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Maschi, femmine e cantanti su un tappeto di contanti nel cielo blu

di Mariangela Milone
  La rabbia
Data di pubblicazione su web 03/04/2015  

Nel cuore di Riccione il Teatro del Mare è segnalato sulla via maestra da un’insegna, al pari di tutti i locali commerciali che si affacciano direttamente sulla strada. Per accedervi bisogna imboccare una stradina che devia dal percorso principale e conduce sia all’entrata del teatro sia alla Casa del Popolo (simmetricamente tappezzate di manifesti) sia alle abitazioni, un po’ occupate e un po’ sfitte, che si affacciano sulla via. L’armonia è totale. Le persone che sfilano in centro davanti alla pletora delle vetrine griffate sono vestite con cura e giudicano con cognizione di causa gli abbinamenti indossati dai manichini. Sullo sfondo di ricche fontane e spettacoli luminescenti a riposo, capannelli di uomini discutono con estrema praticità beghe di lavoro. I ragazzi camminano con addosso indumenti costosi senza esibirli, portandoli in giro con noncuranza. Tutto è ricchezza che sprizza un’aria di “fatto in casa”. I marchi famosi, sovrimpressi dappertutto, sembrano non schiacciare le persone ma esserne alleati, compagni. 

Leggere quello che in giro si reclamizza e si espone diventa rapidamente un automatismo; ci si sorprende a camminare recitando frasi pubblicitarie senza ricordare dove le abbiamo viste scritte e perché ci sono rimaste impresse. La strana sensazione di aver “perso” del tempo, camminando, si impadronisce di chi non ha dimestichezza con lo scenario urbano e ci si ritrova ad ammirare la disinvoltura pratica dei negozianti, che anche qui svendono al cinquanta e al settanta per cento le loro merci. A guardar bene però la svendita generale non ha il sapore, come altrove, della rassegnazione; sembra dettata dalla convinzione che non il lancio (di una moda, di una proposta culturale o politica) ma il rilancio tempestivo sia la chiave per afferrare sempre il nocciolo delle questioni critiche.

Un simile gioco tra messa a fuoco e sfocatura sta alla base dello spettacolo La rabbia di Pippo Delbono, andato in scena venerdì 13 marzo nell’ambito della rassegna La bella stagione. Lo spettacolo ha inizio ben prima che tutto il pubblico abbia preso posto; ha inizio addirittura sui foglietti che girano in sala e nel foyer del teatro, sui quali sono riprodotte fedelmente le prime battute. Mentre gli spettatori si salutano e prendono posto, Piero Corso suona dolcemente la sua chitarra, senza intromettersi tra i convenevoli e rimanendo quasi nascosto a margine del palco. Esattamente al centro invece Pepe Robledo, in tuta da lavoro, sparge segatura sul palco come se fosse impegnato, comodamente, nell’atto di gettare becchime a invisibili galline nel recinto della sua aia. Delbono si aggira tutt’intorno, entrando e uscendo dalle quinte, aggiustandosi i vestiti e lanciando saluti a questa e a quella persona riconosciuta tra il pubblico, continuando nel frattempo a sistemare i pochi attrezzi di lavoro.


Foto di scena di Margherita Cenni

L’attore e regista fa visibilmente cenno al musicista di sfumare e prende in mano il microfono per rivolgersi agli spettatori con voce soffice, simile a quella di un prete che rompa il silenzio in chiesa timoroso di distogliere i fedeli dalla preghiera e al contempo desideroso di attirarne l’attenzione. Comincia così, sui soffiati, a recitare l’incipit che già tutti conosciamo: quel discorso deittico volto a specificare cosa sia questo spettacolo a cui stiamo per assistere. Una mescolanza di ricordi e sogni, non solo di Delbono e degli attori in scena, ma ricordi e sogni che appartengono ai tempi di Pasolini più che a Pasolini stesso.

L’attore spiega, quindi, quali siano state le suggestioni all’origine dello spettacolo: libri, film, personaggi, momenti di vita vissuta. Mentre ci intrattiene, sfidandoci a scomporre e isolare le parole di Chaplin da quelle dei Vangeli o di Genet, mette in atto l’abilità pratica del costruttore teatrale, cioè di colui che ricostruisce, tramite il teatro, quel legame non sempre diretto tra il trovare nella memoria, personale o collettiva, e il fare (nuovo).


