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Saga per molte primavere

di Marco Pistoia
  Lehman Trilogy
Data di pubblicazione su web 11/04/2015  

Inevitabile scrivere di Lehman Trilogy come di un’opera ultima, ulteriore specificazione di una certa declinazione del concetto di “tardo stile”. Spero non sia una facile suggestione ripensare quest’ultima regia facendo scorrere nel pensiero tante e tante immagini degli spettacoli di Ronconi, nel mentre a un tempo si pensa a come sarebbe stato il suo prossimo Goldoni.

I tre fratelli Lehman (Henry/Massimo De Francovich; Emanuel/Fabrizio Gifuni; Mayer “Bulbe”/Massimo Popolizio) nella seconda parte dello spettacolo appaiono come spettri (celebre regia spoletina, da Ibsen), coscienze critiche verso figli (Philip/Paolo Pierobon, figlio di Emanuel; Herbert/Roberto Zibetti, figlio di Mayer) e nipoti (Robert/Fausto Cabra, figlio di Philip), nello scontro tra un mondo – nato poco dopo la metà dell’Ottocento – una mentalità, uno stile, un’etica e i loro entropici ribaltamenti.


Un momento dello spettacolo
(foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva)

Parafrasando l’aureo studio di Piero Sraffa, i Lehman passeranno dalla produzione di merci (e di affari) a mezzo di merci alla produzione di soldi a mezzo di soldi. Quella dei Lehman del resto – e Ronconi lo aveva detto – è una saga (come a suo modo, solo per riferirci all’altro ieri teatrale, quella dello Stoppard della Sponda dell’utopia), che Massini racconta in oltre trecento pagine di notevole sapienza di stile e scrittura, complessità di stilemi e cifre (anche in senso letterale), flussi di coscienza in forma di monologo interiore/esteriore poiché declinato in terza persona (come, in Ronconi, già nel Pasticciaccio ma anche in Lolita, così da creare un “effetto O’Neill/Strano interludio”) e commenti a mo’ di coro antico.

Ronconi – con l’ausilio del drammaturgo – rende in due parti quello che nel testo è in tre e crea uno straordinario concertato fra i personaggi, assecondato, come diremo meglio più avanti, da una magnifica squadra, in particolare i quattro “moschettieri”. Fin dall’inizio tutti i personaggi appaiono in scena con le loro sembianze “della vita reale”, con pochissimi interventi di trucco, primo segnale di un certo effetto di straniamento (il sempre amato Brecht), alimentato grandemente dalla discordanza tra l’età (anzi: le età) che hanno come personaggi e quella che hanno come attori.

In particolare è lo Henry di De Francovich a suscitare l’effetto più straniante: sapendo che egli morirà a poco più di trent’anni, la sua barba bianca sul volto di un attore anziano, ancorché di bell’aspetto, di fatto gli conferisce un’immagine da patriarca – quale simbolicamente vuol essere. Quando Emanuel invecchia, come segno di questa mutazione egli ha solo un bastone e un leggero incedere claudicante, ma è impressionante Gifuni nel sembrare vecchio rimanendo nelle proprie sembianze e con la sua bella barba nera. E lo stesso, a suo modo, dicasi per Mayer, al quale Popolizio, quando “Bulbe” è invecchiato, offre una magnifica camminata “a singhiozzo”.

I tre fratelli – ma anche Philip – indossano una tipica tuta con zip, sotto la quale appaiono abiti borghesi. Un sincretismo che non solo sintetizza le loro due anime – quella proletaria e di piccolissimi mercanti legati alla terra, prima, quella, alto-borghese, poi – ma è parte di un filo rosso costante di tutto questo spettacolo: più bello, ricco e intenso nella prima parte, un po’ meno nella seconda. Il filo è quello della atemporalità o della intemporalità, delle quali è segno scenico e simbolo l’orologio, à la manière di quelli delle vecchie stazioni, che, seppur spostandosi lungo l’asse della scena, segnerà fino alla fine sempre la stessa ora.


