo slancio veemente in cerca della soluzione decisiva per la vita, della felicità commisurata al possibile, malgrado le remore culturali. Rachele Canella ha la scontrosa reattività allarmata d’una Camille giovane immatura, ingenua e curiosa, mossa da emozioni la prima volta sconvolgenti, quando compara la lezione del convento con la realtà al presente. Alice Giroldini dà a Rosette una naturalezza vitale, anima e corpo vibranti d’una energia pura.

 

Sapide raffigurazioni s’incontrano nel gruppo familiare, a partire dal Coro di Nicolò Giacalone, rappresentativo dei contadini. Orietta Notari offre una petulanza burbera o irosa alla governante Pluche, stracarica di bagagli e attrezzata a sostituire l’asino con la motocicletta. Andrea Di Casa è il Barone dagli accenti piemontesi, forse per testimoniare il pregio dei vitigni del cui succo s’abbeverano lautamente i due preti di casa: il Curato, Don Bridaine (Roberto Alinghieri) e il Precettore Don Blazius (Roberto Serpi), in rivalità incessante.

 

La riflessione del regista e l’intuizione dello scenografo trovano nella Compagnia uno strumento duttile e originale. Ne risulta un’interessante e meritevole prova di rielaborazione di un classico difficile, in cui il giardino (stregato?) dei girasoli s’impone visivamente come segno naturale, riuscendo inoltre metafora d’una condizione umana curiosamente problematica. Notevole la partecipazione del pubblico, contento e plaudente.    



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