Nel cuore di Riccione il Teatro
del Mare è segnalato sulla via maestra da uninsegna, al pari di tutti i locali
commerciali che si affacciano direttamente sulla strada. Per accedervi bisogna
imboccare una stradina che devia dal percorso principale e conduce sia
allentrata del teatro sia alla Casa del Popolo (simmetricamente tappezzate di
manifesti) sia alle abitazioni, un po occupate e un po sfitte, che si
affacciano sulla via. Larmonia è totale. Le persone che sfilano in centro
davanti alla pletora delle vetrine griffate sono vestite con cura e giudicano
con cognizione di causa gli abbinamenti indossati dai manichini. Sullo sfondo
di ricche fontane e spettacoli luminescenti a riposo, capannelli di uomini
discutono con estrema praticità beghe di lavoro. I ragazzi camminano con
addosso indumenti costosi senza esibirli, portandoli in giro con noncuranza.
Tutto è ricchezza che sprizza unaria di “fatto in casa”. I marchi famosi,
sovrimpressi dappertutto, sembrano non schiacciare le persone ma esserne
alleati, compagni.
Leggere quello che in giro si
reclamizza e si espone diventa rapidamente un automatismo; ci si sorprende a
camminare recitando frasi pubblicitarie senza ricordare dove le abbiamo viste
scritte e perché ci sono rimaste impresse. La strana sensazione di aver “perso”
del tempo, camminando, si impadronisce di chi non ha dimestichezza con lo
scenario urbano e ci si ritrova ad ammirare la disinvoltura pratica dei
negozianti, che anche qui svendono al cinquanta e al settanta per cento le loro
merci. A guardar bene però la svendita generale non ha il sapore, come altrove,
della rassegnazione; sembra dettata dalla convinzione che non il lancio (di una
moda, di una proposta culturale o politica) ma il rilancio tempestivo sia la
chiave per afferrare sempre il nocciolo delle questioni critiche.
Un simile gioco tra messa a fuoco
e sfocatura sta alla base dello spettacolo La
rabbia di Pippo Delbono, andato
in scena venerdì 13 marzo nellambito della rassegna La bella stagione. Lo spettacolo ha inizio ben prima che tutto il
pubblico abbia preso posto; ha inizio addirittura sui foglietti che girano in
sala e nel foyer del teatro, sui
quali sono riprodotte fedelmente le prime battute. Mentre gli spettatori si
salutano e prendono posto, Piero Corso
suona dolcemente la sua chitarra, senza intromettersi tra i convenevoli e
rimanendo quasi nascosto a margine del palco. Esattamente al centro invece Pepe Robledo, in tuta da lavoro, sparge
segatura sul palco come se fosse impegnato, comodamente, nellatto di gettare becchime
a invisibili galline nel recinto della sua aia. Delbono si aggira tuttintorno,
entrando e uscendo dalle quinte, aggiustandosi i vestiti e lanciando saluti a
questa e a quella persona riconosciuta tra il pubblico, continuando nel
frattempo a sistemare i pochi attrezzi di lavoro.
Foto di scena di Margherita Cenni Lattore e regista fa
visibilmente cenno al musicista di sfumare e prende in mano il microfono per
rivolgersi agli spettatori con voce soffice, simile a quella di un prete che
rompa il silenzio in chiesa timoroso di distogliere i fedeli dalla preghiera e
al contempo desideroso di attirarne lattenzione. Comincia così, sui soffiati,
a recitare lincipit che già tutti
conosciamo: quel discorso deittico volto a specificare cosa sia questo
spettacolo a cui stiamo per assistere. Una mescolanza di ricordi e sogni, non
solo di Delbono e degli attori in scena, ma ricordi e sogni che appartengono ai
tempi di Pasolini più che a Pasolini stesso.
Lattore spiega, quindi, quali siano
state le suggestioni allorigine dello spettacolo: libri, film, personaggi,
momenti di vita vissuta. Mentre ci intrattiene, sfidandoci a scomporre e
isolare le parole di Chaplin da
quelle dei Vangeli o di Genet, mette in atto labilità pratica
del costruttore teatrale, cioè di colui che ricostruisce, tramite il teatro,
quel legame non sempre diretto tra il trovare nella memoria, personale o
collettiva, e il fare (nuovo). Foto di scena di Margherita Cenni La presenza costante di Delbono
in scena attira lattenzione del pubblico. Non eclissa i particolari di ciò che
avviene, anzi, li rende più evidenti. Il suo ruolo sembra a tratti quello di un
conduttore televisivo e a tratti quello del personaggio principale di una pièce.