Foto di scena di Margherita Cenni

La presenza costante di Delbono in scena attira l’attenzione del pubblico. Non eclissa i particolari di ciò che avviene, anzi, li rende più evidenti. Il suo ruolo sembra a tratti quello di un conduttore televisivo e a tratti quello del personaggio principale di una pièce. Gli equilibri cambiano infatti a seconda che in scena gli attori si muovano all’interno o all’esterno dello spazio “magico” appena tracciato da Robledo con il suo tallone sul tappeto di segatura: un cerchio con al centro una croce. Qualcosa di simile a un mirino fotografico.

Quando Delbono non è in questo spazio, con addosso gli abiti scuri e sgualciti che, in un’altra epoca, indossava suo padre, lo vediamo coperto a fatica da una camicia bianca, sgargiante sotto la luce dei riflettori, quasi quanto il lampo prolungato di un flash. Accanto a lui (volutamente discosto dal centro), vediamo ora una coppia presa nel laccio della vita quotidiana, che danza in una lotta per non mancarsi di rispetto; ora una voluttuosa schiena femminile, che fa capolino da uno stropicciato abito da sposa usato da generazioni più o meno ubbidienti di donne.


Foto di scena di Margherita Cenni

Come tutti noi quando guardiamo, leggiamo i giornali, ascoltiamo racconti, anche Delbono per un attimo diventa l’uomo nero accantonato dai prodromi delle leggi dell’apartheid, e l’attimo dopo è il torturatore dei desaparecidos argentini. Riusciamo però a percepire che la messa a fuoco non cade mai sui processi che coinvolgono i luoghi o le persone, ma cade di volta in volta sull’apparizione dei cantanti jazz che spopolavano e venivano imitati in ogni parte del mondo, o sul corpo luccicante di una Raffaella Carrà transgender (Vladimir Luxuria), icona di un’eleganza accattivante, in grado di bucare la scena anche quando si sente solo il suono dei suoi passi marciare in sala, tra gli spettatori, al ritmo di Tanti auguri (com’è bello far l’amore da Trieste in giù). Appena dietro i paraventi dell’apparente benessere, tutto quello che ancora deve farsi conoscere o riconoscere, grida. 

Nel bel mezzo dello spettacolo i personaggi si ritirano. Nella pozza di luce sul palco grezzo non c’è niente da guardare perché, a un tratto, le parole si fanno visibili. Io so, scriveva in anafora Pasolini, e la voce di Delbono al microfono comincia a perdere morbidezza, ringhia, leggendo da un foglietto di carta spiegazzato, quasi fossero parole prese da appunti suoi. Io so, ripete l’attore, e la sua voce diventa ancora più impastata, perde ogni traccia di riguardo, suona scorretta a chi la ascolta. Poi deflagra immergendo il testo nei versi delle Illuminazioni di Rimbaud, come se l’ossessione del conoscere, pur con tutta la sua carica drammatica, possa e debba essere riconosciuta unanimemente come l’unica cosa in grado di concedere all’uomo una visione del tempo in cui vive e della storia. La rabbia quindi coesiste con la pioggia di coriandoli, si nutre dei personaggi alati come angeli finti che ballano in festa nel finale, sorridendo.


Foto di scena di Margherita Cenni

Niente di tutto quello che ha devastato e generato un’epoca viene tenuto appositamente in disparte; sulla scena tutte le storie si compenetrano lievemente. Non c’è scelta. Solo un’accurata costruzione non per sequenze oppositive, ma in base a un gioco di messa a fuoco o fuori fuoco che, non a caso, in alcune fotografie dello spettacolo trapela pienamente. Rimane, alla fine, un senso di caos. All’uscita gli spettatori sembrano confusi ma nessuno pare scontento o deluso. Delbono ha creato momenti di altissima concentrazione all’interno del bailamme generale e, facendo questo, ha mostrato insieme vite private; storia esibita e storie occultate, senza mettere in chiaro dove comincia l’una o dove finiscono le altre e, soprattutto, senza mettere in chiaro chi è a raccontare cosa. In effetti, se la vita è sogno, il sogno non è mai di una sola cosa.




La rabbia
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