Un momento dello spettacolo
(foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva)

Del resto l’incertezza è un altro segno, a mo’ di leitmotiv, espressa – concretamente quanto simbolicamente – dall’equilibrista Solomon Paprinskij (un convincente e più maturo Fabrizio Falco), che sovente attraversa la scena da sinistra a destra e viceversa, interagendo con precisione analitica. Pareti monocrome grigio perla emanano a loro volta un senso di astrazione ma anche di apertura verso l’infinito delle possibilità combinatorie e dell’immaginazione (un richiamo a Infinities?). Il turbinio spazio-temporale, mai precisamente espresso, è soggetto a voluti e ricorrenti sincretismi: i figli entrano in scena adulti e Herbert addirittura con una gran chioma canuta, ma hanno sei o sette anni di vita. Tutto ciò crea un effetto quasi comico, spesso perfino divertente. Lehman Trilogy è vicino al più tipico umorismo ebraico. Mayer/Popolizio un po’ gigione, ma con encomiabile sapienza, sembra un eco dello schlemihl, così come Emanuel interpretato in modo impareggiabile nella lunga scena della richiesta di matrimonio (alla maniera di Čechov).

Il cambio di registro – in primis etico – dai tre fratelli ai figli è assai sapientemente espresso da Pierobon, che fin dall’inizio dà a Philip i tratti aggressivi e un po’ trucidi della nuova, rampante, cinica generazione, laddove altri – Herbert – sembra un tribuno meccanicamente comandato – e così appare, autorevole, la resa di Zibetti. Altri ancora – Robert – una macchinetta impazzita (piuttosto buona la prova del giovane Cabra), dal volto e dai gesti che potrebbero evocare certi stilemi da avanguardie storiche degli anni Venti (à la Karl Valentin). Non memorabili i vari caratteri muliebri – la moglie di Philip, le mogli di Robert – con i quali tuttavia Francesca Ciocchetti si misura con carattere e proprietà.

“Midrashica” narrazione, questa regia ultima del maestro, di un progressivo crepuscolo degli dei, dopo che i Lehman avevano sguazzato nel Walhalla, con parole scritte che s’illuminano, a cadenzare, attraverso la terminologia ebraica, i riti – anche di passaggio, come il Bar Mitzvah – e le ricorrenze, anche luttuose. Possibile declinazione, in quanto scritte, dei cartelli brechtiani, ma anche possibile eco, in quanto luminose, di uno stilema adottato da Bob Wilson (Einstein on the Beach, che debuttò nella Biennale diretta da Ronconi).


Un momento dello spettacolo
(foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva)

Ronconi ancora una volta non si è fatto sfuggire la possibilità di vedere all’opera una squadra d’altri tempi: i quattro interpreti principali lavorano come un quartetto d’archi, del quale l’ultimo arrivato Gifuni sembra far parte da tempo, tanto se la intende con i suoi compagni d’arte. In particolare vorrei ricordare il battibecco tra Emanuel e Henry, condotto dai rispettivi attori con notevole allure e un serrato ritmo da litania religiosa. De Francovich all’inizio non pare convincente, dimostrando poi quanto il suo pressoché costante tono di voce sia funzionale al carattere patriarchico, pacato, autorevole del suo Henry.

Popolizio sfiora più volte la gigioneria, ma con classe comprovata evita l’enfasi. Pierobon ha una matura attitudine al physique du rτle con il suo Philip, talora mefistofelico. Tutti hanno voci autorevoli e non microfonate, mentre nella seconda parte – ma non per il quartetto – vengono adottati microfoni funzionali a precisi effetti acustici. Oramai ai gattopardi sono subentrate le iene, sinistramente rappresentate da due caratteri (efficaci i loro interpreti), Pete Peterson (Raffaele Esposito) e Lewis Glucksman (Denis Fasolo). La fisiognomica di quest’ultimo evoca il Pinguino del Batman, il ritorno di Tim Burton.

Il lungo, secolare viaggio verso la notte è infine approdato nelle tenebre, con ritmi da danza macabra.




Lehman Trilogy
cast cast & credits
 

Si rinvia qui al ritratto ronconiano a firma di Claudio Longhi


Luca Ronconi

 
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