Gli equilibri cambiano infatti a seconda che in scena gli attori si muovano
allinterno o allesterno dello spazio “magico” appena tracciato da Robledo con
il suo tallone sul tappeto di segatura: un cerchio con al centro una croce. Qualcosa
di simile a un mirino fotografico.
Quando Delbono non è in questo
spazio, con addosso gli abiti scuri e sgualciti che, in unaltra epoca,
indossava suo padre, lo vediamo coperto a fatica da una camicia bianca,
sgargiante sotto la luce dei riflettori, quasi quanto il lampo prolungato di un
flash. Accanto a lui (volutamente discosto
dal centro), vediamo ora una coppia presa nel laccio della vita quotidiana, che
danza in una lotta per non mancarsi di rispetto; ora una voluttuosa schiena
femminile, che fa capolino da uno stropicciato abito da sposa usato da
generazioni più o meno ubbidienti di donne. Foto di scena di Margherita Cenni Come tutti noi quando guardiamo,
leggiamo i giornali, ascoltiamo racconti, anche Delbono per un attimo diventa luomo
nero accantonato dai prodromi delle leggi dellapartheid, e lattimo dopo è il torturatore dei desaparecidos argentini. Riusciamo però
a percepire che la messa a fuoco non cade mai sui processi che coinvolgono i
luoghi o le persone, ma cade di volta in volta sullapparizione dei cantanti jazz
che spopolavano e venivano imitati in ogni parte del mondo, o sul corpo luccicante
di una Raffaella Carrà transgender (Vladimir Luxuria), icona di uneleganza accattivante, in grado di
bucare la scena anche quando si sente solo il suono dei suoi passi marciare in
sala, tra gli spettatori, al ritmo di Tanti
auguri (comè bello far lamore da Trieste in giù). Appena dietro i
paraventi dellapparente benessere, tutto quello che ancora deve farsi
conoscere o riconoscere, grida.
Nel bel mezzo dello spettacolo i
personaggi si ritirano. Nella pozza di luce sul palco grezzo non cè niente da
guardare perché, a un tratto, le parole si fanno visibili. Io so, scriveva in anafora Pasolini, e la voce di Delbono al
microfono comincia a perdere morbidezza, ringhia, leggendo da un foglietto di
carta spiegazzato, quasi fossero parole prese da appunti suoi. Io so, ripete lattore, e la sua voce
diventa ancora più impastata, perde ogni traccia di riguardo, suona scorretta a
chi la ascolta. Poi deflagra immergendo il testo nei versi delle Illuminazioni di Rimbaud, come se lossessione del conoscere, pur con tutta la sua
carica drammatica, possa e debba essere riconosciuta unanimemente come lunica
cosa in grado di concedere alluomo una visione del tempo in cui vive e della
storia. La rabbia quindi coesiste con la pioggia di coriandoli, si nutre dei personaggi
alati come angeli finti che ballano in festa nel finale, sorridendo. Foto di scena di Margherita Cenni Niente di tutto quello che ha
devastato e generato unepoca viene tenuto appositamente in disparte; sulla
scena tutte le storie si compenetrano lievemente. Non cè scelta. Solo
unaccurata costruzione non per sequenze oppositive, ma in base a un gioco di
messa a fuoco o fuori fuoco che, non a caso, in alcune fotografie dello
spettacolo trapela pienamente. Rimane, alla fine, un senso di caos. Alluscita
gli spettatori sembrano confusi ma nessuno pare scontento o deluso. Delbono ha creato
momenti di altissima concentrazione allinterno del bailamme generale e,
facendo questo, ha mostrato insieme vite private; storia esibita e storie
occultate, senza mettere in chiaro dove comincia luna o dove finiscono le
altre e, soprattutto, senza mettere in chiaro chi è a raccontare cosa. In
effetti, se la vita è sogno, il sogno non è mai di una sola cosa.
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