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Giardini operistici

di Paolo Patrizi
  Orfeo ed Euridice
Data di pubblicazione su web 25/03/2015  

Incastonato all’interno della stagione operistica, il Festival dell’Opera di Lione è dedicato quest’anno al tema dei Jardins Mystérieux. Vago ma archetipico (l’Armida tassiana, con il suo giardino incantato, è un topos saccheggiato pure dal melodramma), tale filo conduttore ha offerto il destro per un percorso tra Settecento, Novecento storico e opera contemporanea: dai Campi Elisi dell’Orfeo ed Euridice di Gluck alla paradisiaca (o diabolica, a seconda dei punti di vista) isola Elysium raccontata da Franz Schreker nei Gezeichneten, nei cui recessi verginelle e malmaritate vengono rapite e strapazzate, salvo poi uscirne stupite e soddisfatte. Fino ad approdare alle meraviglie botaniche in 3D del Sunken Garden di Michel Van der Aa, con il suo “giardino inghiottito” – proprio nel senso psicanalitico del termine – dove creature devastate dai sensi di colpa, sequestrate in questa terra di nessuno da una sorta di vampiro di anime, dimenticano il proprio passato e, con esso, anche la cognizione del dolore.

Dispiace che sia proprio questa nuova commissione – coprodotta tra Lione, Londra e Toronto – l’anello debole della catena. David Mitchell non è al suo primo testo per un’opera, ma resta preferibile come romanziere che come librettista: la sua capacità d’intrecciare più storie, che ne ha fatto uno degli scrittori d’oltremanica più sensibili alla lezione di Italo Calvino, e il suo gusto per un “romanzo fantascientifico di formazione” qui cedono il passo a una drammaturgia confusa (i personaggi restano oscuri nelle loro motivazioni) e centrifuga (senza una solida reductio ad unum conclusiva la frantumazione dei piani narrativi rimane fine a se stessa), che affatica lo spettatore e porta il compositore a una sorta di stagnazione musicale.


Foto di scena Michel Cavalca

Responsabile anche della regia dello spettacolo, Van der Aa appare fin troppo preoccupato della multimedialità dell’operazione (l’azione scenica si alterna ai filmati, molti dei quali tridimensionali) e dà vita a un prodotto talvolta sorprendente ma mai davvero catturante, in un aggiornamento postmoderno dell’antico concetto barocco della “meraviglia come fine”: non regredita a mera colonna sonora, ma neppure in grado di esprimere autonome sollecitazioni drammaturgiche, la partitura si avvita in un pluristilismo minimalista e iterativo, che non rende giustizia alla cangiante trasparenza che ha caratterizzato altri lavori di questo allievo di Andriessen. Restano, indubbi, l’alta professionalità attorial-canora dei solisti (sia quelli che agiscono in palcoscenico sia quelli presenti solo in video) e la miracolosa precisione dell’appiombo ottenuto dal direttore Etienne Siebens, chiamato a coordinare cantanti reali e virtuali, strumenti in buca e strumenti registrati.

Il passaggio da una novità come Sunken Garden a un classico come Orfeo ed Euridice non è stato poi scombussolante. La regia di David Marton e la drammaturgia di Barbara Engelhardt mirano infatti a una modernizzazione del mito, in una rilettura che sembra guardare più all’oggi (o meglio, ieri sera: la macchina da scrivere con cui Orfeo stila i suoi ricordi ci dice che siamo qualche decennio indietro rispetto ai PC e agli I-Phone in cui naviga l’opera di Van der Aa) che all’eternità fuori dal tempo dei due amanti cantati da Ovidio. Ma se Sunken Garden rifugiava i personaggi in un’anestetizzata smemoratezza, quest’Orfeo trova il proprio nucleo drammatico in quella «crudele memoria» di cui parla il libretto di Calzabigi: tutto viene retrospettivamente raccontato da un Orfeo ormai canuto e claudicante, che affida alla sua Olivetti la storia di resurrezione e nuova morte di Euridice. E il discorso è portato alle estreme conseguenze, perché pure sotto il profilo vocale l’opera viene smembrata tra il protagonista efebico di allora e quello vecchio di oggi, con il ruolo suddiviso tra un Orfeo giovane e controtenore (Christopher Ainslie) e uno anziano e in chiave di basso (il veterano Victor von Halem, classe 1940).


