Presentato nella Quinzaine des réalizateurs della 67°
edizione del Festival di Cannes, Viviane è il capitolo
finale, dopo Prendere moglie (2004)
e I sette giorni (2008), di una trilogia dedicata alle
relazioni di coppia, realizzata dallattrice/regista israeliana
Ronit Elkabetz a quattro mani con il fratello Shlomi
Elkabetz. Il film ripercorre le tappe del processo di Viviane
Ansalem (interpretata dalla stessa Ronit), moglie e madre di quattro
figli, che dopo trentanni di matrimonio chiede al tribunale locale
di separarsi dal marito Elisha (Simon Abkarian). La
recalcitranza di questultimo, il cui eventuale rifiuto sarebbe
secondo la legge rabbinica sufficiente a invalidare lintera
procedura di divorzio, genera unestenuante guerra di nervi, fatta
di continui rinvii, nuovi atti processuali e attese interminabili.
Viviane è un courtroom movie rigoroso e potente,
nonché unefficace illustrazione del funzionamento della macchina
statale israeliana, per la quale non esistono matrimoni o divorzi
civili, e la legge, interamente ispirata ai mitzvót
della Torah, si applica indistintamente ai soggetti
religiosi e laici. Il Gett, ossia lautorizzazione al
divorzio concessa dal tribunale rabbinico (nonché il titolo
originale del film), non è un semplice atto amministrativo, ma un
rituale altamente codificato, con una forte componente recitativa.
Una volta ricevuto il Gett, dopo averlo opportunamente
piegato, Elisha dovrebbe consegnarlo nelle mani della moglie
dichiarandola pubblicamente libera e «permessa a tutti gli uomini»,
frase che egli non si sente di pronunciare. «Elisha, ridammi la
libertà!», grida Viviane dirigendosi verso il marito, e i presenti
nellaula formano una sorta di ragnatela, che la imprigiona e la
trascina fuori dalla porta.
Una scena del film
Quello degli Elkabetz è un cinema di posture, di sguardi, di
gesti, di parole che si contraddicono, si confermano, si
reinterpretano. La scelta stilistica, ostinata e coraggiosa, di
ambientare quasi tutto il film in una piccola e asettica aula di
tribunale ha una duplice funzione: da un lato, quella di incrementare
la sensazione di claustrofobia generata dal processo, evidente
contrappasso al desiderio di libertà della protagonista (che solo
nel finale sarà in grado di guardare fuori dalla finestra, verso
lesterno); dallaltro, impone allazione una frontalità
rigida, tesa al mantenimento dellordine visivo, prima ancora che
sociale, senza alcuna possibilità di trasgressione.
Figura dominante, quindi, diventa il campo-controcampo, ricerca di
una sintesi tra due piani diametralmente opposti che corrisponde, a
livello formale, alla ricerca di una sintesi tra il desiderio di
rinascita della protagonista e la rigidità degli apparati
burocratici statali. Rompono lunità del tutto solo i pochi
primissimi piani, fuori dallaula, di Viviane e di Elisha, che
creano visivamente rari ma necessari spazi dove il privato può
emergere (e occupare lo schermo), e si può instaurare un dialogo non
più tra due istanze contrapposte, ma tra due esseri umani, ognuno
con le proprie paure e debolezze.
La narrazione, scandita dalle singole udienze, in una coazione
a ripetere che sembra non avere fine, innesta nel genere giudiziario
toni grotteschi e paranoici, dai sapori fortemente kafkiani. Il
continuo gioco al rilancio permette alla storia di far emergere
sempre nuovi particolari, stratificando la vicenda singola e scavando
nella recitazione degli attori. Questi abbandonano progressivamente
la loro posa quasi ieratica di imputati, per rivelarsi nella loro
umanità, in una sorta di climax che acquista rilevanza
proprio nel contrasto sempre maggiore con landamento
inesorabilmente ciclico dei fatti narrati.
Una scena del film La sfera privata si impone, quindi, e di pari passo aumenta
lambiguità dei personaggi: non capiremo mai veramente le
motivazioni che spingono Viviane a chiedere il divorzio, né quelle
opposte che spingono Elisha a rifiutarlo, né i reali sentimenti
dellavvocato Carmel Ben Tovim (Menashe
Noy) nei confronti della sua
cliente. Come in Una Separazione di Asghar Farhadi,
a cui il film degli Elkabetz si ispira apertamente, il dramma privato
si configura man mano come la cartina di tornasole di un intero
sistema. Listanza politica, in entrambi i casi, non riduce la
complessità del vissuto di coppia, bensì, al contrario, la fa
emergere in tutta la sua drammaticità, inserendo la singola vicenda
in precise coordinate spaziali, temporali e culturali, e lasciando
allo spettatore la facoltà di stabilire le connessioni necessarie.
Gli amici e i parenti chiamati a testimoniare, in particolare,
intersecano la vicenda narrata con altre sottotrame, che concorrono a
contestualizzarla e a far comprendere, ai giudici come agli
spettatori, la legittimità del desiderio della protagonista.
Nellaula si alternano donne emancipate (lesilarante cameo di
Rubi Porat-Shoval), sottomesse (la struggente performance di
Evelyn, interpretata da Evelyn Hagoel, chiamata a testimoniare
ciò che il marito le ha ordinato di fare), nubili (Galia,
interpretata da Keren Mor, che sostiene il divorzio di Viviane
per entrare nelle grazie di suo marito). Il tribunale si presenta,
quindi, come il luogo deputato per lesibizione del privato, e per
lo sviluppo di riflessioni, talvolta in chiave ironica e divertita,
su questioni che travalicano lhic et nunc dello specifico
contesto israeliano.
Il contrasto del film, detto altrimenti, non riguarda tanto (o non
solo) quello tra religione e laicità, o tra genere maschile e
femminile, quanto quello, più ampio, tra desiderio e dovere, tra
ordine e disordine, tra individuo e società; più freudianamente,
tra Es e Super-io. Non ci può essere vera libertà
finché questi contrasti resteranno irrisolti; ossia, finché la
protagonista, vero io mediatore, non ricalibrerà la propria
modalità di azione allinterno di questi due piani. È in questo
senso che va interpretato il gesto di Viviane, la quale, dopo essersi
slegata i capelli in aula, se li accarezza, ignorando deliberatamente
i perentori richiami al decoro da parte del tribunale rabbinico.
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