Foto di scena Stofleth

Ulteriormente invecchiato dal trucco, von Halem non si limita comunque a un cammeo: tra lui e il collega l’impegno è più o meno equamente suddiviso, come durata complessiva (Che farò senza Euridice? viene affidato al controtenore, ma sta a lui farsi carico di Che puro ciel); e se la stabilità del suono in qualche momento appare inevitabilmente compromessa, il timbro è ancora sostanzioso. Certo: se, con i debiti trasporti di tonalità, un Orfeo in chiave di baritono può avere una soffice sfericità congrua alla scrittura di Gluck (i precedenti di Prey e Fischer-Dieskau son lì a dimostrarlo), un Orfeo in chiave di basso – anche a volerlo concepire come un uomo anziano – appare improbabile in rapporto alla psicologia canora del personaggio; e sono i limiti di una drammaturgia non sempre rispettosa delle ragioni della partitura (anche il ticchettio della macchina da scrivere si sovrappone alla musica). Tuttavia, il transito dal controtenore al basso – come dire: due opposti estremi vocali e ormonali, che rispecchiano i due opposti estremi di una stessa esistenza – mantiene un suo fascino provocatorio; ed è un ammodernamento efficace che Euridice torni a morire non perché Orfeo si sia voltato a guardarla, ma perché i due, prima di uscire dall’Ade, non hanno resistito alla tentazione di un amplesso anticipato.

Se Orfeo viene duplicato, Amore è addirittura moltiplicato per sei: a incarnare Cupido qui troviamo non un soprano, ma un piccolo manipolo di bravissime voci bianche uscite dal vivaio dell’Opéra de Lyon. Alla fine, insomma, ciò che imbarazza di questo Orfeo diviso in due è solo l’inevitabile confronto: giacché il controtenore Ainslie, fatta salva la correttezza vocalistica, è interprete d’un pallore espressivo desolante rispetto all’anziano von Halem. Così come piuttosto esangue, d’altronde, appare l’Euridice di Elena Galitskaya. Chi crede invece a un forte passo drammatico è il direttore Enrico Onofri, che sigla una lettura musicale senza soverchie tentazioni filologiche –fuor di luogo in una messinscena come questa – e ricava ottime sonorità da un’orchestra con strumenti moderni (non mancavano però i corni naturali) qual è quella di Lione.


Foto di scena Stofleth

Una disinvolta manipolazione delle indicazioni del libretto caratterizza anche la regia di David Bösch in Die Gezeichneten, ma stavolta all’infedeltà della messinscena non è bilanciata una lettura “forte”. L’ambientazione moderna è meno pertinente che nell’Orfeo: se un soggetto mitologico sopporta spostamenti temporali, lo specifico humus culturale sotteso all’opera di Schreker (quel Rinascimento italiano torbido e decadente caro all’immaginario di primo Novecento) si presta meno alle trasposizioni. L’erotismo del plot perde carica eversiva proprio perché il regista lo diluisce in una sarabanda di depravazioni, dalla pedofilia – tra gli adescati c’è pure un bambino – al sadismo: la sotterranea complicità tra rapitori e rapite qui viene meno, e l’isola di Elysium si trasforma da giardino delle delizie a giardino dei supplizi, dove violenza e voluttà di dominio sembrano prevalere sulle altre pulsioni dell’eros. E pure la componente “politica” della vicenda (classe nobiliare sessuomane versus classe politica repressiva) risulta banalizzata, con il doge trasformato nel premier di turno, cocainomane ma braccio armato della Chiesa.

La lettura musicale di Alejo Pérez (che cerca di agevolare l’esecuzione concedendo più d’un taglio e ricorrendo alla versione orchestrale alleggerita, rispetto a quella mastodontica originale, approntata dallo stesso Schreker) punta sulla ricchezza degli impasti timbrici e la cristallina affilatezza dei profili ritmici. Se manca qualcosa, è la percezione dei debiti di quest’opera – nominalmente espressionista e Jugendstil – con il nostro verismo: laddove invece l’ammirazione che Mahler aveva per Giordano si riflette spesso in Schreker, e pure le suggestioni pucciniane della partitura sono quelle di un Puccini introiettato con lenti veriste.

Anche il palcoscenico appare ben sostenuto dal podio, sebbene il cast sia diseguale. Ma almeno il protagonista domina davvero. Alle prese con un ruolo tenorile tanto atipico quanto squisitamente novecentesco (il deforme Alviano, che tenta di compensare la bruttezza facendo della propria vita un’opera d’arte), Charles Workman sembra replicare la parabola di Gregory Kunde: ai suoi bei dì belcantista delicato ma di contenuta espressività, oggi voce certo meno flessibile ma assai più robusta. E, soprattutto, interprete comunicativo e penetrante.




Lettera da Lione. Sunken Garden, Orfeo ed Euridice, Die Gezeichneten.

Die Gezeichneten, Opera in tre atti
cast cast & credits
Orfeo ed Euridice, Azione teatrale in tre atti
cast cast & credits
The Sunken Garden, Opera-film in un atto
cast cast & credits



 
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